Tremila bimbi malati «fuggono» ogni anno dalla sanità di Puglia
Fuga dalle università pugliesi per andare a studiare al nord
Italia: Censimento, abitanti sono 59,5 milioni, più famiglie
Dalle famiglie italiane si pretende troppo
Crisi: in banche spagnole 60% di mutui in sofferenza per 184 mld
Tremila bimbi malati «fuggono» ogni anno dalla sanità di Puglia
di NICOLA PEPE
BARI - Sono poco più di 3mila i bambini pugliesi che ogni anno emigrano in altre regioni per farsi curare. Una buona metà di questi, però, ricorre ad altri presidi ospedalieri (in primis, il «Bambin Gesù» di Roma e il «Gaslini» di Genova) per patologie definite di «bassa complessità». Ne citiamo alcuni: tanto per cominciare, poco meno di 200 bambini figli di residenti in Puglia nascono in altre regioni. Altri 160 si rivolgono fuori regione per «disturbi della nutrizione» e altro. Poi ci sono i casi complessi come le chemioterapie che registrano solo 55 esodi (51 in Lombardia) confermando in tal senso la scelta delle strutture pugliesi. Ma al tempo stesso ci sono molti bambini che si rivolgono alle cure dei centri pugliesi per la cura della malattie ematologiche: sono 127 i piccoli pazienti che bussano alle porte dei reparti specialistici pugliesi e solo 6 vanno fuori. In totale, i bimbi che «entrano» in Puglia sono poco più di 2mila (per effetto della cosiddetta mobilità di confine) registrando così un saldo negativo di poco più di 700 pazienti.
Ai fini del calcolo del costo della mobilità passiva (che per la Puglia vale complessivamente circa 170 milioni di euro, dato aggiornato al 2010), va fatta la differenza tra i pazienti di altre regioni ricoverati in strutture pugliesi (cosiddetta mobilità attiva) e il flusso inverso (mobilità passiva) che rappresenta i cosiddetti viaggi della speranza. La Puglia, nell’ambito del patto con il governo sul «Piano di rientro» del deficit sanitario, ha stimato una riduzione della mobilità passiva di poco più di 7,5 milioni di euro tra il 2011 (3 milioni) e il 2012 (4,5 milioni).
Alla pari dei dati dei bimbi, anche negli adulti la Regione paga il prezzo di viaggi inutili, ovvero di gente che si sottopone a cure che potrebbero essere benissimo erogate in Puglia. Un numero su tutti: il 55% di questi ricoveri è considerata di «bassa specialità», mentre solo un 10% degli esodi è legato a patologie complesse che assorbono il 40% del totale della spesa (oltre 80 milioni di euro). Con il suo 3,7% di mobilità attiva (il doppio è quella apssiva) la Puglia è comunque una delle migliori regioni del Sud. Torniamo alla mobilità pediatrica. Il dato più evidente è quello dei viaggi per interventi cardiochirurgici: i dati evidenziano 316 pazienti che migrano verso due strutture, il «Bambin Gesù» (179 casi) e «Gaslini» (102) che sono poi le struture di riferimento per le patologie pediatriche in generali. Solo la Cardiochirurgia consta di una spesa pari a circa 2,4 milioni di euro. Nella nostra regione non decollano ancora i dati dell’unica cardiochirurgia pediatrica, all’ospedale Giovanni XXIII di Bari, dove si registrano poco meno di 43 ricoveri l’anno scorso.
Il reparto, inaugurato nel 2008 dopo una «pausa» di tre anni, è affidato al dott. Paolo Annecchino (proviene da Bergamo) che dispone di soli due posti letto e «convive» con la Cardiologia con cui non sembra correre buon sangue. Lo stesso Annecchino, si dice «rammaricato e deluso» in quanto non gli sarebbero state garantite quelle opportunità di rilancio del reparto che nonostante «le buone performances » non riesce a decollare. Annecchino, tra poco più di un anno e mezzo dovrebbe andar via e non esclude di prendere decisioni estreme. Ad oggi, non si sa chi potrebbe prendere il suo posto.
