Gli eurobond che fecero l'unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania
Programmazione tra le più basse del continente, male il Mezzogiorno.
Crisi: per salva-euro arriva verifica
Boom del baratto in Italia, più di 1 milione di scambi l'anno
Bosnia: fine mandato missione polizia Ue
Gli eurobond che fecero l'unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania
di Giuseppe Chiellino
Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia.
Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa.
Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873.
Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio.
La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%).
Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali.
Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla.
Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
30 giugno 2012
Programmazione tra le più basse del continente, male il Mezzogiorno.
Caldoro: «Ma la Campania migliora»
L’Italia è il paese europeo che ha la programmazione dei fondi strutturali più bassa, fanalino di coda anche dietro le piccole nazioni dell’Est. Un dato sconcertante, che ha costretto il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca a fare “i compiti a casa” per accelerare la spesa dei fondi europei e tacitare così i mugugni di Bruxelles. Una lenta inversione di tendenza pare che si sia avvertita nel primo trimestre del 2012, ma il problema è che il nostro paese sconta ritardi annosi.
Secondo un recente monitoraggio della Uil, al 31 dicembre 2011 lo stato di avanzamento del Quadro strategico nazionale 2007-2013, presenta, su un totale di 59,4 miliardi di euro (tra Fondi comunitari e cofinanziamento nazionale), un livello di spesa certificato al 23,2% (13,8 miliardi di euro), mentre gli impegni giuridicamente vincolanti sono al 48,9% (29 miliardi di euro).
Nel Mezzogiorno, tra Programmi regionali, interregionali e nazionali (Por, Poin e Pon), su un totale di 47 miliardi di euro, la spesa effettiva è al 20,7% (9,7 miliardi di euro), mentre gli impegni sono al 46,6% (21,9 miliardi di euro). In particolare, per quanto riguarda la programmazione delle otto regioni del Sud, la spesa relativa ai 31,4 miliardi di euro è al 18,3% e gli impegni sono al 43,6%; va solo un po’ meglio la spesa affidata alle amministrazioni centrali dello Stato dove gli impegni ammontano al 52,8% del totale del periodo e la spesa certificata è al 25,5%. Tornando ai dati del monitoraggio, spicca in negativo nel Sud, la “performance” della Campania dove la spesa al 2011 è ferma al 12,7% (1 miliardo di euro su un totale di 7,9 miliardi di euro tra Fse e Fers per il periodo 2007-2013).
Tuttavia, come detto, la Campania sembra aver finalmente sembra aver impresso un’inversione di tendenza nel primo scorcio dell’anno. “L’ Unione europea - osserva il presidente della Giunta regionale, Stefano Caldoro - riconosce gli sforzi della nostra amministrazione. E’ motivo di soddisfazione perché vuol dire che la strada intrapresa è quella giusta. In questi due anni – continua Caldoro - ci siamo impegnati per superare la parcellizzazione, lavorando sui progetti di ampio respiro per la regione, ci siamo concentrati su opere strutturali che daranno slancio a tutta la Campania. La Regione Campania, prima in Italia, ha scelto di agire in partenariato con la Commissione europea e il Governo, chiedendo la costituzione di una task force interistituzionale. E’ stata una scelta giusta. Dobbiamo proseguire in questo percorso - conclude il presidente della Giunta regionale - continuando a lavorare d’intesa con le forze sociali ed imprenditoriali, consapevoli che si può fare sempre meglio”.
Obiettivo doveroso quello del miglioramento delle performance di spesa perché i dati attuali non sono incoraggianti. I dati per macroarea vedono il Mezzogiorno fermo a una spesa certificata al 19,5% (7,4 miliardi di euro su un totale di 38,1 miliardi di euro per l’intero periodo), con impegni al 46,4% (17,7 miliardi di euro). Il Fse, che finanzia la formazione e le politiche attive del lavoro, compresa l’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati e non solo, poiché, è sempre bene ricordare che una parte consistente del Fse (2,2 miliardi di euro dal 2009 al 2012) è stata impegnata per finanziare gli ammortizzatori sociali in deroga, presenta una spesa certificata al 30,4% (4,6 miliardi di euro su un totale di 15,3 miliardi di euro), mentre gli impegni sono al 52,6% (8,1 miliardi di euro).
