Foggia, ecco come nasce l’emergenza rifiuti
Calabria. Falsi esami all'Unical, la Facoltà vuole costituirsi parte civile
Basilicata, regione più povera d'Italia.
Fiat: Melfi, stop produzione Punto Evo.
Fiamme Gialle, blitz in tutto il Veneto
Piccole imprese strangolate, lo Stato paga a quattro mesi. «Nel Sud più ritardi»
Banca d’Italia. «Tocca a me? Siamo civil servant»
Atene dice sì all'austerity
Svizzera, referendum contro l'immigrazione. E i Cantoni si sgambettano tra loro
Svizzera. Ucciso Muammar Gheddafi
Il dopo Gheddafi può essere anche peggio
Pochi bambini, addio “Grande Serbia”
Foggia, ecco come nasce l’emergenza rifiuti
Foggia – UN side loader enorme s’avvicina che sono le 9.53 ai quattro cassonetti ubicati alla convergenza tra Via De Petra e Piazza Achille Donato Giannini. Alle loro spalle, uno dei muri di recinzione del campo Coni, una piazzetta in asfalto, un abbozzo di parchetto caduto in digrazia, senz’alberi nè ciuffi verdi. E non è questione di stagione. I quattro contenitori della spazzatura, vecchi, sfasciati e bruciati in più d’una occasione, traboccano. Sono circondati di stracci, valige, borse, scarpe. Tutta roba resa lercia dalla presenza indiscreta di residui di cibo, banchetto buono per cani e ratti.
In città, tutti evitano con discrezione di parlare di nuova emergenza. Dall’amministrazione alla Cgil si fa il giro delle reponsabilità, patata bollente che scoppierà dai troppi colpi subiti. L’ipotesi più accreditata è che la maledizione dipenda dalla saturazione delle discariche e dall’estinguimento dei fondi.
Ed invece, quel che accade a Foggia parla un linguaggio diverso, già ampiamente documentato, ad esempio, dalle inchieste pubblicate dal giornalista de l’Attacco Francesco Bellizzi (poi minacciato proprio per aver addossato buona parte delle responsabilità ai dipendenti della municipalizzata). E che si ripete quotidianamente sotto gli occhi dei cittadini. In Via De Petra succede che, svuotati due cassonetti, il camion vada via, lasciando in terra la maggior parte del lavoro (ma questa è opera che compete alle squadre manuali, invisibili) e altri due recipienti così come sono: pieni. Va via il camion, che sposta anche di qualche metro la collocazione dei cassonetti, onde evitare ulteriori storture della struttura, restano invece due ragazzi, un maschio ed una femmina. Con le mani affondate nella spazzatura hanno fatto compagnia al mezzo dell’Amica per buona parte del tempo. La macchina con le quattro frecce, loro alla ricerca di vestiti. Sono giunti con una macchina bianca, di fabbricazione tedesca e targa bulgara.
C’è da pensare che, più che i mezzi ed il carburante, alla politica servano delle mani che raccolgano quanto resta in giacenza sull’asfalto, a nutrire l’emergenza e a fagocitare gli ultimi scampoli di pulizia di un capoluogo in scacco della sporcizia. Come a conferma, dall’altra parte della strada, circa tre-quattrocento metri più avanti, dove Via De Petra s’interseca con via Luigi Einaudi (è una zona di cui abbiamo parlato spesso e che accoglie lo scheletro di un parco giochi trasformato in ectoplasmatica presenza) in uno spiazzo adibito a parcheggio a pochi passi dalla sede dell’Aci di Foggia, due side loader si incrociano. Gli autisti parcheggiano, scendano dalle rispettive cabine, si parlano in maniera concitata per qualche lunghissimo istante. Sbraitano. Ma è come se nessuno notasse che, a due metri da loro, due cassonetti strabordano di spazzatura. Quando risalgono, uno scappa in un senso ed uno nell’altro, mentre i cassonetti rimangono pieni ed intatti. Neppure dieci secondi dopo, due residenti di Via Luigi Imperati s’accostano, danno una rapida occhiata a quei mezzi i dissolvenza e scagliano con fare nervoso altre buste in terra. Proviamo, occultando la nostra identità, a brontolare, li riprendiamo. Loro rispondono per le rime e lamentano che non ci sono altre soluzioni. E indicano le sagome meccaniche dei mezzi che non ci sono più.
CONFESERCENTI:”AUTOGESTIONE DEI RIFIUTI” - La loro è un’accusa silenziosa ma inappellabile, che fa seguito, senza clamore, a quelle lanciate, in questi giorni, da svariate associazioni cittadine. Tutte indignate e tutte identicamente convinte che l’errore sia a monte, nel sistema di gestione, nell’incapacità di chi raccoglie e di chi smaltisce, nella pochezza di un piano incosistente, piuttosto che nella mancanza di disciplina dei singoli. Proprio oggi, Carlo Simone, presidente provinciale di Confesercenti, ha lanciato un nuovo disperato appello a fare presto per scongiurare il deterioramento di una situazione ormai al limite. La proposta
dell’associazione dei negozianti è a metà strada tra proposizione e provocazione. Simone lancia infatti l’idea d’una “autogestione dei rifiuti”. Che fa il paio con l’ammissione d’inettitudine della municipalizzata di Corso del Mezzogiorno.
UN UNICO AMMASSO DI MONDEZZA - Dar torto a commercianti e popolazione è praticamente impossibile. Foggia è un unico ammasso di mondezza. E la sassaiola di martedì contro un camion dei pompieri chiamato a domare le fiamme che ardevano uno dei cassonetti della città è la prova provata di come il vandalismo abbia ceduto il passo all’organizzazione di una protesta urlata e scomposta. E mentre la politica si lancia in attestati di stima, è sufficiente un giro per le periferie per capire quanto, invece, il fenomeno sia ampio. Via Trinitapoli è un continuum di rifiuti bruciati ed un odore che colpisce dritto nei sensi. Ci vuole uno stomaco di ferro ed una grande resistenza per avvicinarsi ai cassonetti più distanti dal centro abitato. Una signora sulla sessantina, superata la lingua d’asfalto che divide il cancello del suo locale dal contenitore della spazzatura, lotta con i mucchi di piatti e di scarpe risparmiati dai roghi. In mano, un cassettino di plastica ricolmo di scarti alimentari. Ci guarda intimorita mentre scattiamo un paio di foto. Biascica qualche protesta, poi ritorna dentro.
