giovedì 22 settembre 2011

Federali.sera_22.9.11. Svizzera, Generoso Chiaradonna: Il giudizio di Standard & Poor’s arriva soltanto alla fine di questo percorso di assenza di crescita economica e in un momento storico di profonda decadenza politica e non trova per nulla impreparati gli osservatori attenti. E la cosa più grave è che non si vede nemmeno un abbozzo di scatto d’orgoglio nazionale. Ed è il rating peggiore che gli stessi italiani si possano dare.----Lavello, Antonella Inciso: Il rischio di un braccio di ferro tra gli enti locali lucani e la società francese sulla chiusura o meno del termovalorizzatore, dunque, appare più che concreto. Per la verità, quasi inevitabile secondo alcuni.----In Calabria la spesa di 1.690 euro pro capite mette, ancora un volta, in evidenza l’assoluta necessità di portare a termine la riorganizzazione del sistema sanitario regionale perché, nonostante i costi tra i più alti d’Italia, non riesce a garantire ai cittadini un servizio di qualità, con il risultato che ogni anno circa 60 mila calabresi decidono di curarsi fuori dalla Regione, contribuendo così alla riduzione di risorse del fondo sanitario regionale.

Il rapporto del Ministero: maglia nera alla sanità calabrese
Lavello. Fenice ha inquinato ma per l’Arpab può restare aperto
I veleni del Vulture.
Svizzera. Il decennio perduto del governo italiano
Il Portogallo privatizza L'Italia non vende nulla
Atene mette 30mila statali in mobilità


Il rapporto del Ministero: maglia nera alla sanità calabrese
Il rapporto del Ministero mette a nudo l’eccessiva spesa per il servizio erogato. La Calabria è la Regione con costo più alto tra il 2007 e il 2009
22/09/2011  La Calabria è tra le regioni con la spesa sanitaria media pro capite più elevata registrata tra il 2007 e il 2009. Il dato emerge dal rapporto annuale 2010 sugli interventi nelle area sottoutilizzate presentato ieri a Palazzo Giustiniani dal ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto. Al primo posto - secondo il rapporto - c’è la Provincia Autonoma di Bolzano con 1.690 euro, seguita dall’Emilia Romagna e dalla Calabria, entrambe con 1.620 euro, dalla Provincia Autonoma di Trento con 1.600 euro e dalla Valle d’Aosta con 1.580 euro; la più bassa invece è per il Lazio con 777 euro, ma solo per via di una contabilità diversa.
 In Calabria la spesa di 1.690 euro pro capite mette, ancora un volta, in evidenza l’assoluta necessità di portare a termine la riorganizzazione del sistema sanitario regionale perché, nonostante i costi tra i più alti d’Italia, non riesce a garantire ai cittadini un servizio di qualità, con il risultato che ogni anno circa 60 mila calabresi decidono di curarsi fuori dalla Regione, contribuendo così alla riduzione di risorse del fondo sanitario regionale. Il Piano di rientro ha proprio l’ambizione di invertire questa tendenza ma il percorso non è per nulla semplice. Non a caso il portavoce della Commissione errori sanitari e disavanzo regionale Leoluca Orlando, parlando due giorni fa a Rende, ha invitato la classe politica calabrese ad uscire dalla logica di dire «la colpa è del centrodestra, la colpa è del centrosinistra». Una logica che oramai «appartiene al passato». Secondo Orlando «dobbiamo pensare è come garantire ai calabresi lo stesso diritto alla salute delle altre regioni perchè i calabresi sono cittadini di serie A come tutti gli italiani». Orlando ha raccontato di aver di aver incontrato un medico calabrese che lavora al nord e gli ha detto: «io al nord lavoro esattamente come lavoravo in Calabria solo che in Calabria le condizioni oggettive non mi consentivano di esprimere la mia professionalità e invece al nord salvo la vita alla gente». Ad influenzare le scelte dei prossimi anni sarà anche il federalismo che avrà un impatto notevole sulla sanità. Da Roma i fondi non arriveranno più con il criterio della spesa storica ma in base ai costi standard, quindi la Calabria dovrà stare nella media delle altre Regioni. Con questo scenario, è evidente la necessità di una profonda riorganizzazione senza la quale si annunciano tempi bui.