Restando in tema di cuore, l’ospedale Giovanni XXIII vede da un anno e mezzo attivo il nuovo angiogrado digitale biplanare (unico in Puglia) per l’esecuzione di interventi di emodinamica che consentono la «correzione» di difetti cardiaci attraverso l’introduzione di un sondino e non ricorrendo al bisturi. Grazie a tale attività (unica nel Sud tra Napoli e la Sicilia) all’ospedaletto di Bari c’è addirittura una lista di attesa. Tuttavia, le patologie del cuore - non direttamente collegate ai quei cosiddetti «drg» (i gruppi di diagnosi a remunerazione tariffaria) di cardiochirurgia pediatrica - registrano una ulteriore migrazione di 291 pazienti verso altre regioni (24 quelli in entrata). Dati che si scontrano con problemi «culturali» ma soprattutto con la non perfetta conoscenza dei pugliesi di talune eccellenze.
Fuga dalle università pugliesi per andare a studiare al nord
di Tonio Tondo
Le università pugliesi sono in serie difficoltà nelle immatricolazioni. Se a livello nazionale, nell’Anno accademico 2011-2012, c’ è stato un calo del 4 per cento, per gli atenei della regione il calo è più del doppio: l’8,3 per cento. Dei quattro poli, a subire la perdita più vistosa sono l’università del Salento (3.006 immatricolati con un meno 12,6 per cento) e il Politecnico di Bari con 1.393 immatricolati, il 20 per cento in meno.
Il calo diventa un crollo se il confronto è con il 2009-2010: due anni fa a Lecce gli immatricolati furono 3.671, al Politecnico 2.051. Le cifre, aggiornate dal ministero dell’Università e della ricerca al cinque aprile 2012, si riferiscono alle immatricolazioni perfezionate entro il 31 dicembre 2011. Ma dove vanno i giovani pugliesi? Abbandonano il sogno di una laurea per andare a lavorare?
Niente di tutto questo. I diplomati delle scuole superiori, nella grave crisi economica, sono ancor più convinti della necessità di continuare gli studi, soprattutto in una facoltà che apra ragionevoli prospettive di lavoro. Il calo delle immatricolazioni in modo così vistoso, infatti, si è registrato solo negli atenei pugliesi, mentre è cresciuto in modo consistente il numero dei ragazzi che hanno deciso di iscriversi in un’università fuori della regione, soprattutto al Nord. È un flusso a senso unico. Dalla Puglia al Nord, e non viceversa. Anzi, anche i giovani delle regioni contermini, escluso il Materano, preferiscono andare oltre la Puglia. Un fiume che s’ingrossa anno per anno.
È il Salento la terra più generosa con le università del Nord. Qualche cifra. Sono 130.804 i giovani pugliesi iscritti a una facoltà: 86.504 in Puglia, 44.300 al Centro-Nord. Un numero quest’ultimo che cresce in continuazione. Nel 2011-2012 sono stati oltre 21mila gli immatricolati pugliesi. Più della metà dei 6.356 salentini hanno scelto le università dell’Emilia, Roma, Lombardia, Piemonte, Toscana e Veneto. Anche l’Abruzzo è tra le mete preferite.
Dice Paolo Cavaliere, fisico laureato alla «Normale», professore di Fisica generale e delegato del rettore dell’università del Salento, Domenico Laforgia: «È una fuga drammatica perché impoverisce il tessuto culturale dei nostri atenei e anticipa l’esodo al Nord per motivi di lavoro».
In otto anni le immatricolazioni a Lecce sono calate di 2.300 unità. Gli iscritti, da 28mila sono crollati a 21mila. Se il trend continuerà diventerà inevitabile la revisione degli assetti organici dei docenti e del personale tecnico-amministrativo.
Anche l’università di Foggia perde iscritti. Nel 2009-2010 gli immatricolati furono 1.864, in calo a 1.743 nel 2010-2011 e a 1.643 nell’anno accademico in corso.
L’università di Bari, invece, si mantiene più o meno stabile. Gli immatricolati sono stati 8.877, meno tre per cento rispetto all’anno scorso e sugli stessi valori di due anni fa. Le province di Bari e della Bat rimangono «fedeli» alla loro università, ricca di un’offerta formativa articolata, e solo in una piccola percentuale, dal 13 al 15 per cento, i diplomati scelgono un ateneo del Nord.