RIONE MARTUCCI - Il panorama non cambia, anzi finisce col peggiorare, spostandoci in direzione Rione Martucci. Nel quartiere al di qua del passaggio a livello, c’è gente che sostiene di non vedere miglioramenti da almeno una settimana. “Siamo abbandonati a noi stessi”, grida in dialetto un uomo minaccioso solo all’apparenza. “Prima erano tutti qua a fare comizi, ma oggi sono tutti chiusi nelle loro stanze. E chi li ha visti più?” sbotta sua moglie che è un’insegnante in pensione. Abitano nel Rione da una vita, “da quando esiste, da quando era solo una campagna disordinata ma pulita”. La pulizia, ora, manca, ma sul disordine è cambiato poco. A confine con un campo con affaccio Poligrafico, due cassonetti restituiscono alla città mobilia varia ed eventuale, dai comodini ai tavoli. Tutto il resto del quartiere, dalle zone storiche, a quelle di nuova costruzione, è il sunto dell’abbandono. Mucchi di spazzatura giacciono miseramente dietro cancelli in ferro che richiamano alla mente promesse infinite di cantieri mai realizzati.
VILLAGGIO ARTIGIANI: “OBBLIGATI ALL’INDISCIPLINA” - A circa un chilometro, Villaggio Artigiani. Per un tratto della cronologia di quest’emergenza rifiuti, la zona produttiva del capoluogo ha rappresentato il punto più basso e pericoloso. Nemmeno un paio di mesi fa fu rinvenuta farina di sangue dell’Asl di Barletta. Da quel momento, sarebbe dovuto scattare il controllo serrato di istituzioni e magistratura. Invece, si è fatto a gara a chi la sparava più grossa, se le minoranze politiche o le maggiornaze governative. Con il risultato che le urla hanno a loro volta seppellito il problema, occultandolo. O, addirittura, retrocedendolo nella scala delle priorità programmatiche. Tutto, mentre Istat, Legambiente, Ispra, Svimez continuano a narrare racconti di sofferenza. Un città senza lavoro, esposta all’infiltrazione della mala, atterrita dai vandalismi che sono pane quotidiano, con un tasso di differenziata ridotto al lumicino e cervelli in fuga come non mai. “Una città dove, da 30 anni, a guadagnare sono i soli costruttori”, sentenzia Mimmo Di Gioia, Libera Foggia. Dall’imbocco della zona artigiana, fino alle casermette, dalle carceri sino alle traverse che sboccano su Via Manfredonia, è un inno alla crisi-spazzatura. Da quasi un anno, le piccole imprese invocano un piano raccolta speciale. D’altra parte, anche se in aumento, gli appartamenti sono minoranza. Ecco perché le buste non sono molte. Quel che abbonda nei cassonetti sono materiali speciali, a volte, specialissimi. Si trova traccia di bidoni in latta con fondi sporchi di oli e solventi, una marea di cartellette contenenti fatturazioni (c’è anche sovrimpresso il nome del destinatario, caso mai si volesse intervenire con certezza sanzionatoria), pezzi in plastica, alluminio ed in metallo, spesso molto ingombranti. “Prima l’Amica, poi il sindaco ci avevano assicurato che avrebbero provveduto – si lamenta un meccanico – E invece, guardati intorno”. Confessa la sua propria indisciplina, ma solo perché “da queste parti non abiamo alternative all’indisciplina”. A detta sua, “non vogliono risolvere il problema”.
CEP E MACCHIA GIALLA – Spostandosi verso la periferia Sud, lo scenario non muta. Cep e Macchia Gialla sono allo stremo, con la peggiorazione dello sverso dei cantieri che, in barba alle leggi, si adeguano a gettare il materiale di risulta all’interno del tratturo Foggia-Incoronata. Diversi cassonetti sono vuoti, ma tutt’intorno è una geremiade di sacchi e scarpe e carte e stendibancheria e vecchi zaini e ante e mobili. I vestiti sono gettati alla rinfusa. “Sono le nuove bancarelle del mercato”, si rattrista Tonino Soldo, Legambiente Foggia. Infatti, tra un bidone e l’altro, vanno aumentando le auto con targhe bulgare e che percorrono a velocità limitata le lingue d’asfalto ed i ragazzi africani che, da primo mattino, spingono, goffi, carrozzine caricate con bustoni gialli pieni di ogni cosa. “Quelle della mia misura le uso. Alcune le regalo ai miei amici. Altre ancora provo a venderle o a scambiarle per fare qualche soldo e poter mangiare”, ci racconta in francese un ragazzo congolese non dopo un piccola resistenza e la garanzia che non l’avremmo fotografato. Frigoriferi a frotte invece, stazionano in tutte le strade d’uscita della città. A poca distanza dall’Ipercoop, ad esempio, ce ne sono ben tre, accantonati nei pressi di un solo cassonetto. Un ragazzo, all’apparenza bulgaro o rumeno, lo sta martellando per staccarne un’anta. Chiediamo a cosa serva, ci guarda strano e fa per alzarsi. Gli s’avvicina un cane, scaccia anche lui e, placido, il quadrupede va a banchettare fra la spazzatura. Per chi arriva, Foggia comincia da qui. Per chi vi esce, vi finisce.
Calabria. Falsi esami all'Unical, la Facoltà vuole costituirsi parte civile
Il Consiglio di facoltà di Lettere e Filosofia intende costituirsi parte civile nel processo sui falsi esami all'Università della Calabria
20/10/2011 Il Consiglio di facoltà di Lettere e filosofia dell’Università della Calabria ha approvato una mozione con la quale si manifesta la volontà di costituzione di parte civile nel processo su presunti esami truccati nella medesima facoltà. È quanto si rende noto in un comunicato dell’Unical.
«L'inchiesta della Procura di Cosenza, relativa alla irregolarità di un cospicuo numero di statini – è scritto nel comunicato – ha portato una inaspettata notorietàalla Facoltà, vittima di ciò che è accaduto. È stata la Facoltà stessa, dopo la segnalazione, da parte di alcuni docenti, di irregolarità nelle firme apposte sui documenti di esame, a richiedere l’intervento del Rettore per coinvolgere l’autorità giudiziaria al fine di tutelare le carriere legittime dei suoi studenti e la propria attività. Agli inquirenti esprimiamo il nostro non formale ringraziamento per l’attività fin qui svolta e quella ancora in essere, certi che sarà fatta piena luce su tutte le responsabilità individuali di un atto che colpisce noi e i nostri studenti due volte: come cittadini che rispondono alle leggi e che credono nell’autorità che da esse promana e come docenti e studenti che vedono la loro attività di formazione, svolta con ruoli e a titoli differenti, ridotta al rango di merce e di strumento di clientela e corruzione».