Lavello. Fenice ha inquinato ma per l’Arpab può restare aperto
di Antonella Inciso
LAVELLO - «Ingiustificata e pregiudizievole sul piano sociale e patrimoniale». Usa il linguaggio della burocrazia la società Edf Fenice per far intendere le conseguenze di un’eventuale chiusura del termodistruttore di San Nicola di Melfi. Le condizioni del termodistruttore sono sicure. Non ci sono problemi sanitari o ambientali e se venisse chiuso i riverberi si avrebbero sul piano sociale, ossia i posti di lavoro, e sul piano economico, ossia i danni patrimoniali.
Mentre la protesta si amplifica, i dati vengono fuori e la preoccupazione cresce. La società Edf Fenice esce allo scoperto e affida ad una lettera la sua posizione sulla vicenda. Assicurando, innanzitutto, che le condizioni per il prosieguo dell’attività non sono venute meno (l’Arpab gli dà ragione), ma soprattutto precisando che una chiusura avrebbe conseguenze sul piano sociale e patrimoniale. Il che - linguaggio burocratico a parte - non può che avere un solo significato: perdita di posti di lavoro e perdita di introiti economici.
La nota di poche pagine - inviata proprio ieri in occasione della conferenza di servizio convocata dalla Provincia - è rivolta ad un lungo elenco di amministratori locali e dirigenti e precisa testualmente che, a parere di Fenice «le condizioni ambientali e sanitarie per la prosecuzione dell’esercizio dell’impianto non sono venute meno». Aggiungendo, poi, che «un’eventuale sospensione dell’attività sarebbe ingiustificata e gravemente pregiudizievole sia sul piano sociale sia sul piano patrimoniale per la società».
Insomma, per Edf a Fenice è tutto ok. Il termovalorizzatore può continuare ad operare. Questo anche perchè - come continua la nota - la società sta predisponendo il progetto di bonifica. Progetto che nelle intenzioni dei francesi dovrebbe essere consegnato entro il 18 ottobre prossimo.
Il rischio di un braccio di ferro tra gli enti locali lucani e la società francese sulla chiusura o meno del termovalorizzatore, dunque, appare più che concreto. Per la verità, quasi inevitabile secondo alcuni.
D’altra parte, non a caso la lettera della società francese è stata inviata proprio a ridosso della conferenza di servizio convocata dall’Ufficio ambiente della Provincia fissata per valutare le condizioni ambientali e sanitarie per la prosecuzione dell’esercizio dell’impianto.
Intanto, mentre la discussione monta ed il 4 ottobre il Consiglio regionale terrà un consiglio su Fenice ed i temi ambientali (con il governatore De Filippo che proprio ieri ha dato il via libera alla commissione d’inchiesta) altri particolari emergono sulla vicenda. Come la nota con cui l’Arpab il 18 luglio scorso - ad una richiesta di chiarimenti sulla situazione di alcuni valori che non decrescevano, come nella fase di avvio del procedimento di bonifica, ma avevano andamenti irregolari - precisa che «sussistono allo stato attuale condizioni analoghe a quelle presenti nel sito fino a fine 2010». Quella stessa lettera, poi, evidenzia che «essendo il sito in produzione non si possono escludere eventi che potrebbero ripercuotersi sulle acque sotterranee con ulteriori contaminazioni» e che «gli interventi di messa in sicurezza operativa, principalmente effettuati con emungimenti, non sono del tutto esenti da malfunzionamenti».
