Politica ed economia:
1. Un busto tedesco in nome dell'euro.
2. Benvenuti nell'era incerta del G-Zero.
3. Spagna in crisi ma coesa.
Finanza e debiti sovrani:
4. Trichet: no a ristrutturazioni del debito.
1. Un busto tedesco in nome dell'euro. Enrico Brivio – il Sole24Ore. Ha generato non pochi sussulti di insofferenza il corsetto tedesco che Angela Merkel, con qualche fiocco francese aggiunto da Nicolas Sarkozy, vuole far indossare ai paesi dell'euro. Chiare le motivazioni alla radice del Patto per la competitività, presentato dalla cancelliera al fianco del presidente francese durante il vertice europeo di venerdì scorso. La Merkel ha voluto evidenziare che solo se vi sarà l'assunzione di vincoli precisi da parte dei paesi periferici - su taglio del debito, tassazione, investimenti produttivi, salari e pensioni - Berlino potrà impegnarsi a fondo nel potenziamento del fondo salvastati (Efsf) da 440 miliardi. E Sarkozy si è accodato, trovando materia per dare sostanza al tradizionale e un po' fumoso impegno francese per un un governo dell'economia di Eurolandia, un appoggio alla rivendicazione di una tassazione minima per le imprese e un insperato contributo all'immagine di co-protagonista della stabilità dell'euro.
Gli obiettivi prefissati devono però essere giudicati per quello che sono. E appaiono in gran parte gli ingredienti di una ricetta auspicata da vari economisti per rafforzare l'euro, colpito dalla peggiore crisi dei suoi 12 anni di vita: impegno stringente fissato dalla legislazione dei governi dell'eurozona per contenere l'indebitamento, indicatori che misurino gli investimenti in ricerca, sviluppo, istruzione e infrastrutture, tassazione delle imprese che non crei distorsioni della concorrenza nel mercato unico, freno alle indicizzazione dei salari ed età pensionabile vincolata alla demografia. Ben venga perciò la disciplina prospettata, se servirà ad avvicinare tutti i paesi dell'eurozona al Wirtschaftswunder tedesco, al miracolo competitivo di una Germania che nel 2010, mentre altri si leccavano le ferite della crisi, ha visto l'economia viaggiare sulle ali dell'export al 3,6%, il tasso più alto dalla riunificazione.
Certo alla Merkel è mancato un po' di tatto diplomatico. Far circolare la proposta in tre paginette solo in tedesco la sera prima di un vertice europeo per poi presentarla in una irrituale conferenza congiunta con Sarkozy a metà vertice ha irritato più di qualche leader. Anche perché, sebbene "informale", la proposta andava a toccare prerogative in gran parte nazionali. E così Belgio, Portogallo, Lussemburgo e Spagna sono scese in campo per difendere l'indicizzazione salariale, l'Austria si è detta contraria ad adeguare automaticamente il sistema pensionistico e l'Irlanda ha ribadito di non voler abbandonare il baluardo della tassazione delle imprese al 12,5%. Tra i critici anche Vienna e Lussemburgo, a dimostrazione che si sono aperte crepe anche nel club dei paesi che godono della tripla A nel rating del debito.
Toccherà ora al presidente del Consiglio Ue, Herman van Rompuy, e della Commissione europea José Barroso - un duo ancora una volta traino e non motore del cambiamento - cercare un compromesso su quello che da Patto di competitività è già stato trasformato, con tipico intervento di convoluta semantica comunitaria, in Patto di convergenza economica rafforzata. Un compromesso si cercherà al vertice del'Eurozona di marzo. C'è chi teme di vedere in controluce l'ombra di un'Europa tedesca e non di quella Germania europea che tutti vorremmo. Ma il bustino confezionato a Berlino non può che aiutare a raddrizzare le finanze di chi rischia di far deragliare tutti.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-02-08/busto-tedesco-nome-euro-063758.shtml?uuid=AaDIXX6C
2. Benvenuti nell'era incerta del G-Zero. di Christian Rocca. Il G-7 non c'è più da tempo. La caduta del Muro di Berlino lo ha reso obsoleto. Il G-8 allargato alla nuova Russia non è più rappresentativo del mondo che cambia. Al suo posto è stato ideato il G-20, il club che avrebbe dovuto coinvolgere le economie emergenti, dal Brasile all'India. Ma l'allargamento alle nuove economie non è mai veramente partito, complice la crisi finanziaria internazionale e l'impossibilità di trovare una soluzione condivisa della governance mondiale.
