Maraini: «L'Italia è un paese di vecchi, e il Sud deve credere di più in se stesso»
La guerra italiana in Libia che il governo nasconde
Grecia, serve referendum su crisi debito
Mattoni e politica fanno ricchi i cinesi. Dal cibo alle città, le curiosità della classifica dei paperoni asiatici
Maraini: «L'Italia è un paese di vecchi, e il Sud deve credere di più in se stesso»
Una due giorni per presentare gli ultimi lavori
PALERMO - Due giorni a Palermo per Dacia Maraini impegnata a presentare ben tre lavori: l’audiolibro «Lettere d’amore», pubblicato da Ianeri, con la voce di Piera Degli Esposti, e le musiche del quartetto di clarinetti Aldo Settimi; «Topazia Alliata. Una vita nel segno dell’arte», edizioni Kalòs e «La lunga vita di Marianna Ucrìa» (audiolibro). La scrittrice romana durante gli incontri racconta della Sicilia che un tempo fu sua. Ricordi un po' amari per ciò che Bagheria, il luogo della sua infanzia in cui spesso ritorna, «non è più» a causa di un’edilizia «spietata» che ha distrutto un patrimonio storico-artistico che avrebbe fatto invidia a tutta Europa: non ci sono più le ville del ‘700 e i sontuosi giardini, che avrebbero potuto essere, secondo la scrittrice, il vero patrimonio di una terra che invece ha sempre più rovine di cui, forse, vergognarsi.
Quando parla di D’Annunzio lo fa sottolineando un personaggio a tratti divertente con una passione sfrenata oltre che per le donne, per il denaro. Si discute poi delle donne, «dongiovanne» anche loro, contraddittorie e, parlando del suo Marianna Ucrìa, la Maraini se riconosce che la donna ha certo conquistato dei diritti, sottolinea anche come nell’Italia di oggi i passi indietro siano stati tanti. Passaggi per la Maraini anche sull'Italia e il Sud: «Questo è un paese di vecchi, bisogna dare spazio ai giovani». Sul Sud dice: «Ha dato tanto ma deve credere di più in se stesso».
Rossella Puccio
La guerra italiana in Libia che il governo nasconde
di Gianandrea Gaiani
7 ottobre - Per quanto taciuto dagli alleati e censurato dal nostro governo, alla luce dei dati emersi da fonti ben informate il ruolo rivestito dalle forze militari italiane nel conflitto libico è di tutto rilievo e secondo solo a quanto messo in campo da Francia e Gran Bretagna. Se si considerano anche le sortite effettuate dai jet Harrier e dagli elicotteri della Marina imbarcati sulla portaeromobili Garibaldi quasi l’80 per cento delle missioni aeree alleate sulla Libia sono state lanciate da basi o navi italiane. Appare quindi evidente che senza la disponibilità di queste infrastrutture l’operazione Unified Protector sarebbe stata inattuabile. Gli aerei italiani hanno svolto un ruolo bellico fondamentale con oltre 2 mila sortite (per il 25 per cento d’attacco) registrate alla fine della seconda decade di settembre e un numero di ore di volo che a fine settembre aveva raggiunto quota 7.700. Numeri che peraltro non tengono conto delle 400 sortite effettuate dagli elicotteri imbarcati della Marina. Più degli italiani hanno fatto solo i francesi con 4.550 sortite e i britannici con 2.400 (escluse dal conto le missioni degli elicotteri Apache dislocati sulla portaelicotteri Ocean. Paesi che hanno messo in campo in media tra i 30 e i 40 velivoli contro i 14 italiani che hanno effettuato missioni di ogni tipo: dalla sorveglianza della no-fly zone (dove nessun altro Paese ha superato le 590 missioni effettuate dagli italiani) alla ricognizione, dal rifornimento in volo all’attacco, dalla soppressione delle difese aeree libiche alla guerra elettronica. A oggi i jet italiani hanno individuato più di 1.500 obiettivi distruggendone oltre 500 con l’impiego di circa 800 ordigni (700 entro metà settembre) dei quali circa 160 lanciati dai jet della Marina durante l’impiego della portaerei Garibaldi tra fine aprile e metà luglio che ha visto gli Harrier impegnati in più di 170 sortite .
Oltre alle centinaia di bombe guidate Gbu 12, Gbu 16, Gbu-24 e Jdam spicca l’impiego di oltre due dozzine di missili da crociera Storm Shadow da parte dei Tornado del Sesto Stormo utilizzati per colpire le basi nemiche più lontane nel sud desertico, soprattutto Sebha. Degli oltre 70 Storm Shadow/Scalp lanciati da Tornado e Rafale oltre un terzo appartenevano all’Aeronautica italiana (che ha impiegato un numero di missili da crociera ben maggiore dell’Armèe de l’Air) che prima della guerra libica ne aveva in dotazione circa 200. Nel complesso sono state impiegate dagli aerei italiani armi per un costo di circa 60 milioni di euro che, bilanci permettendo, dovranno essere rimpiazzate. Niente male per forze aeree che non hanno mai schierato più di 8 aerei da attacco contemporaneamente e che hanno iniziato a “fare sul serio” solo a fine aprile, un mese e mezzo dopo i jet alleati, quando sotto le forti pressioni della Casa Bianca il governo ha dato il via libera ai raids sulla Libia. I raids dei Tornado e degli Amx continuano anche ora che la resistenza dei lealisti è limitata alle aree di Sirte e Bani Walid. Il contributo italiano in mezzi e missioni vale quasi il 10 per cento dello sforzo militare alleato ma in termini qualitativi ha avuto un peso ben maggiore tenendo conto delle basi offerte agli alleati, della mole d’informazioni che il nostro intelligence ha fornito agli alleati e dell’impiego (unici con gli Usa) dei velivoli teleguidati Predator B che in oltre una trentina di missioni si sono rivelati indispensabili per individuare i bersagli e guidare con precisione i raids alleati nelle aree abitate. Nonostante il rinnovo dell’operazione della nato per altri tre mesi molti contingenti aerei alleati cominciano a ridurre gli organici come i britannici che hanno richiamato dalla base di Gioia del Colle i caccia Typhoon e i francesi che mantengono a Sigonella solo 5 Rafale. Gli italiani oggi costituiscono quindi in termini numerici il secondo dispositivo assegnato a Unified Protector dopo quello di Londra che dispone di 15 Tornado più i velivoli Awacs e tanker
Grecia, serve referendum su crisi debito
E' necessario che la Grecia tenga un referendum sulla crisi del debito che affligge il Paese. Lo ha detto, secondo la stampa locale, il ministro degli Interni greco, Haris Kastanidis, durante un intervento in Parlamento, senza specificare quando il referendum potrebbe aver luogo o l'esatto quesito da porre.