“I dati – osservano i vertici della Uil Campania – parlano da soli: il livello di rendiconto della commissione europea è al 23%, percentuale che scende al 20,7% nel Mezzogiorno. Basterebbe spendere, per i prossimi anni 12 miliardi ancora disponibili dei fondi comunitari, dato che ne restano ancora 30 miliardi da programmare, per incentivare ogni anno ulteriori 210 mila contratti di apprendistato, 50 mila tra stage e tirocini, ed estendere tutele ai lavoratori over 55 anni”.
Le cause di questo cattivo funzionamento sono molteplici: mancanza di quadri strategici di azione e del ruolo di pilotaggio da parte dello Stato, un indebolimento generale nella pianificazione strategica del territorio e dei loro progetti.
Crisi: per salva-euro arriva verifica
Tanti nodi da sciogliere, riflettori puntati su Eurogruppo 9/7
30 giugno, 20:06
(ANSA) - BRUXELLES, 30 GIU - Passata l'euforia per il successo della nuova alleanza Roma-Parigi-Madrid, smaltita l'ebbrezza con cui i mercati lo hanno accolto, per il pacchetto di misure salva-euro del vertice Ue arriva il momento di superare l'esame del giorno dopo. I riflettori sono puntati sul 9 luglio, quando i ministri delle Finanze dovranno dare attuazione alle decisioni. 'Il diavolo si nasconde nei dettagli'', sottolineano esperti riferendosi ai problemi che potrebbero emergere in questa fase negoziale.
Boom del baratto in Italia, più di 1 milione di scambi l'anno
ultimo aggiornamento: 30 giugno, ore 17:35
Milano, 30 giu. - (Adnkronos) - E' boom del baratto in Italia. La crisi attanaglia sempre di più le famiglie, costrette a scambiare merci e servizi per andare avanti. Si tratta di oltre un milione di persone all'anno, dal nord al sud. A causa del crescente impoverimento si barattano ogni mese più di 100 mila prodotti. Ma non solo. Per poter continuare ad esistere, oltre 2000 imprese di 160 settori diversi, offrono macchinari in cambio di manodopera. Un trend in forte crescita, trainato dalla rete e registrato dai maggiori siti di baratto online. Secondo gli esperti si va verso un'economia di autoconsumo e di selezione delle priorità che non risparmia neanche il mondo del lusso.
"Negli ultimi mesi -dice all'Adnkronos Paolo Severi, responsabile del sito 'zero relativo'- c'è stato un forte incremento negli scambi, soprattutto per i prodotti di prima necessità. Le persone offrono generi alimentari e vestiti per ricevere altri oggetti di uso quotidiano. Si scambiano di tutto, dalle susine del proprio albero ai porta cd". Gli iscritti alla piattaforma sono 30mila, gli accessi al mese 200mila. "La fascia d'età - spiega Severi - va dai 30 ai 50 anni e si estende a tutte le zone d'Italia, con una concentrazione maggiore nelle grandi città".
La gamma dei prodotti in 'vetrina' varia a 360 gradi. Dal fucile della seconda guerra mondiale del nonno alle mele del proprio orto, dall'auto alla fede nuziale. Se non si riesce a pagare le due ore della babysitter si offrono in cambio due ore gratuite di lezioni di piano; se regalare alla fidanzata una bella borsa è diventato un lusso che non ci si può permettere, si scambiano gli occhiali da sole.
Negli ultimi sei mesi si è registrato un record di scambi sui nuovi 'mercati'. "Stiamo andando verso un'economia di autoconsumo - dice all'Adnkronos l'economista Mario Seminerio - le aziende sono nei guai e i consumi privati crollano". Si riducono i pezzi venduti "e le aziende sono costrette a licenziare". Una crisi di vendite certificata dallo stesso Istat: il crollo della fiducia dei consumatori italiani è al livello più basso dal 1996. E le vendite al dettaglio segnalano un calo senza precedenti: -6,8%. "L'unico risparmio possibile oggi - conclude Seminerio - è quello precauzionale. L'alternativa è lo scambio".
Le persone che barattano in rete sono per l'80% donne e per la maggioranza giovani. "Oggi - spiega all'Adnkronos Luisa Leonini, docente di sociologia dei consumi dell'Università degli studi di Milano - le famiglie devono selezionare delle priorità che non riguardano solo gli oggetti. Esiste inoltre la cosiddetta 'banca del tempo' dove si scambiano, al posto degli oggetti, le proprie competenze".