Nel Salento crollano Beni culturali e in netto calo sono le megafacoltà: Economia che passa dalle 559 nuove iscrizioni di due anni fa alle 397 dell’attuale anno accademico; Giurisprudenza che rimane però la facoltà più affollata con 521 immatricolati che si aggiungono ai 4.500 iscritti e Ingegneria che scende a 384 immatricolazioni rispetto alle 505 dell’anno precedente. In controtendenza Scienza della formazione che cresce del 20 per cento, mentre a livello nazionale crolla, arrivando a circa tremila iscritti, un terzo del numero degli insegnanti di cui l’Italia ha bisogno ogni anno.
Il Politecnico di Bari, che è risultato primo in Italia nella ricerca scientifica, è l’unico dei tre in Italia a perdere iscritti (forse, anche, per la severità degli studi e per il marketing concorrenziale di Milano e Torino). A Torino gli immatricolati sono stati 5.449, in crescita di 800 unità; a Milano 7.073, duecento in più dell’anno scorso. La scelta di studiare fuori rappresenta un salasso per le famiglie: mantenere un figlio in una città del Nord costa tra i 25mila e i 30mila euro. Sono decine di milioni che ogni anno si spostano dalla Puglia, un pezzo di Pil spesso risparmiato in anni di sacrifici.
Italia: Censimento, abitanti sono 59,5 milioni, più famiglie
Stranieri triplicati in dieci anni
27 aprile, 15:32
(ANSAmed) - ROMA, 27 apr - I residenti in Italia sono 59.464.644. Lo afferma l'Istat che ha presentato i risultati provvisori del 15/o censimento che ha fissato la foto del paese al 9 ottobre 2011. Rispetto al 2001 un incremento di 2.468.900 residenti (+4,3%). Aumenta anche il numero delle famiglie, da 21.810.676 a 24.512.012; il numero medio di componenti passa da 2,6 a 2,4.
In Italia, in particolare, risiedono 28.750.942 maschi e 30.713.702 femmine. Con una differenza di 1.962.760 individui; ci sono in media 52 donne ogni 100 abitanti. Il 46% dei cittadini censiti vive al Nord, il 19% al centro e il 35% al sud e nelle isole. Il 70% degli 8.092 comuni ha una popolazione inferiore a 5 mila abitanti; in questi comuni dimora abitualmente il 17% della popolazione, mentre il 23% vive nei 45 comuni con più di 100 mila abitanti. Dal primo censimento del 1861 al più recente, la popolazione residente in Italia è quasi triplicata, passando da 22 milioni a circa 59,5 milioni. Negli ultimi 10 anni, la popolazione è cresciuta soprattutto al centro-nord dove oltre il 70% dei comuni ha registrato un incremento demografico; all'opposto il numero dei residenti è sceso in oltre il 60% dei comuni al sud e nelle isole. Il 44% dei questionari dell'Istat è stato consegnato agli uffici comunali, il 22,6% agli uffici postali e il 33,4% (8,2 milioni) via Internet. A compilare il questionario sul web sono state in misura relativamente maggiore le famiglie che vivono nei comuni fino a 5 mila abitanti (37%) e al sud (40%). L'Istat prevede che entro il 31 dicembre prossimo sarà pubblicata la popolazione legale di ciascun comune distinta per sesso, anno di nascita e cittadinanza italiana o straniera. Tutti gli altri dati tra marzo e maggio 2014.
STRANIERI TRIPLICATI IN DIECI ANNI - La popolazione straniera abitualmente dimorante in Italia è quasi triplicata in dieci anni, passando da 1.334.889 a 3.769.518. Gli stranieri registrano un'incidenza del 6,34% sulla popolazione contro il 2,34% del 2001. "Il forte aumento di cittadini stranieri - commenta l'Istat - contribuisce in maniera determinante all'incremento della popolazione totale confermando la tendenziale staticità demografica della popolazione di cittadinanza italiana".
+47.700 FAMIGLIE IN BARACCHE - Più che triplicate in dieci anni le famiglie residenti in Italia che dichiarano di abitare in baracche, roulotte, tende o abitazioni simili: 71.101 contro le 23.336 del 2001. Questo aumento è definito dallo stesso Istat "vertiginoso".