«Per questi motivi – prosegue la nota – abbiamo garantito e sempre garantiremo la piena collaborazione necessaria alle indagini. Riteniamo doveroso che chiunque si sia macchiato di questi atti sia individuato e affronti la giusta sanzione delle leggi della Repubblica: questa valutazione riposa anche sulla consapevolezza che è la cultura democratica del Paese a essere minata dalle pratiche corruttive che coinvolgono le istituzioni pubbliche, ovunque esse si verifichino. Soprattutto in una regione come la nostra, la battaglia per la legalità deve essere la prima preoccupazione di cittadini ed educatori».
Basilicata, regione più povera d'Italia.
La politica faccia autocritica
La classe dirigente cambi passo, apra una nuova stagione di rilancio
20/10/2011 DEI tanti e dettagliati dati del “Rapporto Povertà 2011” della Caritas, colpisce la sintesi d’insieme dell’analisi sulla nostra regione, che dice: “In Basilicata, l’incidenza della povertà relativa è superiore alla media nazionale: nel 2010 il 28,3% delle famiglie residenti si collocava sotto la linea di povertà relativa. Rispetto al 2009 la povertà è aumentata di 3.2 punti percentuali (coinvolgeva il 25,1% delle famiglie). Nel quadro complessivo, la Basilicata risulta la regione più povera d’Italia seguita dalla Sicilia e dalla Calabria; al contrario la Lombardia, l’Emilia Romagna e l’Umbria risultano le tre regioni meno povere”. Ora, è ovvio che la povertà assoluta è cosa diversa rispetto alla povertà relativa, ma la povertà relativa è più insidiosa e sfiancante di quella assoluta, perché non si vede, non è eclatante, non si accoppia a degrado sociale o a fenomeni evidenti ed emergenziali (file alle mense caritatevoli, accattonaggio, disagio sanitario dei senza fissa dimora d’inverno, come capita nelle metropoli, ecc.), ma crea una bassa e costante bassa pressione nella società, un’astenia e una sfiducia che impoverisce l’intero tessuto sociale, come una febbricola che non oltrepassa mai i 38°, ma che è massimamente debilitante.
Più volte abbiamo affermato che non sarà mai il Pil di un territorio a dirne il benessere e la qualità della vita, ma risultare nero su bianco la regione più povera d’Italia – benché non ci sia nulla di cui vergognarsi – è qualcosa che chiama direttamente in causa le scelte e le strategie della politica sul fronte dello sviluppo e delle tematiche legate al lavoro, anche perché non siamo sempre stati come adesso la regione più povera del nostro Paese. Ci chiediamo, in altri termini, quali altri dati e quali altre notizie occorrano per indurre una classe dirigente (immobilizzata da continue faide per il potere) a fare almeno un po’ di autocritica, e magari rilanciare l’azione di governo, per finalmente mettere in campo strategie innovative ed efficaci per rianimare una regione che è in estrema difficoltà (e non solo perché c’è la crisi a Wall Street, o per colpa del Governo Berlusconi). Non siamo populisti o semplificatori, e sappiamo bene che dietro la povertà ufficiale spesso c’è economia sommersa, evasione fiscale, assistenzialismo indiretto, un basso costo della vita. Ma queste “giustificazioni” sono, appunto, il segno tangibile di una società ferma e paralizzata che si “arrangia” e che vive di espedienti – e anche questo, a dirla tutta, è un fallimento della politica. Da via Anzio la parola d’ordine è ripetere in ogni dove che “nessuno ha la bacchetta magica”. D’accordo, nessuno ha la bacchetta magica. Ma quale altra evidenza occorre per cambiare il passo, per aprire una nuova stagione di rilancio economico e sociale della nostra regione, e per creare un po’ di inquietudine programmatica? Deve venire la fine del mondo per costringere i politici di via Anzio ad ammettere che c’è qualche problema? Anche perché i politici non sono pagati per dire ai cittadini arrabbiati “diteci voi cosa dobbiamo fare”, ma si presume che abbiano in mente una strategia e una visione d’insieme. Appunto, si presume.
Andrea Di Consoli
Fiat: Melfi, stop produzione Punto Evo.
De Nicola (Fiom): «grande preoccupazione» per il futuro dello stabilimento
De Nicola (Fiom) ha espresso «grande preoccupazione» per il futuro dello stabilimento lucano: «Se non sarà deciso un secondo modello da produrre - ha detto il segretario regionale della Fiom - si prevedono altri due anni molto dolorosi per i lavoratori»
20/10/2011 I rappresentanti lucani di Fiom, Fim e Fismic hanno reso noto che per adeguare i flussi produttivi alla domanda di mercato, nello stabilimento di Melfi (Potenza) della Fiat la produzione della «Punto Evo» resterà ferma dal 18 al 29 novembre e il 2 e il 9 dicembre, giorni nei quali per i lavoratori sarà richiesta la cassa integrazione ordinaria.
DE NICOLA (FIOM) - Il segretario regionale della Basilicata della Fiom, Emanuele De Nicola, ha espresso «grande preoccupazione» per il futuro dello stabilimento lucano. «Questi giorni di stop alla produzione si aggiungono ai lunedì e ai venerdì fino al 14 novembre di cassa integrazione già comunicati nelle scorse settimane. Riteniamo sempre più indispensabile aprire con la Fiat un tavolo di discussione sul piano industriale per l’Italia. In particolare, per Melfi – ha proseguito De Nicola – se non sarà deciso un secondo modello da produrre, si prevedono altri due anni molto dolorosi per i lavoratori».
TORTORELLI (UILM) - Per il coordinatore regionale lucano della Uilm, Vincenzo Tortorelli, «si può ristabilire fiducia tra i metalmeccanici ed in generale nel Paese solo se si agisce rapidamente sull'occupazione e sugli investimenti. Questo è ancora più attuale per la Fiat e il Programma Fabbrica Italia». «Il decreto per la crescita e lo sviluppo – ha aggiunto - continua ad essere una vaga promessa. Noi siamo scettici che si possano realizzare delle misure efficaci a costo zero. La crescita e lo sviluppo, quindi, si determinano non con tagli , o partite di giro. Per i metalmeccanici basta non far pagare più chi ha già pagato. Per quel che ci riguarda una cosa è certa: provvedimenti e manovre successive – ha concluso Tortorelli – non potranno più incidere sulle tasche di lavoratori e pensionati che hanno già dato».