Stessa sorte per il G-2 tra America e Cina: dal vertice sulla Terra di Copenhagen in poi, i due paesi non sono stati capaci di guidare di comune accordo l'agenda politica, anche perché Pechino non ha mai mostrato interesse ad accettare le responsabilità che nascono dall'esercizio della leadership. Sul campo non c'è neanche l'alternativa del G-3 – America, Europa e Giappone – perché agli Stati Uniti mancano le risorse, l'Unione Europea è impegnata nel salvataggio della sua moneta e il Giappone ha numerosi problemi interni.
Viviamo, insomma, nel mondo del G-Zero, scrivono in un saggio pubblicato ieri da Foreign Affairs gli economisti Nouriel Roubini e Ian Bremmer. Roubini è il "dottor catastrofe" che ha previsto la crisi finanziaria del 2008. Bremmer è l'autore di La fine del libero mercato (edizioni Il Sole 24 Ore), un saggio che affronta il tema della guerra ideologica tra la libertà d'impresa e il controllo statale dell'economia.
Nel mondo del G-Zero, spiegano i due studiosi, nessuna nazione, nessun blocco di paesi, nessun leader internazionale ha la forza, la volontà e il peso specifico per guidare la comunità internazionale. Le grandi potenze mondiali, scrivono, hanno messo da parte ogni aspirazione globale. Sono troppo impegnate a risolvere le questioni interne. Il risultato è il ritorno di politiche economiche a tendenza protezionista e populista. Non che le leadership globali del passato siano state sempre efficaci, ma mai come in questa fase, scrivono Roubini e Bremmer, al volante non si vede nessuno.
Il mondo del G-Zero provocherà conflitti, non cooperazione. Secondo il rapporto Top Risk 2011 dell'Eurasia group, quest'anno il rischio di maggiore instabilità globale non è un paese, non è un fatto specifico, non è un evento. Non è nemmeno il caos politico che precede o segue una tornata elettorale in un paese-chiave per gli equilibri geopolitici internazionali. Non è un colpo di stato, non è un conflitto militare. Per la prima volta da quando il rapporto Top Risk viene compilato, il pericolo maggiore è l'assenza di leadership internazionale: il G-Zero, appunto. Un rischio che è addirittura maggiore rispetto al caos nell'Eurozona, alla cybersecurity, alla Cina, alla Corea del Nord, al controllo dei capitali, all'impasse politico-istituzionale negli Stati Uniti, alla situazione in Pakistan, in Messico e nei mercati emergenti.
L'era delle grandi potenze contrapposte è finito. Il mondo unipolare è stato archiviato con l'uscita di George W. Bush dalla Casa Bianca. L'impetuosa ascesa degli altri paesi, the rise of the rest, non c'è stata. Obama ha cominciato la sua presidenza da amministratore del declino americano, contribuendo alla creazione del mondo G-Zero. Ma la crisi in Egitto, la ripresa economica e la difesa della sicurezza internazionale costringono il presidente americano ad assumere il ruolo di leader riluttante del G-1.
3. Spagna in crisi ma coesa. di Miguel Gotor. È di questi giorni la notizia che, nel mese di dicembre, i consumi spagnoli sono crollati del 4,4% rispetto all'anno precedente. In effetti, chi avesse avuto la possibilità di recarsi a Madrid di recente sarebbe rimasto colpito dalla scarsa affluenza nei ristoranti, un tempo pieni di avventori mangerecci e ciarlieri, e dalla sequela di cantieri abbandonati lungo l'autostrada che porta all'aeroporto. Solo tre anni fa, ma sembra passato un secolo, il modello spagnolo pareva correre come una locomotiva e il governo italiano era incalzato dallo spettro del sorpasso.
In quei frangenti ci volle tutta la competenza di economista del presidente del Consiglio Romano Prodi per contenere il giubilo del suo pari grado José Luis Zapatero e per denunciare la fragilità di quel tipo di crescita fondato sull'attività edilizia e sull'indebitamento dei cittadini a forza di mutui e carte di credito revolving. I fatti gli hanno dato ragione.