ROMA E' LA CITTA' PIU' POPOLOSA - Il comune più popoloso in Italia è Roma: 2.612.068 residenti. Quello meno popoloso è Pedesina (Sondrio) con soli 30 residenti. Il comune più densamente popolato è Portici (Napoli) che ha 12.311 abitanti per km/q. Il comune che dal 2001 ha aumentato di più gli abitanti, +220,1%, è Rognano (Pavia); Paludi (Cosenza) detiene invece il primato del più forte calo (-41,2%). Roma, con 1.307,7 km/q di superficie,é il comune più esteso; quello più piccolo è Fiera di Primiero (Trento) con appena 0,2 km/q.
IN AUMENTO LE ABITAZIONI, +5,8% - In Italia si contano 14.176.371 edifici, l'11% in più rispetto al 2001, e 28.863.604 abitazioni, di cui 23.998.381 occupate da residenti (83%). Sono 1.571.611 le abitazioni in più rispetto al precedente censimento, con un aumento del 5,8%. La rilevazione dell'Istat ha poi censito 9.607.577 numeri civici. Di questi, il 53,4% è di tipo 'abitativo' mentre il 45,9% 'non abitativo' (ad esempio, esercizi commerciali a piano terra, garage, unità produttive); lo 0,6% è associato a 'complessi di edifici non abitativi' (come ospedali, università, caserme). Il confronto tra il numero di interni ad uso abitativo di ciascun indirizzo e il numero di famiglie registrate in anagrafe allo stesso indirizzo ha generato, segnala l'Istat, 2.708.087 potenziali abitazioni non occupate o di famiglie dimoranti non iscritte in anagrafe.
(ANSAmed).
Dalle famiglie italiane si pretende troppo
di Nikos Tzermias – 27 aprile 2012
Pubblicato in: Svizzera
Traduzione di ItaliaDallEstero.info
Ridotta fertilità e situazione occupazionale sono motivo di preoccupazione
In Italia, il tasso di fertilità femminile è sceso in maniera preoccupante. Le italiane, penalizzate dalla politica e dai mariti, riescono con difficoltà a conciliare lavoro e figli
Mamma mia! In quasi nessun altro paese come in Italia gli uomini chiamano tutti i giorni la mamma per raccontarle quello che capita loro di bello o di brutto. La mamma, i figli e la famiglia, per secoli sono stati il fondamento della società italiana, in passato dominata continuamente da potenze straniere. La famiglia è stata “una fortezza in un paese ostile”, ha scritto lo scrittore Luigi Barzini nel suo bestseller “The Italians”, riferendosi al fatto che le donne sono la spina dorsale della famiglia e senza di loro l’Italia crollerebbe come un castello di carte. Tuttavia nel corso dei secoli le donne italiane avrebbero dovuto anche imparare a trascurare i mariti, che senza le loro mogli non avrebbero concluso nulla.
Cambiamento molto difficile
Il libro di Barzini è stato pubblicato all’inizi degli anni ‘60, quando la famiglia italiana, di stampo cattolico, sembrava funzionare ancora bene e la Repubblica italiana viveva il miracolo economico. C’era un ottimismo generale diffuso. La gran parte delle casalinghe italiane ha avuto in media due o tre bambini. Il paese all’estero era per lo più noto per “La Dolce Vita”, anche se l’omonimo famoso film di Federico Fellini si poneva già in maniera critica nei confronti della società. L’Italia quindi ha subito un decisivo cambiamento sociale con un certo ritardo. Divorzio e aborto furono legalizzati, nonostante l’opposizione del Vaticano, nel 1974 e nel 1978. Il numero dei matrimoni è diminuito e quello delle separazioni aumentato, anche se non in modo evidente come negli altri paesi industrializzati. Il tasso di natalità è iniziato a calare negli anni settanta, e in Italia, anche in Italia i nuclei familiari sono andati via via diminuendo.
L’Italia quindi segue la tendenza generale? Niente affatto. Il tasso di fertilità in questo paese, anche se il più alto della maggior parte degli altri paesi industrializzati, è diminuito. Dal 1970 al 1995 è sceso da 2,43 figli per donna a 1,19. Da allora, il numero è lievemente salito stabilizzandosi a circa 1,4. Questo però principalmente grazie al tasso di natalità molto più alto tra gli immigrati. Ma anche così la percentuale di fertilità in Italia rimane una delle più basse nei paesi industrializzati ed è ancora nettamente inferiore rispetto al cosiddetto livello di ricambio di 2,1 figli per donna
Merita attenzione il forte crollo delle nascite, ma soprattutto perché solo il 48 per cento delle donne italiane ha un lavoro rispetto ad un tasso medio del 59 per cento in tutta l’area OCSE. La docente di economia Daniela Del Boca, di Torino, ricorda inoltre che negli ultimi 15 anni il tasso di occupazione per le donne nei paesi dell’OCSE è aumentato mentre in Italia è rimasto per lo più invariato.
