Il Sud può spostare il centro del mondo
Caserta. Zinzi impugna l'ordinanza: «I rifiuti vadano a Terzigno, decisione ingiusta»
Emergenza rifiuti: oltre i decreti e le utopie, serve un vero piano
Bossi: de Magistris è un "ciciarun", solo Silvio risolve l'emergenza rifiuti
Il Sud può spostare il centro del mondo
di Franco Cassano
L’idea che sta alla base del Pensiero meridiano è molto semplice. Ormai da secoli, il Sud non parla più in prima persona, perché sono altri a parlare al suo posto. A parlare e a rappresentare il Sud è la civiltà che durante questi secoli è divenuta dominante, quella del Nord-Ovest del mondo che possiede non solo il primato economico-politico, ma anche l’egemonia sull’immaginario del pianeta. Agli occhi di tale civiltà, il Sud è, nella migliore delle ipotesi, sinonimo di una società arretrata, di un intreccio perverso di miseria e devianza, repressioni e superstizioni. Secondo questa prospettiva, l’unica possibilità di riscattarsi per il Sud è quella di diventare Nord, di cancellare quanto prima la propria differenza, di liberarsi da una cultura che, come una zavorra, gli impedisce di ridurre il proprio ritardo e avviarsi sulla strada del «progresso».
Il programma teorico del pensiero meridiano è quindi molto chiaro: decostruire questa immagine, interrompere una lunga sequenza storica durante la quale il Sud è stato pensato da altri e restituire ad esso l’antica dignità di soggetto del pensiero. In altre parole, il pensiero meridiano parte dalla convinzione che il Sud sia molto di più che un semplice non-ancora-Nord, che esso rappresenti una prospettiva autonoma e diversa, e che tale autonomia permetta, oggi più che mai, di guadagnare uno sguardo critico sulla direzione che il mondo ha preso nell’era della globalizzazione e dell’egemonia del liberismo. Il Sud, infatti, non rappresenta solo il passato, ma offre anche utili indicazioni per il futuro, è un altro punto di vista sul mondo.
Guardare il mondo da Sud vuol dire, quindi, proporsi una riforma profonda dello sguardo dominante. Il Sud deve schiodarsi dalla figura alla quale oggi è consegnato e deve guadagnare una prospettiva diversa da quella che lo rappresenta come una copia imperfetta e ritardata del Nord, un allievo eternamente incapace e immaturo, oscillante tra il paradiso turistico e l’inferno mafioso. Esso ha sicuramente molto da apprendere dal Nord, ma non mira a «diventare Nord». E non lo fa solo per un moto di orgoglio epistemologico, ma anche per altre e molto solide ragioni.
In primo luogo, esso non crede che la gerarchia tra i paesi cosiddetti sviluppati e quelli arretrati sia così limpida e meritocratica come pretende di essere. La metafora sportiva della competizione, così largamente usata, occulta la realtà, perché il mercato non è certo raffigurabile come una pista di atletica in cui le corsie sono libere e uguali per tutti i concorrenti. Chi sta davanti non ha alcuna intenzione di far passare chi sta dietro, e coloro che credono che sia possibile rovesciare tale gerarchia combattendo ad armi pari si sbagliano grossolanamente. Molti studiosi, anche di orientamento non radicale, lo hanno detto chiaramente, come ad esempio il premio Nobel per l’economia Douglass C. North: «L’”economia globale” non è un campo da gioco in cui tutti partono da zero: i paesi sviluppati godono di vantaggi maggiori, in quanto possiedono un contesto istituzionale/organizzativo che [...] riesce a catturare la produttività potenziale derivante dall’integrazione della conoscenza dispersa». In altre parole, i più forti dispongono di mezzi diversificati e sicuri per impedire agli altri di insidiare il loro primato.
Ma risalire la gerarchia per il Sud è difficile anche per un altro motivo: l’ambiente naturale di partenza non è uguale per tutti. Si ricordi quanto dice un grande storico come David S. Landes che, nel suo La ricchezza e la povertà delle nazioni, parte dal riconoscimento forte ed esplicito dell’influenza del clima temperato sullo sviluppo e sulla ricchezza delle nazioni. E senza dubbio il clima ha esercitato, ed esercita tuttora, un grande peso nel favorire o nell’ostacolare lo sviluppo economico di un paese. Ma del peso di questo fattore, a differenza di quanto facevano i primi maestri del pensiero sociale, oggi si parla molto poco. Anche in questo caso la possibilità di ridurre lo scarto esistente tra i paesi leader e tutti gli altri costituisce una rappresentazione alterata di una realtà nella quale quel divario è invece destinato a crescere. Da questi due ostacoli deriva un semplice corollario: certamente il Sud ha molto da imparare dai paesi più sviluppati, ma non li può inseguire senza incorrere in sconfitte e in delusioni, perché essi sono partiti prima, non hanno alcuna intenzione di farsi superare e si valgono di condizioni ambientali favorevoli. In termini calcistici, diremmo che giocano sempre in casa, anche se fingono di giocare in campo neutro. Che cosa sono le folle di migranti se non la riprova drammatica dell’impossibilità di superare quel divario, la definitiva e drammatica sepoltura dell’idea di uno sviluppo equo e diffuso su scala globale?