Fiamme Gialle, blitz in tutto il Veneto
Al setaccio cantieri edili e fabbriche
1230 casi di assunzioni irregolari con 290 imprenditori denunciati. Nel Padovano fenomeno rivelante, evasione per circa 1 milione di euro. Controlli in tutte le province venete: due sospensioni dell'attività
VENEZIA - Due cantieri edili sospesi, 483 lavoratori irregolari o in nero accertati, 50 segnalazioni: è questo il risultato è dell'imponente servizio svolto in Veneto, in una sola giornata, dalla guardia di finanza regionale in 250 cantieri edili (1500 lavoratori controllati) secondo un piano di lavoro coordinato dal comandante regionale delle fiamme gialle, il generale Walter Lombardo Cretella. Un'operazione capillare ispettiva su cantieri edili ed opifici alla ricerca di «lavoratori in nero» che ha portato, dall'inizio dell'anno, a 290 imprenditori denunciati e alla scoperta di 1230 casi di assunzioni irregolari .
«L'intervento - ha spiegato il generale nella conferenza stampa a Venezia, presenti i comandanti provinciali del Veneto - fa parte delle operazioni messe in campo dopo le cosiddette "morti bianche" che recentemente, ancora una volta, hanno destato la preoccupazione del Presidente della Repubblica, dei sindacati e della società civile». La strategia operativa delle «fiamme gialle» ha riguardato il contrasto dello sfruttamento dei lavoratori che, ha osservato Lombardo Cretella, «frena crescita ed economia legale e favorisce la proliferazione di forme di criminalità diffuse: favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e "caporalato"», un fenomeno quest'ultimo presente anche in Veneto sebbene, finora, non è stata valutata la consistenza.
Divisi per province, Padova è quella in cui il fenomeno è stato rilevante: 15 controlli (10 nel settore edile con una ditta irregolare, e 5 nelle cooperative di cui 3 irregolari), riscontrando 2 lavoratori in nero, 431 irregolari quasi tutti immigrati operanti soprattutto nel settore delle cooperative di servizio (facchinaggio) per un omesso versamento di contributi previdenziali e ritenute d'acconto Irpef pari a 915.817 euro. Una ditta edile dell'alta padovana ha subito la sospensione dell'attività. L'altra sospensione (per violazioni della sicurezza sul lavoro) è avvenuta a Occhiobello, nel rodigino, dove i controlli sono stati 20 (quasi tutti i cantieri aperti nella provincia) accertando solo 2 casi di lavoro in nero a Porto Tolle. Nel bellunese i controlli sono stati 12 con un laboratorio di occhialeria a Seren del Grappa gestito da cinesi in cui c'erano 3 lavoratori in nero.
Due settimane fa in un capannone di Alano di Piave erano 26 i lavoratori in nero e con la sicurezza sul lavoro completamente ignorata. Nel Vicentino, dove sono stati 27 i controlli (10 lavoratori in nero), è emerso una situazione su cui le «fiamme gialle» stanno svolgendo accertamenti: diverse persone avevano una partita Iva e come ditta individuale, quasi certamente un'escamotage per coprire il loro ruolo di lavoratori attivi per eludere così gli obblighi contributivi e fiscali. Infine nel veronese i controlli sono stati 18 (5 in nero, 19 irregolari e 6 violazioni amministrative), nel trevigiano i servizi sono stati 16 (uno in nero, due irregolari) e nel veneziano 33 (8 in nero, e 2 violazioni amministrative). (Ansa)
Piccole imprese strangolate, lo Stato paga a quattro mesi. «Nel Sud più ritardi»
Allarme di Fondazione Impresa: in 2011 quadro si è aggravato Sanzioni Ue per chi non rispetta i 30 giorni.
MILANO - Il legislatore comunitario l'ha messo nero su bianco già da un anno: la pubblica amministrazione deve provvedere al pagamento dei servizi richiesti alle imprese entro il termine tassativo di 30 giorni, pena sanzioni e diffide. E l'Italia come si sta muovendo per accogliere i desiderata di Bruxelles? Per ora – dopo una gestazione lunga mesi – il disegno di legge che tra le altre misure tenta di recepire il portato comunitario è quello elaborato da Raffaello Vignali e il suo Statuto delle Imprese. Proprio giovedì l'approvazione unanime al Senato e ora l'ultimo – definitivo – passaggio alla Camera prima della promulgazione. Ma al netto dei tempi – spesso biblici – della politica quale situazione si trovano a fronteggiare le oltre 4 milioni di piccole e medie imprese italiane?
IL RAPPORTO - La veneta Fondazione Impresa, nella sua ultima indagine condotta su un campione di oltre 1.200 aziende con meno di venti addetti, lancia l'allarme per il ritardo dei pagamenti di servizi e commesse da parte dello Stato. Problema conclamato, certo, la medicina la si conosce, ma l'imposizione comunitaria sta sortendo gli effetti sperati? Per ora no, anzi. L'Italia, già maglia nera in Europa, continua a proseguire la sua folle corsa a ritroso, accumulando anno dopo anno dati poco lusinghieri. Scrive Fondazione Impresa che nel primo semestre 2011 i tempi medi di pagamento della pubblica amministrazione nei confronti delle pmi si è ulteriormente dilatato di 7,8 giorni raggiungendo, in valore assoluto, poco più di 92 giorni complessivi. Ma il dato che preoccupa di più è quello relativo ai tempi di pagamento nei confronti delle imprese manifatturiere, su cui la nostra economia ha costruito nei lustri passati l'architrave per entrare a pieno titolo tra i Grandi del mondo. Ebbene, qui i tempi medi di solvibilità da parte dello Stato supera persino i 120 giorni, quattro mesi tra la realizzazione di una commessa e la sua effettiva contropartita in denaro.
LA GEOGRAFIA DEI RITARDI – Il divario tra questi due momenti complica enormemente chi è sul mercato perché è costretto a indebitarsi con le banche per pagare a sua volta i fornitori, i propri dipendenti, mettersi in regola con il fisco, impedendogli così di fare investimenti in ricerca e sviluppo e diminuendone la capacità di fare export in un mercato domestico che langue per colpa di consumi fermi al palo. La palma indiscussa dei più vessati possiamo attribuirla a chi fa impresa (e lavora per conto dello Stato) nel sud del Paese. Un'altra faccia della questione meridionale, perché il tempo medio di pagamento qui supera i 116 giorni contro i 90 attesi dalle pmi del nord-ovest e gli 83 di quelle del nord-est.
