Caldoro avverte Monti: rischio default in Campania
La carica delle tasse locali oltre mille euro a famiglia
L'Europa contro l'austerità: cadono Romania e Paesi Bassi, tremano Francia e Repubblica Ceca.
L'economia spagnola rischia il collasso
È fuga dalle banche iberiche Fuoriusciti depositi per 65 miliardi
Stabio, Ticino. Il paese del boom industriale (cento metri fuori dall'Italia)
Caldoro avverte Monti: rischio default in Campania
Il presidente della giunta chiede piani di rientro per ambiente e trasporti: "Siamo affidabili"
NAPOLI — Il governatore Stefano Caldoro lo ha sussurrato tra i denti nel corso della riunione di giunta regionale di ieri, venerdì, mattina: «Il rischio default è più che presente in Campania, dopo che la Sicilia si è vista bloccare i fondi Fas per la spesa corrente. E per noi, lo stesso blocco, sarebbe esiziale». Ma il presidente della Regione ha deciso di non fare passi indietro. «Per affrontare la crisi sono necessari strumenti normativi nuovi e straordinari — ha spiegato —. In questi due anni abbiamo bloccato l'emorragia, ma non la malattia. Nel settore della sanità abbiamo registrato le migliori performances in Italia. Questo metodo può essere trasferito anche in altri settori come trasporti e ambiente. È una richiesta, quella di poter avere questi strumenti anche per altri settori, che ho formalizzato al Governo. La riduzione dei trasferimenti da parte del Governo, che si unisce a situazioni di debito pregresso - ha aggiunto - impone di individuare, per le Regioni in genere e per la Campania in particolare, avendo anche violato il patto di stabilità nel 2009/10, nuovi meccanismi. Interventi normativi del Governo da unire alla buona amministrazione locale. Altre soluzioni non ci sono, se non aumentare l'esposizione».
PRONTI I COMMISSARI - Nei prossimi giorni, dopo che il ministero dell'economia ha dato la sua approvazione al piano di stabilizzazione, dovrebbe arrivare la nomina dei commissari governativi. Anche se neanche questo — a detta di Caldoro — risolverebbe l'enorme mole di difficoltà finanziaria in cui si dibatte il bilancio regionale. Il governatore continua a considerare, come strategia di uscita, l'ipotesi di una gestione separata sul modello della Parmalat di Bondi: da una parte il debito accumulato da smaltire poco per volta e dall'altra una gestione ordinaria senza impedimenti.
I DEBITI ACCUMULATI - «La Regione — spiega Salvatore Varriale, presidente della Soresa e capo dipartimento in pectore delle risorse finanziarie, umane e strumentali — ha 15 miliardi di debiti, tutti provenienti dal passato. Di cui, 10 relativi alla sanità e 5 al bilancio ordinario. Poi, ci sono i circa 550 milioni di deficit annuale. Insomma, si può rientrare da questa pesante criticità soltanto se il Governo offrirà una opportunità normativa per liberare l'ordinario dalla morsa del pregresso. Quindi, o si interviene come già avvenuto per Roma Capitale con un intervento straordinario di 500 milioni oppure con la possibilità di attuare piani di rientro sulla scorta di quanto già concesso per la sanità, dove registriamo performance di tutto rispetto. A giorni arriveranno i commissari governativi per il piano di stabilizzazione. Le priorità riguarderanno il trasporto pubblico locale e il settore ambiente, comprensivo delle Comunità montane, Arpac Multiservizi, vicenda Jacorossi. Nel piano di stabilizzazione, ovviamente, condizione necessaria sarà il decentramento delle funzioni e, quindi, la mobilità verso gli enti locali. Dei 5800 dipendenti attuali della Regione arriveremo ad averne circa la metà, conformandoci al limite standard di 3200 dipendenti. Come? Centocinquanta circa andranno in pensione entro il 2012; 304, negli anni, sono stati distaccati presso gli enti locali per aprire biblioteche e strutture ad esse equiparate; poi, ci sono circa 2500 dipendenti impegnati nella formazione e nel settore agricoltura, funzioni che nelle altre regioni sono gestite da Province e Unione dei comuni. Per questo contiamo che almeno duemila dipendenti saranno definitivamente trasferiti negli altri enti».