Partorire solo dopo i trent’anni
Così, nel caso dell’Italia, la percentuale di occupazione femminile, di gran lunga molto più bassa che in altri paesi è alla base della diminuzione del tasso dei fertilità. Ancor più che in alcuni paesi sviluppati come USA, Gran Bretagna, Francia, Svezia e altri paesi nordici, dove un tasso di fertilità in media molto più elevato, che raggiunge il livello di ricambio, è accompagnato da un tasso di occupazione femminile insolitamente elevato. Questi confronti dimostrano che le donne italiane sono soprattutto in difficoltà nel conciliare figli e carriera.
Certo alle giovani donne italiane piacerebbe avere almeno due bambini. Ma da giovani sono occupate nell’assicurarsi la migliore formazione possibile e subito dopo impegnate nel tentativo di affermarsi sul mercato del lavoro. Sorprendente oggi è la percentuale di donne giovani (25 – 34 anni) in possesso di un diploma di laurea (24 per cento) decisamente superiore a quella dei coetanei maschi (15 per cento). In questo contesto le italiane in genere pensano seriamente ai figli solo dopo i 30 anni, cosa che però ha ridotto considerevolmente la possibiità di prole. La Del Boca, che dirige anche il centro di studi per l’infanzia di Torino, ricorda che un quarto delle donne che lavora, rinuncia alla nascita del primo figlio per il lavoro ed è costretto molte volte dai datori di lavoro che al momento dell’assunzione si fanno firmare illegalmente una lettera di dimissioni in bianco. Tra le donne che perdono il lavoro a causa di una maternità solo i due quinti riescono ad essere nuovamente riassunte.
Come la carriera e la maternità siano in Italia difficilmente compatibili, lo dimostra anche una delle statistiche OCSE pubblicate lo scorso anno, secondo le quali un quarto delle italiane nate dopo il 1965 non ha figli, rispetto al 10 per cento in Francia, 12 per cento in Spagna, 15 per cento in Svezia, il 16 per cento negli Stati Uniti e il 20 per cento in Germania.
Politica familiare arretrata
La docente di sociologia presso l’università di Torino, Chiara Saraceno, attribuisce anche la bassa fecondità e la mancanza di lavoro delle donne italiane ad un livello base di politica familiare che è ancora fermo agli anni Cinquanta e che ha portato ad un sovraccarico enorme che grava sulle famiglie di oggi. Sulla famiglia verrebbero scaricati tutti quei problemi che in molti altri paesi sono a carico dei servizi sociali pubblici.
La Saraceno e la Del Boca citano anche le ultime statistiche OCSE, stando alle quali il settore pubblico in Italia spende per famiglie con bambini solo l’1,4 per cento del prodotto interno lordo, contro una media OCSE del 2,2 per cento. Alle famiglie manca un sostanziale alleggerimento fiscale, anche se la bassa fertilità accelera l’invecchiamento della società e mette in pericolo le future pensioni. Entrambe contestano soprattutto la grande carenza di asili nido pubblici. C’è posto solo per il 12 per cento dei bambini sotto i tre anni, mentre il tasso in Francia e nei paesi nordici ha raggiunto il 30 – 40 per cento. Allo stesso tempo nel paragone le aziende italiane raramente sono disponibili ad andare incontro alle esigenze delle madri lavoratrici. Circa la metà dei neonati di madri che lavorano sono affidati in Italia, secondo le statistiche Istat, ai nonni. Ma questo ha lo svantaggio di una limitata mobilità economica.
Gli economisti Alberto Alesina (Harvard University) e Andrea Ichino (Università Commerciale Luigi Bocconi) criticano la Saraceno e la Del Boca che fanno troppo affidamento sullo stato e citano alcuni degli Stati Uniti dove la fertilità e l’occupazione femminile, nonostante gli scarsi servizi pubblici, siano elevate e, grazie ad un più alto reddito, le famiglie ricorrono in primo luogo all’assistenza privata. A prescindere completamente da ciò, i due professori dubitano che ulteriori servizi pubblici possano risolvere il problema di base delle lavoratrici madri e che anche per i bambini possa essere la cosa migliore.