Infine, se vogliamo riconoscere, com’è giusto, un rilievo scientifico alla famosa diagnosi di Weber sul ruolo decisivo che un’etica religiosa, il protestantesimo calvinista, ha avuto nell’avviare l’accumulazione del capitale, dobbiamo chiederci come sia possibile, per tutti i paesi che non vengono da una tradizione abitata da un unico Dio, silenzioso e severo, avviare quel processo di razionalizzazione della vita che fa partire lo sviluppo. Si devono convertire?
La grande narrazione della crescita è quindi un racconto pieno di miraggi, perché predica l’universalizzazione di uno sviluppo non universalizzabile, mostra come un ritardo che il tempo attenuerà quella che in realtà è un’acuta asimmetria di potere. Ma la critica di questi dispositivi teorici che noi proponiamo non nasce da un banale risentimento, non è l’accusa che la volpe rivolge all’uva di essere acerba, ma muove dalla convinzione che il Sud non ha solo da imparare, ma anche da insegnare. Ovviamente tale rivendicazione del «valore» del Sud non coincide con l’apologia di un’antica terra assolata o orientale, con una sorta di rappresentazione esotica di sé, con una stupida indulgenza per i propri vizi. Il pensiero meridiano non è un ritorno alla tradizione, la rappresentazione di un idillio che non c’è, ma una mossa teorica che si propone di far vedere ciò che il pensiero della crescita infinita non permette di vedere, che prova a guardare quella che il lessico dominante chiama «arretratezza» da un altro lato, che si propone di usarla come una risorsa critica rispetto alla cultura dominante. È un movimento teorico che non coincide, ma ricorda quello descritto da Adorno in uno straordinario aforisma dei Minima moralia: «Uno dei compiti fondamentali di fronte alla crisi in cui si trova il pensiero è quello di impiegare tutti gli argomenti reazionari contro la cultura occidentale al servizio dell’Illuminismo progressivo».
Alcuni hanno visto un’analogia tra questa mossa teorica e quella che sta a fondamento del pensiero della differenza femminile. L’osservazione coglie nel segno. Come il femminile non è una forma di esperienza minore e imperfetta rispetto al maschile, ma una diversa relazione con il mondo che critica la falsa neutralità del dominio maschile, così il Sud non costituisce semplicemente uno stadio imperfetto e incompiuto dello sviluppo, ma un altro sguardo che mira a custodire un’autonomia rispetto al mondo sviluppato e a decostruirne l’arroganza simbolica. Va anche da sé che questo movimento non costituisce una difesa della tradizione, proprio come il pensiero della differenza femminile non coincide in alcun modo con l’idealizzazione della posizione tradizionale della donna. In entrambi i casi siamo di fronte non a una difesa della società tradizionale contro la società moderna, ma a una critica della falsa neutralità e universalità dei modelli culturali dominanti, a una critica della forma di modernità oggi dominante.
In un tempo in cui il futuro è affondato, e ci si è abituati a vedere nell’ordine di cose esistente l’unico mondo possibile, ogni critica contro di esso viene liquidata come nostalgia, come una regressione al passato. L’autonomia del Sud non vuol dire, conviene ribadirlo, l’idealizzazione del Sud esistente. Al contrario: la prospettiva dell’autonomia richiede l’abbandono di tutte le indulgenze che accompagnano la dipendenza, richiede che si sappia saper andare da soli, che ci si sappia governare. Autonomia, autós – nómos, vuol dire vivere con le proprie leggi, saper dare regole a se stessi: essa non esiste senza severità.
09 Luglio 2011
Caserta. Zinzi impugna l'ordinanza: «I rifiuti vadano a Terzigno, decisione ingiusta»
Il presidente della Provincia ha dato mandato a legale
per fare ricorso al Tar contro la decisione di Caldoro
CASERTA — «Impugneremo l’ordinanza del presidente Stefano Caldoro. Ho già dato mandato a un legale di presentare un ricorso d'urgenza al Tar contro questa decisione ingiusta ed inaccettabile. Nella discarica di San Tammaro non può arrivare la spazzatura di Napoli».
Così il presidente della Provincia di Caserta, Domenico Zinzi, ha commentato l’ordinanza firmata dal governatore Caldoro, che prevede il conferimento dei rifiuti di Napoli nelle discariche delle province di Caserta, Benevento ed Avellino. «È un dovere - ha proseguito Zinzi - che sento nei confronti del mio territorio e dei cittadini della provincia di Caserta, sui quali pesa l'onere delle migliaia di tonnellate di rifiuti che sono stati sversati qui da noi. Accogliere i rifiuti di Napoli a San Tammaro non è possibile, in quanto significherebbe andare incontro ad un'emergenza nella provincia di Caserta in tempi brevi. Ricordo ancora una volta che la discarica di Terzigno ha la possibilità di accogliere altre 35mila tonnellate di rifiuti. È lì che Napoli dovrebbe portare la sua spazzatura».