LA SPESA - L'obiettivo è quello di alleggerire fortemente la spesa corrente attraverso la riduzione del personale. E Caldoro lo dice a chiare lettere sul suo blog, commentando l'articolo del Corriere della Sera di due giorni fa, a firma di Gianantonio Stella e Sergio Rizzo, sulle spese folli delle Regioni: «Il Corriere della Sera — scrive il presidente della Campania — ha descritto la situazione di alcune Regioni con un articolo verità dal quale emerge, e non è una sorpresa, che alcune Regioni, soprattutto del Sud, hanno troppi dipendenti pubblici, mentre alcune del Nord sono più virtuose. La risposta nostra è stata quella di correggere questi numeri. In due anni abbiamo ridotto di mille unità i dipendenti, abbiamo cento dirigenti in meno e c'è il blocco del turn over. Non tutte le Regioni del Nord sono virtuose perché se guardiamo quelle a statuto speciale, proprio al Nord, hanno un numero di dipendenti maggiore. Se faccio una partita non posso vedere il campionato degli ultimi quarant'anni, devo vedere come gioco la partita e se la vinco qualcuno deve dirlo. Se guardiamo a questi numeri il risultato della Campania è nettamente migliore delle altre, quindi la Campania è virtuosa. Nel Mezzogiorno ci sono un terzo dei cittadini, ma si produce un quarto della ricchezza. Per far crescere il Paese e renderlo competitivo bisogna far produrre, a chi oggi non ci riesce ma ne ha le capacità, di più».
LE CONTROMISURE - Quello che palazzo Santa Lucia ripete è che «non si può agire più come si è fatto per il passato». Quando «i Forestali — accusa Varriale — si pagavano con i mutui per circa 100 milioni. Così per i trasporti. Negli ultimi 24 mesi — aggiunge il capo dipartimento di Caldoro — tra sanità e bilancio ordinario siamo riusciti a risparmiare circa 700 milioni di euro. Ma i 15 miliardi di debiti pregressi sono tutti lì. A ciò si aggiungano i vincoli del patto di stabilità che ci consentono di assumere 3,7 miliardi di impegni a fronte di 2,5 miliardi di cassa che, tuttavia, non sono nelle nostre disponibilità. Anzi, avremmo bisogno di circa 4 miliardi di cassa per affrontare la situazione. Insomma, è la solita storia del cane che si morde la coda. E noi, come Regione Campania, oltre che ridurre lo spreco e individuare le priorità, non possiamo fare altro».
Angelo Agrippa
La carica delle tasse locali oltre mille euro a famiglia
Sindacati in trincea: "Così ci mangeranno del tutto la tredicesima di quest'anno". Alla vigilia delle elezioni, molti sindaci hanno già aumentato i tributi, altri lo faranno dopo
di ROBERTO PETRINI
LA carica delle tasse comunali continua. A pochi giorni dalla tornata elettorale che coinvolgerà circa mille amministrazioni locali, la pressione fiscale è in primo piano: Imu, addizionali Irpef, tassa dei rifiuti, imposta di soggiorno, tasse di scopo, Rc auto e Irpef regionale. Secondo l'"Osservatorio" della Uil servizi politiche territoriali i sindaci che hanno già deciso il rincaro dell'Irpef sono 341, i grandi Comuni che hanno deliberato rincari dell'Imu (già assai pesante) sono 24, quelli che hanno varato la tassa di soggiorno 495, mentre 12 capoluoghi hanno aumentato la Tarsu. Il costo medio è alto: 157 per l'Irpef comunale, 371 per quella regionale, 113 euro per l'Imu prima casa, 223 per la spazzatura. Tassa di soggiorno anche sui camping. In media più di 1.000 euro se ne andranno in tasse locali. Ma non è finita: entro il 30 giugno, dopo le elezioni, i Comuni potranno ancora aumentare l'Irpef e avranno tempo fino al 30 settembre per ritoccare l'Imu. "Giù le tasse", hanno chiesto Cgil, Cisl e Uil. "Ci mangeranno la tredicesima del 2012", ha avvertito il segretario della Uil Angeletti.