LA SCURE COMUNITARIA – Ecco perché lo Stato inadempiente nei confronti dei privati potrebbe dar luogo a una spirale negativa nel caso venisse recepita con celerità la direttiva comunitaria 7/2011 che prescrive il limite massimo di un mese tra erogazione di un servizio e corrispettivo pagamento. Se ora in nessuna parte del Paese il limite è rispettato quando il legislatore italiano accoglierà il dettato comunitario il rischio che si staglia dietro l'angolo è un rincorrersi di diffide e sanzioni nei confronti di ministeri ed enti locali. Con un aggravio insostenibile per la spesa pubblica? Alla politica l'onere di trovare il compromesso tra le richieste legittime delle imprese e la tenuta dei conti pubblici, già gravati dal fardello sempre più pesante di interessi crescenti sul debito.
Fabio Savelli
Banca d’Italia. «Tocca a me? Siamo civil servant»
Rossella Bocciarelli
Non è di Milano, è nato a Napoli, la Napoli colta e raffinata che fu patria di elezione di Benedetto Croce; poi ha studiato a Roma al liceo Tasso e da ragazzo imparava l'impegno sociale facendo lo scout alla parrocchia di San Bellarmino.
Però ieri sera Ignazio Visco è stato designato nella "lettera" che dà l'avvio alla procedura di nomina del nuovo governatore della Banca d'Italia, dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dopo un lungo vertice con il leader della Lega Umberto Bossi e con il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti e dopo un decisivo colloquio tra Berlusconi accompagnato da Gianni Letta con il presidente della Repubblica. Visco ha messo tutti d'accordo. E al premier che ieri sera, incontrandolo per la prima volta, gli chiedeva gli chiedeva il motivo per cui «tutti parlano bene di lei», rispondeva «Noi siamo civil servant». La cosa più singolare è che chi ha avuto modo di parlare con l'uomo che sarà il successore di Mario Draghi a via Nazionale soltanto un'ora prima della scelta del presidente del Consiglio, sa che Visco non si aspettava assolutamente di poter essere il prescelto, tanto più al termine di una partita lunga e complicata come quella che si è conclusa ieri.
Sessantadue anni, sposato, tre figlie, finora vicedirettore generale della Banca d'Italia, Visco è un economista di livello: maneggia con disinvoltura e grande competenza gli strumenti statistici (negli anni '80 ha messo in piedi il modello econometrico trimestrale dell'economia italiana) ed è stato allevato alla stessa scuola di politica economica estremamente pragmatica e aperta ai migliori contributi internazionali alla quale appartiene Mario Draghi: quella dell'economista Federico Caffè. Ma c'è un altro maestro, ormai molto anziano, che Visco non dimentica mai di andare a trovare quando va negli Stati Uniti, passando per Philadelfia: il premio Nobel Laurence Klein.
L'attenzione per il sociale che coltivava attivamente da giovane gli è rimasta come interesse di ricerca e approfondimento culturale: nel suo ultimo libro "Investire in conoscenza" si insiste a lungo sulla necessità di potenziare il capitale sociale del Paese.
L'apprezzamento per la cultura si è anche tradotto di recente nell'interesse per l'organizzazione delle giornate della cultura italiana a Francoforte organizzate quest'anno dalla Banca d'Italia, che si sono aperte martedì sera a Francoforte con il concerto di Claudio Abbado.
Il profilo intellettuale e culturale di Visco è dunque di assoluta continuità con quello di Draghi. E la sua vita professionale a via Nazionale si è svolta sotto la guida dei governatori che hanno forgiato la Banca d'Italia migliore: assunto nel 1972 con Guido Carli governatore, Visco divenne capo del servizio studi nel 1980 durante il governatorato di Carlo Azeglio Ciampi.
Rimasto in Banca fino al 1997, dal '98 al 2002 Visco ha poi diretto la ricerca dell'Ocse. Del resto, da quando è entrato in Direttorio il 9 gennaio del 2007 è sempre stato il deputy di Draghi in tutti i contesti internazionali: dai G8-G20 alle riunioni che invece riguardano l'Europa.
Ed è in questo contesto che si è stabilita anche una proficua collaborazione istituzionale con il ministero dell'Economia e con il direttore generale Vittorio Grilli, in particolare, con il quale Visco partecipa al Comitato monetario europeo. E anche al Tesoro confermano: c'è «un rapporto ottimo, di stima personale e professionale» tra il ministro e il neo governatore. Del resto, all'ultimo G20 di Parigi, Visco e Tremonti sono stati sempre seduti vicino, sia nei tavoli di lavoro sia a cena.
Dal Tesoro si ricorda anche che Visco ha sempre partecipato negli ultimi mesi ai tavoli per le misure sullo sviluppo. Il neo governatore è anche più volte intervenuto come relatore ai convegni dell'Aspen Institute di cui Tremonti è presidente.
Apprezzamenti bipartisan
Napoletano, apprezzato economista, allievo di Federico Caffè: Ignazio Visco dal 2007 è vice direttore della Banca d'Italia, dopo essere stato capo servizio studi dell'Istituto di via Nazionale e capo economista all'Ocse. Il governatore designato di Bankitalia è da sempre sostenitore della crescita dell'economia, più volte sollecitata con la richiesta di «decisioni rapide e coraggiose» al governo, senza incidere pesantemente sul fisco. Visco ha ricevuto a più riprese attestati di stima bipartisan, sia dal centrosinistra che dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti dal quale ha di recente avuto l'incarico di mettere a punto progetti per lo sviluppo.
Riconoscimenti dall'estero
Anche all'estero Visco gode di buona reputazione grazie all'esperienza all'Ocse e alle sue attività presso la Bri, la Banca dei Regolamenti Internazionali con sede a Basilea alle cui riunioni partecipa regolarmente. Di buone letture, conoscitore profondo della storia, ha più volte sottolineato l'importanza della cultura e dell'istruzione per rilanciare e migliorare il Paese.
Il curriculum
Nato a Napoli il 21 novembre 1949, sposato con tre figlie, Visco nel 1971 si laurea con il massimo dei voti in Economia e commercio a La Sapienza di Roma. Il suo curriculum è ricco di incarichi: presidente del Comitato relazioni internazionali del Sistema europeo Banche centrali (Sebc, 2009-10); membro del Comitato dei Supplenti del G-7, del Comitato dei Supplenti del G-20, del Comitato economico e finanziario della Ue. Visco nel 2009 ha dato alle stampe il volume "Investire in Conoscenza per la crescita economica".