Alesina e Ichino individuano come ostacolo principale la separazione del lavoro tra i coniugi, assolutamente squilibrata in Italia, che, secondo numerosi studi, è l’unico paese occidentale industrializzato, dove le donne lavorano complessivamente, vale a dire in casa e fuori, molto più degli uomini, cioè in media 80 minuti in più al giorno. Le donne sono occupate nel lavoro domestico per 5 ore al giorno e quindi 3 ore in più rispetto ai loro mariti, dato che nella zona OCSE l’Italia è superata solo da Messico, Turchia e Portogallo.
Alesina e Ichino ritengono inoltre che dietro la richiesta di maggiori aiuti pubblici continui a nascondersi in fondo l’abitudine a pensare che siano innanzitutto le donne (in primo luogo) ad occuparsi dei bambini, degli anziani e della casa. Inoltre, in un paese economicamente sviluppato ci sono sempre meno lavori fuori casa, in cui gli uomini dal punto di vista tecnico o biologico avrebbero ancora un vantaggio rispetto alle donne. Al contrario gli uomini non potrebbero sostituire le donne nella gravidanza e nell’allattamento. Ciononostante le donne non potrebbero dedicare la stessa energia degli uomini per continuare la propria carriera professionale, perché sarebbero già gravate dalla maggior parte dei lavori di casa.
E’ indubbio che sul tasso di natalità hanno inciso negativamente nel corso degli ultimi decenni i problemi economici generali d’Italia. Queste difficoltà hanno anzitutto colpito la giovane generazione, svantaggiata nel rigido mercato del lavoro, in cui sono tutelati i lavoratori già in attività. Questo limita le possibilità di crearsi una propria famiglia in una Italia che, già da molti anni, ha uno dei più bassi tassi di occupazione nell’UE tra le giovani forze lavoro..
Solo il 35 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni hanno un impiego, rispetto ad un tasso del 50 per cento nell’UE dei 15. Di particolare interesse è che 2,1 milioni di giovani italiani e italiane ossia oltre il 20% non studia, ne’ lavora. La creazione di famiglie numerose è penalizzata poi anche certamente dal fatto che due terzi dei giovani tra 18 e 34 anni vivono ancora con i genitori, mentre la percentuale in Francia é del 30 per cento o nel Nord Europa addirittura il 20 per cento.
Introduzione dello “jus soli”?
Il basso tasso di natalità rischia di avere gravi conseguenze demografiche. Già dall’inizio dei primi anni Novanta, l’Italia, che fino agli anni Ottanta era stato un paese di emigrazione, presenta un deficit di nascite. L’Istat ha recentemente previsto che la popolazione rischia di ridursi nei prossimi cinquanta anni di 11.5 milioni di abitanti scendendo a 49 milioni se la diminuzione non sarà compensata dalla maggiore immigrazione. Con una tale stabilizzazione della popolazione, la percentuale di stranieri senza naturalizzazione aumenterebbe del 7,5 al 23 per cento.
Questa prospettiva ha di recente suscitato continue discussioni circa la possibilità di facilitare la naturalizzazione e l’applicazione anche del concetto di “jus soli”, già introdotto anche negli Stati Uniti, secondo il quale tutti i bambini nati in Italia da figli di immigrati acquistano la cittadinanza. Su questo si è pronunciato nel mese di novembre nientemeno che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Anche la coalizione di centrosinistra ha accolto subito la proposta, mentre i rappresentanti della coalizione dell’ex primo ministro Berlusconi, dimissionario a novembre, hanno risposto negativamente.
[Articolo originale "Italiens überforderte Familien" di Nikos Tzermias]
Crisi: in banche spagnole 60% di mutui in sofferenza per 184 mld
27 Aprile 2012 - 15:42
(ASCA-AFP) - Madrid, 27 apr - Le banche spagnole hanno accumulato nei loro bilanci 184 miliardi di euro di mutui in sofferenza, pari a ben il 60% del loro portafoglio, rispetto ai 176 miliardi dell'ultima rilevazione di giugno 2011.
E' quanto ha indicato la Banca di Spagna rivelando l'estrema fragilita' del settore dopo lo scoppio della bolla immobiliare nel 2008.
fgl/
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