L'addizionale comunale. Costeranno 157 euro pro-capite: a Roma l'aliquota più alta d'Italia
Le ha sbloccate il governo Berlusconi e da allora 341 Comuni ne hanno approfittato, tra questi 8 città capoluogo. I Municipi possono aumentare l'addizionale dallo 0,1 allo 0,8 per cento e molti sindaci lo hanno fatto senza indugi. Ad esempio, a Palermo è passata dallo 0,5 allo 0,8; a Chieti dallo 0,7 allo 0,8; a Brescia dallo 0,2 allo 0,55; a Viterbo dallo 0,4 allo 0,5 per cento. Ferrara ha deliberato 3 aliquote per fasce di reddito passando da una aliquota unica dello 0,5 ad aliquote comprese tra lo 0,6 e lo 0,8 per cento. Roma, che ha l'aliquota più alta d'Italia, allo 0,9 per cento, ha confermato. Ma non è finita: la stragrande maggioranza dei Comuni potrà ancora agire, magari dopo le elezioni amministrative, perché c'è tempo fino al 30 giugno per deliberare l'aumento. Il costo medio pro capite sarà quest'anno di 157 euro. Il gettito 3,4 miliardi.
La tassa di scopo. Nessuno vuole l'Imu-bis, consumatori sul piede di guerra
Per ora l'hanno applicata solo 20 Comuni, ma vista la fame di risorse che affligge i sindaci non è esclusa una escalation della tassa di scopo o Imu bis. Per metterla in campo bisogna impegnarsi a finanziare con il gettito un'opera pubblica, può durare fino a dieci anni e, se l'opera non viene realizzata, deve essere restituita al contribuente. Nata con il governo Prodi è stata confermata da Berlusconi e, da ultimo, da Monti che ha dovuto adeguare il meccanismo alla nuova Imu. Infatti la base imponibile dell'Imu-bis è la stessa dell'Imu: di fatto si tratta di una addizionale dello 0,5 per mille alla base imponibile dell'Imu, cioè la rendita catastale rivalutata. Il Codacons ha già messo le mani avanti e ha minacciato: se la tassa sarà applicata al di fuori dei suoi limiti sarà illegittima e scatteranno migliaia di ricorsi al Tar.
La tassa di soggiorno. Per i turisti fino a 35 euro al giorno, a Firenze e Venezia si paga il lusso
Chi fosse già partito per il ponte, condizioni economiche permettendo, la troverà già operativa in molti centri. E' l'imposta di soggiorno: costa fino ad un massimo di 5 euro a notte. Solo in albergo? No. Anche il turismo low cost subirà la stangata. A Firenze, ad esempio, si paga 1 euro a notte anche per il campeggio, a Ragusa 1 euro per l'agriturismo, a Genova un euro per il B&B. I sindaci di città d'arte, di mare, montagna e collina si sono mossi con velocità: fino ad oggi l'hanno deliberata in 495. Introdotta dal governo Berlusconi e prevista dal federalismo municipale potrà dare un gettito che, secondo una stima approssimativa, è valutato in 1,2 miliardi. Per un soggiorno di una settimana in media si pagheranno 22 euro. Ma se si sceglie un albergo a cinque stelle a Venezia o a Firenze l'aggravio è di 35 euro a persona. Per una famiglia di quattro persone basta moltiplicare.