E proprio quelle valutazioni hanno spinto la Provincia a chiedere all’Arpab, con una lettera del 22 agosto scorso, di valutare se dagli interventi di messa in sicurezza operativa, realizzati da Fenice, si potesse desumere se ci fossero le condizioni per consentire al termovalorizzatore di esercitare l’attività di gestione dei rifiuti. A quella nota l’Arpab ha risposto solo ieri (si veda l’articolo in basso) dando il via libera al funzionamento dell’impianto. Posizione che cozza contro le parole del direttore dell’agenzia, Raffaele Vita, che il 14 settembre scorso, durante l’audizione della terza commissione consiliare regionale ha dichiarato «che i risultati delle indagini compiute sino a questo momento destano preoccupazione in quanto superano i parametri di soglia».
Insomma, una situazione delicata su cui ora - soprattutto dopo la nota della società - sono chiamati ad esprimersi i vertici delle amministrazioni lucane.

I veleni del Vulture.
Fiat disse no agli studi
Dopo unu anno il professor Spilotra rinunciò: Sata e Zuccherificio indisponibili alle analisi dei punti acqua
22/09/2011  L’ALLARME pubblico non lo darà subito, anzi ci impiegherà un anno e mezzo per decidersi a farlo. Ma Vincenzo Sigillito, ex direttore dell'Arpab, quando nel 2008 (secondo la sua ricostruzione dei fatti) capisce per la prima volta di avere a che fare con una bella grana, tenta subito una collaborazione con l'Università di Basilicata. Dalle analisi di cui il dirigente viene in possesso, nei nove pozzi di Fenice i valori di nichel, fluorite e soprattutto, mercurio hanno ampiamente superato i limiti massimi fissati dalla legge. Quelle anomalie vanno verificate. C'è bisogno di comprendere quale sia la causa dell'inquinamento e se la responsabile sia proprio Fenice. Allora Sigillito, in accordo con la stessa società che gestisce l'impianto, si rivolge all'ateneo lucano e quest'ultimo, in un primo momento, accetta la collaborazione. Intercorrono riunioni e comunicazioni scritte. Il tutto nello stesso mese di marzo. L'obiettivo è predisporre un approfondito studio che possa permettere, in maniera esaustiva, di evidenziare le cause delle criticità emerse. Del resto, a gennaio dello stesso anno, il comune di Melfi, con parere Arpab, aveva emesso un'ordinanza che vietava l'utilizzo delle acque ai proprietari terrieri confinanti con l'ex Zuccherificio del Rendina, perché probabilmente inquinate proprio a causa delle attività della società Finanziaria Saccarifera Italo Iberica spa. Come escludere a priori che le due vicende non siano collegate?
 Con un documento ufficiale che porta la data del 28 marzo, l'Arpab affida l'incarico e al professor Giuseppe Spilotro, docente di Idrogeologia applicata presso la facoltà di Ingegneria dell'Università di Basilicata, che a sua volta si avvarrà della collaborazione della dottoressa Maria Pia Vaccaro dell'Arpab. Sigillito chiede una dettagliata analisi dello stato di fatto, un programma delle attività da svolgere, che - precisa pure nel documento - dovranno essere ultimate entro il 2008, in moda da portare al superamento delle problematiche evidenziate. Nella nota si specifica che a farsi carico degli oneri economici dello studio sarà la società Fenice Spa, che è il soggetto che attiva materialmente la convenzione con l’Unibas. A scadenza dei termini, però, quindi a dicembre del 2008, il dipartimento di Geotecnica e geologia applicata all'ingegneria chiede una proroga di sei mesi «in quanto gli studi hanno trovato difficoltà esecutive di vario ordine, non del tutto risolte». L'Arpab dà l'ok alla proroga. Ma dopo qualche mese arriva il colpo di scena, prima della scadenza dei termini: a fine marzo del 2009 il dipartimento dell'Unibas dà forfait e abbandona il progetto. Con questa motivazione rappresentata dall’ateneo a Fenice e all’Agenzia: i dati disponibili fino a quel momento, per quanto riguarda la geologia