Atene dice sì all'austerity
Scontri in piazza, un morto
Via libera sul filo di lana in Parlamento (154 sì e 144 no) ai tagli a stipendi pubblici, pensioni e statali. Un manifestante colpito da una pietra muore d'infarto in ospedale. La Troika: "Sì agli aiuti, ma non bastano ancora"
Il Parlamento greco vota l'ok al piano di austerity (154 deputati hanno votato sì, 144 hanno votato contro) destinato a sbloccare la sesta tranche da 8 miliardi di aiuti internazionali, ma la seconda giornata di sciopero generale contro le misure del governo si chiude in tragedia. Un operaio edile 53enne del Pame, il sindacato comunista, le cui generalità non erano state rese note in serata è morto "d'infarto" - dicono fonti mediche - all'Evangelismos Hospital dove era stato portato in stato di incoscienza. L'uomo non presentava ferite quando è arrivato in ospedale, ha detto uno dei sanitari della struttura, smentendo le voci secondo cui la vittima era stata colpita alla testa da una pietra durante gli scontri a Syntagma tra anarchici incappucciati e il servizio d'ordine del Pame, schierato a difesa del Parlamento per provare a evitare incidenti con la polizia.
Le manifestazioni sindacali - per il secondo giorno sono scese in piazza decine di migliaia di persone - non sono però riuscite a bloccare l'ok del Parlamento al piano lacrime e sangue imposto ad Atene dalla troika Bce, Ue e Fmi. Non senza conseguenze per la maggioranza di governo. Il premier socialista Georges Papandreou ha annunciato l'espulsione dal partito dell'ex ministro del lavoro Louka Katseli, che non ha votato tutti gli articoli della nuova manovra. La maggioranza parlamentare si riduce dunque a 153 deputati, 9 in più dell'opposizione.
Il nuovo giro di vite, rivisto e corretto in corso d'opera
dalla Bce, prevede una sforbiciata del 20% agli stipendi pubblici, un ridimensionamento delle pensioni e il via al piano di ristrutturazione della pubbica amministrazione. Cira 30mila persone dovrebbe finire in mobilità entro fine anno al 60% dello stipendio in attesa di un altro posto. Se non si materializzasse il nuovo lavoro, dopo un anno arriverebbe il licenziamento. Si tratta solo dell'aperitivo del piano che prevede il taglio di un quinto dei dipendenti statali entro il 2015.
La Troika intanto ha dato il via libera con riserva alla nuova tranche di aiuti da 8 miliardi di euro esprimendo però di nuovo forti dubbi sull sostenibilità del piano Papandreou. La bozza di relazione di Ue, Fmi e Bce precisa secondo la France Presse che il cammino del risanamento dei conti pubblici è "positivo" anche se servono "ulteriori sforzi" per far fronte "all'aggravamento della situazione". La palla a questo punto è nelle mani di Bruxelles. Il summit di domenica dovrebba dare il via libera alla sesta tranche di aiuti, necessari per pagare gli stipendi degli statali a ottobre. Restano invece forti divergenze tra i paesi Ue sul nuovo pacchetto di sostegno ad Atene. I nodi da sciogliere sono ancora il sacrificio da chiedere ai privati (le banche hanno accettato di perdere il 21% ma puntano i piedi di fronte alla richiesta di alzare al 50% il taglio delle loro pretese) e il ruolo e la forza di fuoco del Fondo salva stati.
(20 ottobre 2011)
Svizzera, referendum contro l'immigrazione. E i Cantoni si sgambettano tra loro
di Giuditta Mosca
Le campagne xenofobe lanciate dalla Svizzera hanno fatto discutere, a partire dai cartelloni che ritraevano delle pecore bianche sulla bandiera rosso-crociata e una, isolata e nera, fuori dai patri confini fino al no categorico, espresso dalla popolazione, alla possibilità di costruire minareti. Ora l'Udc, partito conservatore, annuncia di avere raccolto 120mila firme per lanciare un referendum contro l'immigrazione di massa, con particolare accento su quei flussi di persone provenienti dall'Unione Europea e dall'Italia, migrazione che il partito definisce «una vera e propria invasione».
Dello stesso avviso, e lo dimostrano i numeri, gran parte della popolazione che ha permesso in poco più di due mesi all'Udc di raccogliere ben oltre le 100mila sottoscrizioni necessarie per lanciare un'iniziativa popolare. Sul tavolo anche un j'accuse contro i trattati bilaterali tra Berna e Bruxelles, che potrebbe minare il già traballante accordo di Schengen ratificato dalla Confederazione Elvetica nel 2008 e mai visto di buon occhio soprattutto dai Cantoni periferici che confinano con altri Paesi dell'Unione.
Con questa iniziativa si vogliono contingentare tramite l'introduzione di tetti massimi gli ingressi di stranieri sul patrio suolo, tra questi anche rifugiati e lavoratori frontalieri, per fare fronte – a detta dell'Unione Democratica di Centro – all'invasione che deteriora e mina lo spirito nazionale. Gli stranieri nella patria di Guglielmo Tell sono oltre 1,7 milioni e rappresentano il 22,3% della popolazione.
L'atteggiamento xenofobo della Svizzera ha origini ataviche che vengono dalle proprie viscere. Ieri il Cantone Obvaldo (Svizzera tedesca) , uno degli Stati primigeni della Confederazione, ha deciso di abolire le lezioni di lingua italiana dai programmi scolastici dei licei cantonali. Sono sempre meno i Cantoni che prevedono l'insegnamento della lingua italiana nelle scuole, condizione contraria a quella che vive l'italofono Canton Ticino, nelle cui scuole si studia la lingua francese a partire dalla seconda elementare e quella tedesca dal secondo anno di scuola media. Le autorità politiche ticinesi hanno chiesto al Governo federale di volere attuare le misure necessarie a tutela della lingua e della cultura italiana su tutto il territorio nazionale. Missiva che resterà, con ogni probabilità, lettera morta.
20 ottobre 2011
Svizzera. Ucciso Muammar Gheddafi
Muammar Gheddafi è stato ucciso stamani a Sirte. La sua città natale, sulla costa mediterranea, è finita definitivamente sotto il controllo degli insorti. La fine del colonnello libico interviene dopo otto mesi d'insurrezione e guerra civile.
Sulla dinamica della morte del leader libico al momento ci sono diverse versioni. Secondo Libya Tv gli avrebbero sparato un colpo alla testa. Per Al Jazira, il rais sarebbe stato ucciso durante una sparatoria. Stando all'ambasciatore libico a Roma Abdul Hafed Gaddur, sarebbe morto in seguito alle ferite riportate ad entrambe le gambe durante la cattura.
Secondo alcuni, l'ex dittatore sarebbe stato trovato nascosto in una buca, in una casa privata di Sirte. Alla vista dei combattenti del governo transitorio, il rais avrebbe urlato per due volte: "Non sparate, non sparate!".