Da inizio anno sono state quasi 600mila le merci offerte. Il ''barter'', chi baratta sul web, ha a disposizione una molteplicità di siti dedicati allo 'swapping', cioè allo scambio. Oltre quelli dedicati alle famiglie crescono sempre più portali specifici per le imprese, in particolare quelle medio-piccole. Ricorrere al baratto sembra diventare sempre più una necessità: si offrono merci in cambio di servizi e manodopera.
Il primo network italiano che mette in contatto le aziende è la BexB, società bresciana che ha all'attivo decine di migliaia di operazioni, circa 25 al giorno. Il circuito si compone di oltre 2.500 piccole imprese che copre circa 160 settori merceologici. BexB ha una quota associativa che varia in base alla classe di fatturato dell'azienda, da 500 a 4mila euro; le provvigioni trattenute vanno dal 2% al 50%.
C'è anche chi si è inventato una nuova moneta. Nel sito Weexchange si baratta con gli Weuro, cioè dei crediti. Se si vendono sedie che sul mercato costano 20 euro, nel network saranno a disposizione per un controvalore di 20 Weuro. Se si hanno debiti di 40 Weuro ad esempio, si dovranno mettere a disposizione oggetti per lo stesso controvalore in moneta. Per entrare in questo circuito è necessario avere una partita iva e pagare una quota associativa annuale e una commissione per ogni transazione.
"I consumi stanno cambiando - dice all'Adnkronos Vincenzo Russo, docente di psicologia dei consumi dello Iulm di Milano - più di quanto il marketing se ne renda conto". I concetti che secondo il professore stanno dietro al ritorno del baratto sono due: un'edonismo maturo della persona e la garanzia di un contatto diretto tra chi scambia. "La crisi - spiega Russo - ha portato la gente a fare scelte attente all'interno di una comunità virtuale rassicurante, bypassando la filiera delle imprese verso cui è calata la fiducia".
Le transazioni fatte in rete non riguardano soltanto lo scambio di merci ma anche il tempo che si può dedicare in forma di controvalore, in base alle proprie competenze. Si pagano ad esempio le lezioni di latino offrendo in cambio collaborazione domestica. Ma il web non è l'unico mezzo a trascinare il fenomeno del baratto. Nel novembre dell'anno scorso è stata istituzionalizzata in Italia la ''prima settimana del baratto'' dei bed&breakfast. Hanno aderito 300 strutture che hanno scambiato pernottamenti con la tinteggiatura di una stanza, di un servizio fotografico o di una cena preparata dai clienti stessi.
L'onda degli scambi potrebbe continuare a salire anche nel prossimo periodo, in base a quanto emerge da una recente ricerca elaborata da Intesa San Paolo e dal Centro Luigi Einaudi. Soltanto il 15,2% dei 1.053 capifamiglia intervistati afferma di non avere alcun impatto dalla crisi. Il 12,5%, ovvero un intervistato su otto, dichiara invece che il proprio reddito è "del tutto insufficiente al mantenimento del tenore di vita".
Un trend, quello degli scambi, che non risparmia nemmeno il settore della moda e le 'fashion victims'. A sostituire lo shopping ci sono oggi gli 'Swap parties', eventi dove si scambiano vestiti, scarpe e borse griffate. L'associazione 'Barattami' di Milano ne ha organizzati due, uno ad ottobre e uno a febbraio. "Sono venute più di cento persone - dice Francesca Morace, responsabile dell'associazione - dalla ragazza di vent'anni, alla signora di cinquanta. Ognuna ha portato con sé dai tre ai cinque accessori, tutti di alto livello. Barattare è un termine ormai di moda anche nel mondo più fashion".
Bosnia: fine mandato missione polizia Ue
Dopo quasi 10 anni, ridotta da 900 addestratori a circa 100
30 giugno, 21:08
(ANSA) - SARAJEVO, 30 GIU - La missione di polizia dell'Ue (Eupm) in Bosnia-Erzegovina ha cessato oggi la sua attività e lascerà il paese balcanico dopo quasi 10 anni di presenza. La missione europea - che dai quasi 900 uomini alla fine del 2004 si era ridotta ai quasi 100 di oggi - ha contribuito alla nascita di una forza di polizia bosniaca e alla formazione del personale locale. "Siamo stati fattore importante nel miglioramento della stabilità e della sicurezza in Bosnia", ha detto il capo, Stefan Feller.
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