e l'idrogeologia, derivano integralmente da relazioni professionali già elaborate da terzi per Fenice, quindi non è possibile fornire informazioni aggiuntive. Ma c'è soprattutto un altro motivo che spinge l'Unibas a tirarsi indietro. A ribadirlo alla redazione del Quotidiano, lo stesso professor Spilotro, raggiunto ieri telefonicamente: «Al fine del nostro studio idrogeologico, per comprendere la natura dell'inquinamento in corso e soprattutto le cause, chiedemmo di avere accesso ai punti acqua dei terreni confinanti con Fenice, al fine di poter effettuare le analisi. Ma a nostra richiesta ci fu comunicata l'indisponibilità da Fiat ed ex Zuccherificio del Rendina». Sata e Finanziaria Saccarifera non acconsentono, quindi, a questi ulteriori accertamenti che permetterebbero di individuare e circoscrivere il fenomeno. Naufraga così il progetto dello studio che Sigillito, in accordo con Fenice e Unibas, aveva pensato di portare avanti. E' marzo del 2009. Lo stesso mese in cui scoppia scoppia l’emergenza, con la prima comunicazione ufficiale dell'inquinamento in corso, e la successiva ordinanza dell'allora sindaco di Melfi Navazio che vietava l'utilizzo delle acque. Tutto il resto è ormai storia nota. Per arrivare ai giorni nostri. Giuseppe Spilotra, di nonna lucana, è ancora docente all'Unibas e sulle polemiche dell’ultim’ora ha un'idea precisa: «Fenice - dice - non va chiusa. Il contrario significherebbe fare la fine di Napoli. Sarebbe un scelta irresponsabile. Credo che i problemi dell'impianto di San Nicola possano essere risolti con adeguati interventi e soprattutto con un serio piano di bonifica. Il mio parere: non siamo di fronte a una centrale nucleare. Non una, allora, ma tre, cinque Fenice, a patto che siano assicurati monitoraggi seri e continui, gestione responsabile e non da idioti come solo la politica è capace di fare».
Mariateresa Labanca

Svizzera. Il decennio perduto del governo italiano
di Generoso Chiaradonna - 09/21/2011
Si fa presto a dire: ‘Maledette agenzie di rating’. I mali dell’Italia, finanziariamente ed economicamente parlando, si chiamano assenza di crescita e debito pubblico ormai insostenibile e questo non da ieri e nemmeno dall’altro ieri. È un problema che viene da lontano, da quegli anni 80 definiti da qualcuno ‘da bere’, gli anni in cui si è alimentato come non mai il grosso del debito. L’entrata dell’Italia nel club della moneta unica fin dall’inizio fortissimamente voluta dai governi di Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi negli anni 90 è costata molti miliardi delle vecchie lire, ma i benefici di avere conti pubblici in ordine, bassa inflazione e soprattutto bassi tassi d’interesse sono stati buttati via negli anni successivi. E questo non per colpa della moneta unica che doveva ingabbiare le politiche fiscali degli aderenti al club facendole marciare come un sol uomo e possibilmente farle convergere verso il più virtuoso dei suoi membri: la Germania.
La crisi finanziaria prima e poi la crisi economica del 2009 hanno fatto aprire gli occhi ai più. Gli anni dei bassi tassi d’interesse che storicamente l’Italia assieme ai Paesi dell’Europa mediterranea non aveva mai conosciuto non sono stati utilizzati per effettuare delle riforme strutturali della spesa pubblica.
E con riforme strutturali non si intende per forza di cose tagli alla spesa sociale, per l’istruzione pubblica o per le pensioni. Anche una riforma tributaria – per esempio – più equa e maggiormente redistributiva sarebbe bastata per mettere un argine alla crescente ed endemica evasione fiscale che colpisce la società italiana. Una lotta più ferma e continuata nei confronti di questo pessimo costume sociale avrebbe creato le premesse per una società più giusta e per conti pubblici meno disastrati. Invece si è preferita la strada breve ed effimera dei condoni, fiscali, contributivi o edilizi che fossero.