La Tarsu. Milano, Messina e Reggio Calabria, rifiuti e servizi più cari del 25-30%
Le cartelle in molte città stanno arrivando in questi giorni: è maggio infatti il mese della Tarsu, la tassa sui rifiuti. Già 12 Comuni capoluogo hanno messo a segno o annunciato gli aumenti: a Messina il 30 per cento, a Reggio Calabria il 25 per cento, a Milano, dove il costo del servizio era fermo dal 2002, l'aumento sarà del 20 per cento. Rincari sono previsti anche a Torino, Siracusa, Bari e Latina. Si paga in base ai metri quadrati e dal prossimo anno arriverà un'altra sorpresa: la Tarsu cambierà nome in Tares, cioè tassa sui rifiuti e servizi. La parte rifiuti dovrà coprire il 100 per cento del costo del servizio (oggi è possibile anche posizionarsi più in basso), ma soprattutto si pagherà anche un forfait per illuminazione, anagrafe e così via: una sovrattassa che andrà dai 30 ai 40 centesimi al metro quadrato. Il costo non è irrilevante: 223 euro a famiglia per 7,2 miliardi.
L'imposta Rc auto. Colpiti gli automobilisti per finanziare le Province
Anche le Province partecipano al balletto delle tasse. Nel carniere vantano l'imposta sulla Rc auto: la base è del 12,5 per cento, ma le Province possono aumentarla (o diminuirla) del 3,5 per cento. Dal 2010, da quando è in vigore il decreto sul federalismo fiscale varato da Tremonti e Calderoli, su 90 province 68 hanno approfittato dell'occasione. Di queste 34 lo hanno fatto quest'anno. Da Napoli a Bari, da Potenza a Torino gli aumenti sono arrivati fino al tetto massimo. In controtendenza solo la provincia di Firenze che ha diminuito l'imposta sulla Rc auto dell'1 per cento. Non si tratta di minutaglie: costa in media 133 euro ad automobilista e dà un gettito di 1,8 miliardi, il 40,9 per cento delle entrate proprie delle Province. A rendere ancora più doloroso l'intervento la prevista franchigia di 40 euro sulla deducibilità della tassa sulla Rcauto che va al Servizio sanitario nazionale (10,50 per cento) che sarà introdotta per finanziarie la riforma degli ammortizzatori sociali.
L'addizionale regionale. A maggio verifica sulla sanità, si rischia lo 0,3% in più
La batosta non è stata ancora digerita e non sono escluse sorprese per il futuro. Lo sblocco delle addizionali regionali va attribuito al governo Berlusconi, ma l'esecutivo Monti - per far fronte all'emergenza - ha aumentato l'aliquota di base dell'Irpef regionale dello 0,33 per cento portandola all'1,23 per tutte le Regioni. A conti fatti si tratta in media di un esborso complessivo di 371 euro, aumenti compresi. Il gettito delle addizionali regionali è complessivamente di 11 miliardi di cui 2,4 miliardi relativi al recente rincaro. Il costo dell'inasprimento è stato di 76 euro in media testa per 40 milioni di contribuenti. L'effetto si è sentito sulle buste paga di gennaio-marzo e la coda si troverà nella dichiarazione dei redditi. Ma non è finita: a maggio ci sarà la verifica sui disavanzi sanitari e c'è il rischio che in alcune Regioni scatti l'incremento dello 0,3 già in vigore in Campania, Molise e Calabria.
(28 aprile 2012)
L'Europa contro l'austerità: cadono Romania e Paesi Bassi, tremano Francia e Repubblica Ceca.
Carlotta Zanello
Uno dopo l'altro, in conformità con i dettami imposti dall'Unione, i governi dei paesi europei si muovono verso l'approvazione di pacchetti di misure economiche per l'austerità, senza che questo non provochi delle reazioni da parte dell'opinione pubblica e dei rispettivi Parlamenti.
Proprio ieri, in Romania, il leader del partito di centro destra Mihai Ungureanu, al governo da appena due mesi, è stato costretto a ritirarsi da una mozione di sfiducia presentata dall'opposizione contro un piano di ulteriori tagli alla spesa pubblica ed intense privatizzazioni.
A soli sei mesi dalle prossime elezioni legislative, il Capo dello Stato Traian Băsescu è il 39enne Victor Ponta, leader del partito di sinistra all'opposizione Unione Sociale Liberale. Con il controllo di 228 seggi su 460, Ponta deve accaparrarsi il sostegno dei piccoli partiti, ma sopratutto dovrà fare i conti con il vigile controllo del Fondo Monetario Internazionale e dell'Unione Europea.