Secondo altri, invece, un convoglio di 40 veicoli di fedeli a Gheddafi è stato colpito da aerei della Nato mentre stava cercando di fuggire da Sirte verso ovest. A bordo di un mezzo, ci sarebbe stato anche il rais. Ci sarebbe stato uno scontro a fuoco e il rais sarebbe stato ferito a entrambe le gambe.
Le tv libiche e Al Arabiya hanno riferito che il rais è stato portato verso Misurata a bordo di un aereo del Cnt, ma è arrivato morto nella città ribelle, che per mesi aveva cercato inutilmente di espugnare.
Sempre secondo le tv nazionali, a Sirte sono stati arrestati anche il figlio Mutassim Gheddafi, il capo dei servizi segreti Abdallah Senoussi e il portavoce Moussa Ibrahim. Sarebbe stato ucciso invece il ministro della Difesa del regime, Abubakr Yunes Jaber.
La foto del colonnello apparentemente morto con il viso insanguinato comincia intanto a circolare sui media. Al Jazira ha mostrato le crude immagini di un corpo a torso nudo, su cui appaiono tracce di sangue, circondato da una folla trionfante di persone che lo voltano per farlo riprendere dalla telecamera. Secondo la televisione panaraba, si tratta del cadavere di Muammar Gheddafi.
La scena sembra svolgersi in una strada, a Sirte secondo l'emittente. Il corpo dell'uomo, dapprima con il viso rivolto verso terra, viene voltato. Gli occhi sono aperti, i capelli neri e il viso incorniciato da baffi e un pizzetto di un colore un po' più chiaro.
Sirte è stata conquistata dai ribelli stamattina, dopo giorni di assedio casa per casa. I combattenti del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) all'alba hanno lanciato l'ultimo assalto e in poche ore hanno cacciato gli ultimi lealisti dalle loro postazioni nel quartiere 2. La bandiera degli insorti, quella della vecchia Libia monarchica, è stata issata sul centro della città.
La nazione libica, intanto, attende l'annunciato discorso in Tv del presidente del Cnt Abdel Jalil per sapere veramente come è andata, mentre la Nato, riferisce la Cnn, sta valutando di mettere la parola fine alla missione: nelle prossime ore si riunirà il Consiglio atlantico.
La profonda crisi con la Svizzera
Con la morte di Gheddafi scompare un tiranno che ha anche umiliato e tenuto con il fiato sospeso la Svizzera per due anni. La grave crisi fra Tripoli e Berna è scoppiata dopo il fermo, nel giugno 2008, in un grande albergo di lusso a Ginevra, del figlio del leader libico, Hannibal Gheddafi, e della nuora Aline, accusati di abusi da due domestici.
Dopo aver passato due giorni dietro le sbarre, i coniugi Gheddafi sono stati rilasciati su cauzione. Furibondi hanno subito lasciato la Svizzera. I due querelanti hanno poi ritirato la denuncia in cambio di un'indennità.
Offeso dal trattamento subito dal figlio e dalla nuora di Muammar Gheddafi, il regime libico ha quindi reagito con una serie di rappresaglie nei confronti della Svizzera. Tripoli ha obbligato le aziende elvetiche a chiudere i loro uffici in Libia, ha sospeso i collegamenti aerei della compagnia Swiss e arrestato due cittadini elvetici, Max Göldi e Rachid Hamdani. I due in pratica sono tenuti in ostaggio.
Tutti i tentativi di appianare il contenzioso sono falliti. Le tensioni non si sono allentate neppure dopo la visita a Tripoli del presidente della Confederazione Hans-Rudolf Merz, che nell'agosto 2009 ha presentato le scuse ufficiali per l'arresto di Hannibal Gheddafi. Malgrado la firma di un accordo volto a regolarizzare le relazioni fra i due Paesi, ai due cittadini svizzeri non è permesso lasciare la Libia.
Per cercare di sbloccare la situazione, la Svizzera ha cominciato ad applicare restrizioni sui visti dei cittadini libici. La crisi ha così assunto dimensioni europee.
Nel novembre 2009 Rachid Hamdani e Max Göldi sono stati condannati a 16 mesi di carcere per violazione delle norme sui visti. Il primo è stato assolto in appello nel febbraio 2010 e ha potuto lasciare il paese. Il secondo, invece, è stato arrestato e incarcerato per scontare quattro mesi di detenzione. Göldi è infine stato liberato il 10 giugno 2010.
Per porre fine alla crisi, Berna e Tripoli hanno firmato un accordo che prevedeva, tra gli altri, l'istituzione di un tribunale arbitrale incaricato di far luce sulle circostanze del fermo di Hannibal e Aline Gheddafi. Il cosiddetto "piano d'azione" prevedeva anche un’inchiesta affinché i responsabili della trasmissione e della pubblicazione sul quotidiano Tribune de Genève delle foto segnaletiche della polizia ginevrina di Hannibal Gheddafi fossero condotti davanti alla giustizia.
Sulla via della normalizzazione delle relazioni
Berna ha sospeso l'accordo nel febbraio 2011, dopo lo scoppio del conflitto in Libia, e ha deciso di congelare i beni del clan Gheddafi in Svizzera. Questi dovrebbero essere restituiti agli intestatari dei conti, in particolare la banca centrale e la compagnia nazionale libica, in seguito alla revoca, da parte del Consiglio di sicurezza dell'ONU, delle sanzioni internazionali nei confronti di Tripoli.
Intanto il governo svizzero alla fine di settembre ha accordato le credenziali al nuovo ambasciatore libico a Berna, Sliman Bouchuiguir, un acerrimo oppositore al regime di Gheddafi, che ha partecipato alla fondazione del Fronte nazionale democratico libico e della Lega libica per i diritti umani.