L’introduzione dell’euro doveva inoltre creare le premesse per un aumento della competitività del sistema produttivo. Le famose svalutazioni competitive della lira dovevano essere un ricordo del passato. Anche in questo campo si è perso almeno un decennio e l’Italia che miracolosamente rimane una delle principali economie manifatturiere continentali non ha colto l’occasione di modernizzare e ri-orientare la sua industria più innovativa condizionata in questo da un ex campione nazionale – la Fiat – che ha sempre visto nel sostegno pubblico la sua quasi unica ragione di esistere. Il concetto di socializzare le perdite e privatizzare i profitti è sempre stato ben presente nei dirigenti e azionisti della casa torinese. L’elenco dei mali potrebbe continuare ancora a lungo.
Il giudizio di Standard & Poor’s arriva soltanto alla fine di questo percorso di assenza di crescita economica e in un momento storico di profonda decadenza politica e non trova per nulla impreparati gli osservatori attenti. E la cosa più grave è che non si vede nemmeno un abbozzo di scatto d’orgoglio nazionale. Ed è il rating peggiore che gli stessi italiani si possano dare.

Il Portogallo privatizza L'Italia non vende nulla
 di Edoardo Narduzzi  
A Lisbona è iniziata la stagione delle privatizzazioni di massa. Il nuovo governo ha innalzato da 5 a 7 miliardi l'ammontare che intende incassare dalle vendite delle società e delle azioni delle imprese di proprietà pubblica, dando così un chiaro segnale alla Troika formata da Bce-Fmi-Ue che vigila sul piano di stabilizzazione legato al prestito da 80 miliardi di euro. Una accelerazione che conferma come, nel giro di pochi mesi, Lisbona sia diventata il vero laboratorio del cambiamento, pena la sua marginalizzazione economica. Stato e pubblica amministrazione più magri e meno costosi, sanità riorganizzata con costi operativi tagliati a doppia cifra, liberalizzazioni e privatizzazioni senza esitazioni. Senza perdere inutile tempo perché il da farsi è chiaro. Il nuovo governo liberale di Passos Coelho in campagna elettorale non aveva fatto sconti ai portoghesi dicendo, senza nascondere nulla, la cura da cavallo che avrebbe attuato. Detto, fatto. I primi cento giorni del nuovo esecutivo hanno lasciato il segno: taglio del 15% all'anno dei costi gestionali della sanità tra il 2011 e il 2013; riduzione del 10% delle pensioni; aumento dell'Iva al 23% a partire dal prossimo 1° ottobre con, di fatto, l'eliminazione delle due aliquote ridotte e intermedie del 6 e del 13% (quella sulla luce e il gas, ad esempio, passa di un colpo dal 6 al 23%) rimaste solo per i beni di prima necessità; taglio di 4.574, pari al 27%, dei dirigenti statali che saranno subito pensionati o collocati in mobilità con stipendio ridotto al 66%; abrogazione di 15 enti pubblici, pari al 20% del totale, ritenuti non utili all'economia portoghese; riorganizzazione delle piante organiche della pubblica amministrazione centrale con il Plano de Reducao e Melhoria da Administracao Central do Estado con l'eliminazione del 38% delle strutture organizzative precedenti e dei connessi posti; creazione del fondo di mobilità dei dipendenti pubblici per gestire gli esuberi che riceveranno soltanto l'80% dello stipendio per i primi 12 mesi, poi la loro sorte è tutta da capire; blocco di ogni assunzione nella sanità pubblica dove anche per prendere un nuovo infermiere serve un'autorizzazione firmata personalmente dal ministro della salute, Paulo Macedo, che ha anche deciso di tagliare del 20% tutti gli straordinari delle 42 aziende ospedaliere; identificazione di 85 imprese pubbliche e 33 miste passibili di privatizzazione. Così mentre in Italia non si privatizza nulla, a Lisbona ci si prepara a vendere di tutto, dalle imprese energetiche alle banche, dalle società aeree ai porti. Si approfitta della crisi per riposizionare l'economia. Non a caso non si parla più di un Portogallo come la Grecia.

Atene mette 30mila statali in mobilità
Vittorio Da Rold
ATENE. Dal nostro inviato
 È la fine di un tabù: 30mila statali verranno messi in mobilità e dopo un anno, se non avranno trovato un'occupazione in altri ministeri, verranno licenziati.