La crisi di governo è stata causata dall'esasperazione della popolazione; come secondo paese più povero d'Europa, la Romania combatte contro un salario minimo di 350 euro mensili, un sistema sanitario fatiscente e una fortissima emigrazione che nell'ultimo decennio ha provocato un calo della popolazione del 10%.
Ma la presenza dell'FMI è forte in questo paese e ci si aspetta quindi che Ponta rispetti gli impegni di politica economica, il che prevederebbe comunque altri tagli. I mercati stanno attendendo per verificare la stabilità del nuovo esecutivo e quindi accordare o meno la loro fiducia ai titoli di stato romeni.
In una circostanza simile, ovvero in seguito all'approvazione parlamentare del bilancio nazionale, il Primo ministro della Repubblica Ceca Petr Necas si è salvato per il rotto della cuffia (105 voti favorevoli contro 93) e il suo indice di popolarità è sceso in picchiata al 16%. Sebbene il tasso del debito pubblico di questo paese sia tutto sommato inferiore alla media UE (41% sul PIL), un tale clima di sfiducia potrebbe ostacolare i suoi futuri piani di Necas per la riduzione del debito, l'imposizione di alte tasse universitarie e la distribuzione alla Chiesa cattolica di beni demaniali come risarcimento del periodo comunista.
Nei Paesi Bassi, dove il primo ministro Rutte è caduto a causa della mancata approvazione di un piano di tagli alla spesa pubblica, le forze dei vari partiti (i tre all'opposizione del D66, la sinistra verde e l'Unione cristiana), per timore che la tripla A del rating del paese potesse essere declassata, hanno trovato un accordo per il rientro del Pil entro il 3% imposto dall'UE.
La battaglia finale sarà ora quella del 6 maggio parigino, dove Sarkozy, promotore della politica economica del rigore insieme alla Merkel, rischia di diventare il primo presidente francese non riconfermato nella carica da 30 anni a questa parte.
L'economia spagnola rischia il collasso
Luca Veronese
L'uomo che doveva portare la Spagna fuori dalla crisi, Mariano Rajoy, «uno che risolve i problemi» come diceva di sé nelle «entusiasmanti» settimane della campagna elettorale, sembra avere smarrito la strada, oltre che l'entusiasmo. Il downgrade di Standard&Poor's che ha abbassato il rating iberico da A a BBB+ conferma la deriva di Madrid e sottolinea, una volta di più, la fragilità delle banche del Paese con un sistema finanziario che ha già ricevuto aiuti pubblici e che è stato oggetto di due riforme negli ultimi tre anni. Mentre il tasso di disoccupazione salito al 24,4% nel primo trimestre fa aumentare i dubbi sull'austerity, imposta da Bruxelles e accettata a denti stretti a Madrid, oltre che sulle nuove regole per il lavoro appena introdotte nel Paese per accentuare la flessibilità (più di quanto avesse già fatto il premier precedente José Luis Zapatero).
In quattro mesi di Governo Rajoy si è giocata quasi tutta la credibilità nei confronti dei mercati, dell'Europa e di larga parte anche dei suoi concittadini. Il premier conservatore - al quale anche gli oppositori socialisti, riconoscono capacità e tenacia - è con le spalle al muro. E i suoi ministri reagiscono in modo scomposto agli attacchi.
Stiamo affrontando «una crisi di proporzioni enormi» ha detto ieri, senza mezzi termini e senza prudenza, il responsabile degli Esteri, José Manuel Garcia-Margallo, commentando il taglio di S&P's. «È come per il Titanic - ha continuato Garcia-Margallo avvisando la Germania - se c'è un naufragio, annegheranno anche i passeggeri di prima classe».
Mentre il viceministro all'Economia, Fernando Jimenez Latorre, ha risposto con durezza all'agenzia di rating americana: «S&P's non riconosce il grande consolidamento in corso. Il nostro impegno - ha detto Latorre - è assoluto, e non appena i mercati si renderanno conto che non ci sono problemi di solvibilità e che possiamo affrontare i nostri debiti e obblighi finanziari, torneranno ad avere fiducia».