Emergenza rifiuti: oltre i decreti e le utopie, serve un vero piano
A partire dalla prossima settimana potremo liberarci di duemila tonnellate di rifiuti al giorno? Solo ipotesi
di MARCO DEMARCO
Ce l'abbiamo fatta? Siamo fuori dall'emergenza? Macchè. Dobbiamo essere grati al governatore Caldoro e al sindaco de Magistris per quello che stanno facendo. Ma il tenace tecnicismo del primo e il generoso entusiasmo del secondo hanno solo aperto qualche spiraglio nel fronte dei rifiuti. Con una buona azione diplomatica nei confronti di Province e Regioni e infiammando il cuore delle truppe, i nostri leader sono riusciti a respingere l’assalto finale.
Resta il fatto, però, che l’assedio dei rifiuti è sempre lì, minaccioso come prima. Se tutto andrà bene, e non è affatto scontato che così sarà, a partire dalla prossima settimana potremo liberarci di duemila tonnellate di rifiuti al giorno. Niente, rispetto alle centomila tonnellate che intasano Stir, aree di parcheggio e siti provvisori. Non sarà come svuotare il mare con un secchiello, ma poco ci manca, perché mentre ci saranno camion che caricheranno e porteranno via, ce ne saranno altri che, inesorabili, arriveranno e depositeranno.
Per smaltire centomila tonnellate di rifiuti occorreranno oltre tremila automezzi, ognuno dei quali ha una capienza massima di trenta tonnellate. E se si considera che per ogni tonnellata il costo medio è di 150 euro, si può facilmente calcolare che l’intera operazione verrà a costare non meno di 15 milioni. Anche Berlino fu tenuta in piedi da un tenace e generoso ponte aereo da parte degli occidentali. Ma durò 462 giorni. Non 17 anni. Quelle messe in campo da Caldoro e de Magistris in questi giorni sono dunque azioni apprezzabili, ma limitate. Ingaggiare, come ha fatto il governatore, una battaglia per un nuovo decreto legislativo, e far lavorare, come ha fatto il sindaco, chi prima preferiva imboscarsi, ha costituito un passo in avanti, ma non la svolta che tutti attendevamo. La sostanza è l’assoluta mancanza di un piano strategico. Un piano, per intenderci, che consenta o di produrre meno rifiuti di quanti ne possiamo smaltire, o di smaltire tutti quelli che produciamo.
Per ora siamo solo alle ipotesi, alle buone intenzioni, alle esercitazioni teoriche. Il piano presentato da Caldoro alla Comunità europea, ad esempio, non è riuscito a convincere nessuno, tant’è che i finanziamenti previsti sono ancora bloccati. E con le divergenze emerse sul termovalorizzatore (Caldoro lo vuole, de Magistris no) lo saranno ancora per molto. Il piano intermedio, quello che prevede l’uso delle cave, elaborato dal commissario Vardè, è fresco di stampa, ma assai lontano dalla efficacia, tanto è vero che è contestato da tutte le parti. Infine, il piano di de Magistris e Sodano, quello di una Napoli a rifiuti zero, appare perfetto a chi lo ha proposto, e magari lo sarà anche, ma ha un difetto: non tiene conto della realtà di partenza. Eppure, Napoli non è una città intonsa, che si affaccia ora alla storia. È una città ecologicamente indebitata. Ed è da questa città che de Magistris è stato eletto. In fondo, se non fosse stata così disastrata, forse Napoli non si sarebbe rivolta a lui. E dunque, è comprensibile il desiderio del sindaco di sognare un’altra Napoli, ma intanto è con questo contesto e con questa eredità che deve fare i conti.
Bossi: de Magistris è un "ciciarun", solo Silvio risolve l'emergenza rifiuti
Il leader del Carroccio rivela: «Berlusconi era commosso quando ha visto come era ridotta Napoli»
NAPOLI - «Ci sarà una persona sola a risolvere il problema dell'immondizia a Napoli, si chiama Silvio Berlusconi». Se ne è detto convinto Umberto Bossi, che intervenendo a una festa della Lega Nord alle porte di Milano, ha confermato che i rifiuti campani «non arriveranno qui». «Berlusconi è uno generoso - ha aggiunto il segretario del Carroccio parlando del presidente del Consiglio - il problema lo aveva risolto l'altra volta ma alle elezioni lo hanno dimenticato. Nonostante questo l'altro giorno mi ha detto "sono commosso nel vedere cosa succede a Napoli, ci penserò io"». Di Berlusconi, ha infatti affermato Bossi, «si può dire di tutto ma non che non sia generoso o capace, mentre il sindaco di Napoli è un altro 'ciciarun' (chiacchierone, ndr)»
Nessun commento:
Posta un commento