swissinfo.ch e agenzie
Il dopo Gheddafi può essere anche peggio
di Pierluigi Magnaschi
Per cercare di capire come finirà la spedizione di tipo neo-coloniale occidentale contro la Libia, che è stata voluta e capitanata dal premier francese Nicolas Sarkozy e da un filosofo amico di sua moglie, il dandy Bernard-Henry Lèvi, bisogna prima capire come si è arrivati all'abbattimento del dittatore libico. La Libia è, demograficamente, un piccolo paese. Ha infatti solo 6 milioni di abitanti. È un paese ricco di gas e di petrolio ma resta anche un paese in via di sviluppo. Dispone di un esercito fatto più di majoretts, del tipo di quelle che Gheddafi si era portato sotto le sue tende a Roma e a Parigi, anche se Sarkozy fa finta di non ricordarsi di questo particolare, come se solo Berlusconi avesse fatto i convenevoli. Pure Sarkozy infatti ricevette con tutti gli onori il dittatore libico e gli mise a disposizione i giardini dell'Eliseo, come un Berlusconi qualunque, per impiantarci le sue tende da finto beduino. Contro la Libia si sono scatenati, per mesi, in micidiali missioni quotidiane, i cacciabombardieri di quattro grandi potenze (Usa, Francia, Gran Bretagna e Italia) più singoli, o poco più, caccia di altri paesi. Il regime di Gheddafi quindi non è stato abbattuto dagli insorti, come troppi raccontano in giro, ma dalle grandi potenze occidentali, in una logica neocoloniale ammantata da falsi motivi umanitari, tant'è che gli stessi paesi se ne sono ben guardati dall'intervenire in Siria dove Hassad stava e sta uccidendo ben più persone. Finito Gheddafi resta però, in Libia, il gheddafismo perché molti ministri chiave del regime del Colonnello, fiutata l'aria, sono passati dalla parte degli insorti e ne sono diventati i boss. Adesso che cosa succederà? Si andrà alle elezioni, dicono gli ingenui volenterosi, e nascerà una nuova democrazia. Sarebbe bello. L'ipotesi migliore però è che, a un regime militare, ne segua un altro sempre militare (com'è già successo in Egitto). L'ipotesi peggiore invece è che il potere sia preso da estremisti islamici che erano già presenti e organizzati a Bengasi dove, non a caso, l'insurrezione Libica è nata. Ma se gli estremisti islamici mettono le mani sugli immensi giacimenti petroliferi libici, essi non ne faranno un uso economico (come faceva l'ultimo Gheddafi) ma ne faranno un uso politico. Non lo useranno quindi per arricchirsi e per arricchire i loro familiari e i loro collaboratori, ma per accrescere il loro potere politico a livello internazionale. Un'evoluzione del genere, in un paese che è dirimpettaio dell'Italia e che, per di più, è un nostro grande fornitore di petrolio e di gas, sarebbe una gran brutta notizia, per noi. Ma anche per l'intero Occidente.
Pochi bambini, addio “Grande Serbia”
Il censimento evidenzia un calo di 300mila unità e l’emigrazione non si ferma. Campagne spopolate e città super affollate
di Stefano Giantin
BELGRADO. Sempre di meno, sempre più vecchi, eccessivamente inurbati perché le campagne non offrono opportunità e speranze di un più roseo futuro. Altro che “Grande Serbia”. I primi dati, ancora non ufficiali, sul censimento del Paese balcanico disegnano invece i contorni di una nazione più piccola e modesta, anche dal punto di vista numerico. I numeri più preoccupanti riguardano il calo della popolazione: in meno di 7,4 milioni hanno riconsegnato le schede, ma secondo vari demografi la cifra finale della popolazione potrebbe scendere a 7,2. Circa 300mila serbi mancano all’appello rispetto a 10 anni fa. La diminuzione si deve «al tasso di fertilità negativo. Tra il 2002 e questo censimento abbiamo perso 262mila abitanti», ha spiegato alla stampa Snezana Lakcevic, una delle responsabili dell’Istat serbo, lo Rzs.
Se il trend non dovesse cambiare, nel 2060 il Paese potrebbe contare solo 6 milioni di cittadini. Difficile però che le cose migliorino: la crisi economica non è una medicina contro la “bela kuga”, la “peste bianca” della denatalità. «Non è una novità che siamo una nazione vecchia e in crescita negativa da anni», ha aggiunto Lakcevic. In passato questo fattore era stato “nascosto” «dall’afflusso di sfollati e rifugiati durante gli anni ’90, circa 650mila in una prima fase, poi ridottisi a 300mila dopo i rimpatri o l’emigrazione verso altri Paesi, mentre altrettanti si sono integrati qui», puntualizza il demografo Vladimir Nikitovic.
I dati raccolti dall’Rzs evidenziano anche un fenomeno non certo sorprendente per i belgradesi: la capitale serba è diventata il primo polo d’inurbamento. Malgrado la penuria di alloggi e il costo della vita paragonabile a quello delle più ricche città europee, Belgrado è arrivata a toccare gli 1,7 milioni di abitanti. Diecimila ogni anno si trasferiscono tra Danubio e Sava in cerca di fortuna. «C’è un trend costante di città che s’ingrandiscono. Non solo Belgrado, ma anche Novi Sad, Sabac, Smederevo. La gente delle aree rurali non approda direttamente nelle grandi città, ma prima si sposta in cittadine un po’ più popolate usate come “hub”. È un fenomeno comune all’America Latina e all’Asia e che solo di recente si è concluso in Occidente. Ed è un serio problema per le grandi città perché la sostenibilità del fenomeno dipende dalla crescita economica e dal livello istituzionale e delle infrastrutture», chiarisce il sociologo Slobodan Cvejic. Le città di minor richiamo sono invece Cacak (-10mila dal 2002) e Leskovac (-8mila), non a caso localizzate in aree economicamente depresse. L’esodo verso Belgrado da centri come Novi Sad, Subotica, Sabac e Indija si è invece arrestato, forse perché sono «città dove l’economia è migliorata e sono diventate attraenti per i cittadini. Il problema è che difficilmente potranno sostenere a lungo tanti individui e ciò aumenterà le diseguaglianze», aggiunge Cvejic. Tanti sono ancora i serbi che decidono invece di emigrare.
«Uno studio che ho elaborato calcola in 800mila i serbi che vivono e lavorano all’estero e in circa 5-6mila all’anno coloro che ogni anno se ne vanno», tra cui tanti giovani, aggiunge Nikitovic. Sono numeri che confortano le tesi di chi indica in 7,2 milioni il risultato finale del rilevamento. «Le mie stime si fermano a circa 7-7,1 milioni. La diminuzione è maggiore di quella indicata, parliamo di 5-600mila persone in meno», illustra Goran Penev, demografo dell’Istituto delle Scienze sociali di Belgrado. Le cause? «Il rapporto tra nascite e decessi è negativo dal ’92, come anche quello tra emigrati e immigrati dal 2002 a oggi a causa del mancato sviluppo economico. Ma bisognerà aspettare i risultati definitivi per le conferme», aggiunge. Risultati che arriveranno forse in ritardo, dato che la chiusura del censimento è stata prorogata in alcune città fino al 20 ottobre, a causa dei ritardatari che non hanno riconsegnato i moduli. Ma difficilmente saranno numerosi al punto da modificare i tristi numeri del censimento serbo.
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