Luis de Guindos, il vero regista dell'azione del Governo in questa fase, ha invece assicurato che l'economia spagnola appena entrata in recessione «tornerà a crescere già nel 2013 e nel 2014 in modo più sostenuto dell'1,4%» mentre restano confermati gli obiettivi di risanamento - ha aggiunto - con il deficit che dovrebbe scendere al 5,3% del Pil quest'anno e poi al 3% entro il 2013. Il ministro dell'Economia ha fatto riferimento anche alla possibilità di aumentare le imposte sui consumi - annunciando di fatto un aumento dell'aliquota Iva (dal 18 al 20%) dal prossimo anno - per recuperare in tutto otto miliardi di euro.
Il declassamento di Standard&Poor's non ha avuto ripercussioni rilevanti sui mercati - forse perché tardivo e già scontato - ma ha comunque contribuito a far aumentare la tensione. Nonostante le dichiarazioni di circostanza e gli attestati di fiducia scontati che sono giunti a Madrid dall'Unione europea e dalla Germania di Angela Merkel. «La situazione è ancora più critica - ha detto il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble - i mercati finanziari hanno semplicemente bisogno di messaggi chiari. La fiducia si perde in pochi giorni e poi ci vogliono mesi o anni per riconquistarla». La Spagna da troppi mesi si muove sull'orlo del precipizio. Non ci sono rischi imminenti di insolvenza, la stessa S&P's ha detto con chiarezza che «non c'è alcuna possibilità all'orizzonte anche perché il Tesoro di Madrid ha già emesso il 50% del suo debito quest'anno». Ma la debolezza delle banche sommata alle incertezze sui conti pubblici, soprattutto delle Regioni autonome, rischia di far precipitare la crisi.
Per Rajoy inoltre, «il grande nemico», la disoccupazione continua a crescere in modo allarmante: gli spagnoli senza lavoro sono 5,7 milioni, il tasso di disoccupazione che fino al 2007 era simile a quello della Germania, tra gennaio e marzo, è salito al 24,4%, livelli che non si registravano da 18 anni. Con punte superiori al 30% in Regioni come l'Andalusia e con numeri folli nelle fasce più giovani della popolazione: in Spagna, la quarta economia dell'Eurozona, il 52% degli under 25 è senza lavoro.
È fuga dalle banche iberiche Fuoriusciti depositi per 65 miliardi
Fabio Pavesi
Il copione si sta riproponendo. In forma e intensità diverse, ma sulla falsariga di quanto accaduto alla Grecia e alle sue banche. La crisi profonda e lo spettro della tenuta del Paese hanno fatto fuggire a ritmi sempre più elevati i clienti dalle banche di Atene. Ora tocca a Madrid vivere lo stesso incubo. I depositanti si allontanano a rotta di collo dalle banche spagnole.
Depositi in fuga
Secondo le stime prodotte dagli analisti di Ubs, ammonterebbero a 65 miliardi di euro i soldi fuoriusciti negli ultimi mesi dai conti correnti degli istituti del Paese iberico. Una somma che secondo gli analisti di Ubs vale circa un 5,2% di decremento netto da febbraio 2001 a febbraio 2012. Un fuggi fuggi che sta vivendo una profonda accelerazione dato che secondo la Banca di Spagna a dicembre del 2011 la contrazione dei depositi accusava un calo del "solo" 2 per cento.
Del resto uno scenario di questo tipo, e cioè la disaffezione dei clienti spaventati dalla più grave crisi bancaria che il Paese sta vivendo, era intuibile. È uno dei sintomi più manifesti delle gravi difficoltà economiche. Anche ad Atene le prime avvisaglie della crisi avevano visto le fughe dei clienti dagli sportelli.