 C'è anche questo nella maximanovra greca approvata ieri dal Governo Papandreou, oltre a nuove stangate fiscali su carburanti e case per un valore di 28 miliardi complessivi entro il 2014: sono questi i capitoli chiave che il ministro delle Finanze Evangelos Venizelos ha annunciato ieri sera senza aggiungere ulteriori dettagli, su una nuova serie di misure, così da rafforzare il risanamento dei conti su cui il Paese è in grave ritardo. Indiscrezioni che circolavano mercoledì sulla stampa riportavano che il Governo avrebbe assunto dal 2009 ad oggi 20mila dipendenti "non-autorizzati" - ragione per cui la troika Ue-Bce-Fmi ha sbattuto la porta la scorsa settimana e ha richiesto un taglio di posti di lavoro di 30mila dipendenti entro dicembre da mettere in mobilità al 60% dello stipendio e altri 100mila entro il 2015, in modo da ridurre entro il 2015 del 20% i 750mila dipendenti pubblici.
 Verranno inoltre tagliate del 20% le pensioni oltre i 1.200 euro al mese e sarannno ridotte quelle agli statali andati in pensione prima dei 55 anni, mossa retroattiva che penalizza i baby-pensionati. Infine viene abbassato il reddito minimo di esenzione fiscale da 8mila a 5mila euro.
 Il Paese rimane profondamente diviso tra il settore privato i cui lavoratori accusano la burocrazia statale di strangolare l'economia con i suoi costi ed inefficenza e i dipendenti pubblici secondo cui i maggiori problemi sono la corruzione politica e l'evasione fiscale. Probabilmente hanno ragione entrambi.
 Immediata la reazione dei sindacati ellenici del settore pubblico e privato, l'Adedy e la Gsee, che hanno lanciato un appello allo sciopero generale di 24 ore il 19 ottobre, dopo quello del settore pubblico in programma il 5 ottobre prossimo.
 Ora l'attenzione si sposta sul passaggio parlamentare dove il partito di maggioranza, il Pasok, è fortemente diviso e Neo Dimocratia, il partito conservatore all'opposizione, continua a chiedere elezioni anticipate, mentre da mesi la cura di austerità cui è stato sottoposto il Paese ha innescato crescenti proteste sociali.
 Lo stesso Fmi si era spinto ad evocare lo spettro di una insolvenza sui pagamenti, che in realtà in Europa pochissimi sembrano auspicare per le conseguenze di contagio sulle banche francesi e tedesche, le più esposte.
 Venizelos ha illustrato una serie di nuove misure puntando più sul fronte della riduzione delle spese (accelerazione sul taglio dei dipendenti della pubblica amministrazione, assieme a nuovi tagli ai loro trattamenti salariali, tagli anche alle pensione) piuttosto che sugli aumenti di tasse (aumenti delle imposte su carburanti da autotrasporto e combustibili da riscaldamento e prolungamento al 2014 di una tassa una tantum che era stata imposta sui beni immobiliari). Nessuna nuova sul piano di privatizzazioni, che prevede di ricavare 50 miliardi di euro entro il 2015.
 Intanto il cancelliere tedesco, Angela Merkel, incontrerá il prossimo 27 settembre a Berlino il premier greco, George Papandreou, per fare il punto sulla difficile situazione e sulle riforme greche. «I grandi temi saranno sul tavolo», spiega il portavoce di Merkel, Steffen Seibert. L'incontro si svolgerà due giorni prima della riunione del Bundestag che dovrà votare la rifoma del Fondo di stabilitá della Ue e il giorno dopo il viaggio ad Atene di esperti di Ue, Fmi e Bce.
 La business community ellenica resta cauta. «La svolta positiva per una rinnovata fiducia verso la Grecia arriverà solamente dopo che il programma di riforma del settore pubblico sarà approvato in Parlamento», dice Vassilis Antoniades, Partner & Managing Director di Bcg ad Atene. Questa è forse l'ultima opportunità per riforme strutturali e tagli alla spesa», dice il capo economista della Banca del Pireo, Ilias Lekkos.

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