Per il ministro, "in questo momento critico", c'è la necessità "per il popolo greco di prendere una posizione sul problema fiscale". Quest'anno l'economia greca si contrarrà del 5,5% e il deficit pubblico potrebbe superare l'8,5%. La Grecia ha recentemente smentito le voci secondo le quali si potrebbe tenere un referendum sulla sua uscita dall'euro, dopo che diversi analisti hanno sostenuto che un ritorno alla dracma potrebbe aumentare il rischio di recessione per il Paese.
Mattoni e politica fanno ricchi i cinesi. Dal cibo alle città, le curiosità della classifica dei paperoni asiatici
di Chiara Beghelli
Mattoni e politica. Ecco il binomio necessario per diventare straricchi in Cina. A dirlo è Hurun Report, il Forbes della Grande Muraglia, che dopo aver diffuso l'ormai famosa lista dei 50 personaggi più facoltosi del Paese, arrivata alla sua tredicesima edizione, vi ha aggiunto una sorta di specchietto per capire quali sono i settori che elargiscono più denaro.
In testa ci sono saldamente gli immobiliaristi, che rappresentano il 23,5% dei paperoni, seguiti dagli industriali (19,1%) e da chi si occupa di servizi finanziari (6,7%). Con un pil che anche nel 2011 crescerà di oltre il 9% (anche se in rallentamento) e città che si espandono per centinaia di ettari sul territorio, l'associazione edifici-soldi suona ovvia. Ma se in altre parti del mondo i più ricchi sono impegnati in settori come le comunicazioni, la telefonia, l'It (vedi Carlos Slim, numero uno con la sua American Movil, inseguto da Bill Gates), la Cina appare ancora legata a una fase evolutiva precedente dell'economia. Il più ricco del settore è Xu Kiayin di Evergrande Real estate, con un patrimonio di 6,7 miliardi di dollari, seguito, al terzo posto, dalla donna più ricca del Paese, Wu Yajun di Longfor Properties, gruppo che nel 2010 ha venduto l'81% in più di contratti per oltre 5 miliardi di dollari. La signora, di suo, ne possiede 6,3, ed è membro del Congresso Nazionale del Popolo.
Circa il 10% delle mille persone più ricche di Cina, infati, è impegnato in politica. Sono 152, di cui 75 sono delegati al Congresso e 72 al Partito comunista cinese. E più soldi hanno, più in alto sono nella scala politica: nella top 50 hanno posizioni politiche il 15%, nella top 10 il 50%. Liang Wengen ne è un'eccellente dimostrazione: innanzitutto è il più ricco del Paese, poi è presidente e ceo di Sanyi, la più grande industria pesante, e fra un anno dovrebbe essere il primo imprenditore privato a candidarsi per entrare nel ristrettissimo Comitato Centrale del partito.
Spulciando i nomi degli altri settori si trovano sfizi e curiosità, come quella che il comparto It vanta i ricchi più giovani, visto che in testa c'è Li Yanhong, il capo del motore di ricerca Baidu, che ha un patrimonio di 8,2 miliardi di dollari grazie anche all'addio di Google alla Cina. E che con 710 milioni di dollari il ristoratore più ricco è Pan Wei, fondatore di Ajisen Noodles, che poi è una catena di fast food giapponese, cibo che evidentemente ai cinesi piace più del loro (il capo della catena South Beauty, di cucina nazionale, è al secondo posto).
Divertente e rivelatore è esaminare il numero di ricchi entrati in classifica dal 1999 al 2011 e l'entità del patrimonio considerato: se 13 anni fa le persone erano 50 e il primo era Rong Yiren, con 1 solo miliardo di dollari di patrimonio, oggi la top list è di mille e il più ricco è il già noto Liang Wengen, 55 anni e patrimonio di 11 miliardi di dollari. Curiosa è anche la lista di provenienza dei ricconi: la regione che ne ospita di più è il Guangdong (174 su 1000) e la città con più ricchi è Shenzhen (83 su 1000), mentre Pechino ne vanta solo 113 e Singapore uno solo, come Macau e l'intero Tibet. Ah, quel Rong Yiren, un anno prima di entrare in lista, era stato per cinque il vicepresidente. Dell'intero Paese.
5 ottobre 2011
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