Molti analisti già alla fine dello scorso anno avevano individuato in Madrid il nuovo bersaglio degli attacchi speculativi della finanza internazionale. Gli ingredienti del resto c'erano tutti. Una recessione tra le più pesanti in Europa; un deficit che andrà riportato se tutto va bene al 5,3% del Pil dall'8,5% del 2011; un tasso di disoccupazione al 24,4 per cento. Insomma un Paese alle corde che può contare come unico punto di forza su quel debito ancora contenuto al 70% del Pil, ma che tenderà comunque a salire già quest'anno verso quota 80 per cento.
Sofferenze immobiliari a 184 miliardi
E in mezzo a questa debàcle ci sono le banche con le loro fragilità strutturali: in particolare quell'esposizione colossale al settore immobiliare che vale almeno 330 miliardi di euro, un terzo del reddito prodotto ogni anno dall'intero Paese.
Il dato inquietante è che ben più della metà di quei prestiti sono considerati problematici. Un dato enorme, circa 184 miliardi di crediti deteriorati che rischiano di non venire recuperati dalle banche e che pesano come una spada di Damocle sui bilanci degli istituti, in particolare le casse di risparmio locali. Che già in un paio di occasioni sono state costrette a convolare a nozze pena il fallimento. È il caso di Banca Civica finita nelle braccia di Caixabank e prima ancora della Cajas del Mediterraneo soccorsa dal Banco Sabadell. In entrambi i casi a far correre sull'orlo del precipizio le due banche è stato il peso delle sofferenze immobiliari salite al 20% del totale dei crediti erogati.
In fumo già 155 miliardi e altri 100 in arrivo
Il prezzo pagato dalle banche allo sboom immobiliare è costato finora ben 155 miliardi di euro, il 15% del Pil spagnolo. Ma le pulizie di bilancio non sono ancora finite. E il mercato lo sa. Le stime di Barclays Capital ipotizzano che nei prossimi anni i prestiti a rischio nell'immobiliare possano produrre altri 100 miliardi di perdite per il sistema bancario spagnolo. Sommati a quei 155 miliardi di euro di risorse drenate dagli istituti di credito portano a ben 255 miliardi la quantità di denaro bruciata sull'altare della bolla immobiliare di Madrid.
La Spagna preleva 200 miliardi dal rubinetto Bce
Questi i nodi della crisi bancaria più grave che il Paese abbia mai vissuto e che stanno venendo tutti al pettine. E così, vista la gravità della situazione non stupisce che la Spagna sia stato il Paese periferico che più ha attinto ai finanziamenti della Banca centrale europea. Solo con la seconda asta di Francoforte del 29 febbraio scorso l'insieme delle banche spagnole ha ricevuto 147 miliardi di euro di liquidità netta, circa la metà dell'intera erogazione per l'insieme delle banche europee. E se si sommano ai 147 miliardi i 55 miliardi prelevati a fine dicembre 2011 ecco che le banche di Madrid si sono ritrovate con una provvista di oltre 200 miliardi. Segno tangibile della necessità di denaro da parte del sistema. Ora però quei soldi sono in realtà già finiti. Una parte, circa 80 miliardi, è finita ad acquistare Bonos così da far fronte al venir meno della domanda straniera e da tenere sotto controllo (si fa per dire) quello spread che continua a stare stabilmente sopra i 400 punti base sui titoli tedeschi. Ma una quota rilevante ha dovuto rimpinguare i 65 miliardi fuoriusciti dalle casse. E così dopo solo 4 mesi restano disponibili solo una ventina di miliardi. Le munizioni o meglio la liquidità è di fatto già finita per le banche di Spagna. Ma la crisi dell'economia reale è ben lungi dall'essere superata e i suoi effetti collaterali mordono come non mai ai fianchi di un sistema bancario sempre più traballante.
Stabio, Ticino. Il paese del boom industriale (cento metri fuori dall'Italia)
Stabio, Svizzera: solo 40 giorni per aprire e tasse al 25%. Il Comune riceve una domanda a settimana dall'Italia
STABIO (SVIZZERA) - Di spazio per costruire nuovi capannoni non ce n'è quasi più; chi vuole aprire un'azienda da queste parti deve contendersi terreni a 450 euro il metro quadro, il triplo rispetto alla media del mercato. E la disoccupazione? Sparita dal vocabolario. Il paese del nuovo boom industriale si trova ad appena 50 chilometri da Milano; solo che giunti al quarantanovesimo chilometro e novecento metri vi si para davanti il confine italo-svizzero.
Benvenuti a Stabio, primo comune appena attraversata la frontiera tra Lombardia e Ticino: quattromila sono i residenti, 4 mila e 800 gli addetti delle aziende che arrivano ogni giorno dall'Italia.
Il paesaggio dice già tutto: la strada che porta qui da Varese è affiancata da edifici industriali dismessi e con le scritte «vendesi» e «affittasi» in bella vista; ma appena attraversata la dogana ecco una fila ininterrotta di capannoni nuovi, nuovissimi o in costruzione. Il primo a scoprire questo eldorado fu negli anni '70 il gruppo tessile Zegna; ma la vera esplosione è molto più recente: hanno piantato qui le tende gli americani di VF (sempre settore moda), i tedeschi della Mes (macchine industriali), i lombardi della Cazzani (materie plastiche), i liguri della Iboco (logistica) tutti a colpi di 200-300 posti di lavoro alla volta. E appresso a loro una miriade di piccole aziende meccaniche, tessili, dei servizi che fanno di Stabio un piccolo fenomeno.
Solo chi è qui da tempo può spiegare il boom industriale a 100 metri dall'Italia. Michael Stumm, metà tedesco e metà milanese è amministratore delegato della Montanstahl, azienda di lavorazione dei metalli, una delle prime che si incontra venendo dall'Italia: «Qui è come essere in Italia e in Svizzera allo stesso tempo; ci sono il clima e la qualità della vita del Belpaese e c'è soprattutto la manodopera specializzata proveniente dal Varesotto, dal Comasco. Senza i frontalieri l'economia di questa zona non starebbe in piedi, non solo perché la manodopera italiana costa meno ma anche perché ha capacità che qui non si trovano. Poi ci sono la pace sociale e la stabilità politica della Svizzera: il diritto è una cosa certa, le controversie legali non durano dieci anni, la burocrazia non è nemica. E poi c'è la pressione fiscale».
Già, le tasse. In Ticino gli utili delle aziende sono tassati al 9%, a cui va aggiunta un'imposta comunale che a Stabio è il 65% di quel 9, una delle più basse delle zona e che ha contribuito senza ombra di dubbio a richiamare qui imprese e lavoro. «A conti fatti a Stabio la pressione fiscale non supera il 20- 25% - afferma Claudio Cavadini, sindaco del paese -, e grazie alla presenza delle aziende noi copriamo il 50% del nostro fabbisogno finanziario. Da parte nostra rispondiamo con la qualità dei servizi: massimo 40 giorni e chi vuole aprire un'attività qui si vede rilasciati tutti i permessi». E poi c'è il treno, che sta invogliando altre industrie ad arrivare a Stabio; da qui passerà la nuova linea da Lugano a Malpensa, e le aziende potranno caricare sui vagoni le loro merci e indirizzarle in tutta Europa. Passando da Chiasso e Lugano, però, perché per l'Italia quella linea può servire solo per il traffico passeggeri. Come dire che ciò che da questa parte della rete di confine è un'opportunità, fatti pochi metri diventa un intralcio.
In questa situazione succede che il municipio sta ricevendo una richiesta alla settimana da imprenditori che chiedono di trasferirsi a Stabio. Ma la vera febbre da lavoro la si misura negli uffici della Drima, agenzia di lavoro interinale che, fiutando le opportunità, ha aperto qui una sede da un anno: «In una mattina capita di esaminare anche 40 curricula - racconta Monica Giudici, impiegata della sede - e con la crisi che c'è in Italia arriva di tutto. Spesso anche chi non sa fare niente ma ormai vede nel Ticino l'unica speranza di lavoro».
Claudio Del Frate
Nessun commento:
Posta un commento