Per capire il secondo tempo della "lezione spagnola", parafrasando il titolo in italiano di un fortunato libro del sociologo Victor Pérez Díaz del 1999, bisogna resistere alle sirene dell'ideologia e uscire dal respiro affannoso della polemica quotidiana tra destra e sinistra: la crisi ha colpito i socialisti in Spagna come i liberali in Irlanda; e ricette sulla carta diverse, che un tempo erano riuscite a garantire una fase di crescita economica in entrambi i paesi, si sono scontrate con il macigno della crisi che non conosce colore né bandiere.
Può aiutare a capire cosa sta accadendo ai cugini iberici la recente pubblicazione España en crisis. Sociedad, economía, instituciones, a cura di Álvaro Delgado-Gal, Victor Pérez Díaz, Luis M. Linde e Alfredo Pérez de Armiñán con un epilogo di José Angel Sánchez Asiaín (Colegio Libre de Eméritos, 2010). Questa raccolta di saggi ha il merito di riflettere sulla crisi spagnola, ponendo l'accento sulle carenze strutturali e le specificità nazionali da cui è scaturita rendendola più virulenta che altrove. Non solo dunque speculazione finanziaria, bolla edilizia e virus americano. Gli autori partono dalla consapevolezza che sia finito il ciclo virtuoso del vecchio modello di sviluppo iberico, il quale ha consentito per un ventennio alla Spagna di crescere più della media europea sul piano dell'occupazione, dell'aumento dei salari e del Pil. La rottura è avvenuta perché quell'espansione è stata finanziata, come avvenne negli anni Ottanta in Italia durante i governi guidati da Craxi, da un debito pubblico sempre più fuori controllo: ad esempio, il disavanzo con l'estero è passato dal 26% del 1997 al 167% del 2009.
Il primo problema, sul piano politico, è costituito dalla difficile presa d'atto della fine del periodo di transizione dal franchismo alla democrazia, una fase storica decisiva, caratterizzata dall'alternanza politica e dalla modernizzazione delle strutture produttive, già iniziata sotto la dittatura ma senza garantire libertà politiche. Sul piano economico l'altro problema è rappresentato dal costo del regime delle autonomie che ha fatto aumentare vertiginosamente la bilancia dei pagamenti. Una lezione che i sacerdoti nostrani dell'autonomismo duro e puro farebbero bene ad ascoltare con attenzione.
Sono in particolare due le specificità negative del modello economico iberico: la prima concerne uno sviluppo troppo incentrato sulla piccola e media impresa (il 94% delle aziende impiega fino a 10 lavoratori). La seconda è l'alto tasso di disoccupazione, in particolare giovanile (43,8% contro il 21% della media continentale). La quota di lavoro precario in Spagna raggiunge il 30%, con punte assai elevate tra i 15 e i 24 anni, e dunque la fase di formazione avviene in condizioni "usa e getta" che impediscono una vera e propria crescita professionale, la quale non corrisponde all'interesse del lavoratore, né a quello dell'imprenditore. Alla base c'è una crescente disfunzione del sistema formativo primario e secondario incapace di valorizzare il nesso tra investimenti, rinnovamento sociale e competitività.
Si parla della crisi spagnola e sembra di vedere riflessa nello specchio l'immagine dell'Italia, con una differenza però che riguarda il sistema istituzionale. L'impressione è che l'ordinamento spagnolo sia più moderno e funzionante di quello italiano, avviluppato intorno a una snervante dialettica tra populismo e delegittimazione della politica che non riesce a produrre buon governo. Al contrario, in Spagna si avverte una maggiore capacità di distinguere gli interessi del paese da quelli di una parte e quindi una capacità di coesione sociale più forte.
Un piccolo esempio riguarda le infrastrutture e i trasporti: nel fatidico dicembre 2010 è stata inaugurata la linea ad alta velocità Madrid-Valencia e tutti i giornali hanno riportato in prima pagina una foto emblematica che ritraeva il re di Spagna, il capo del governo e quello dell'opposizione intenti a festeggiare insieme un traguardo ambito che riguardava l'intera nazione, a prescindere dalle divisioni di partito. L'italiano in trasferta non ha potuto non guardare quell'immagine con una punta di invidia, avendo negli occhi il ricordo del proprio presidente del Consiglio, con tanto di cappello da ferroviere in testa, che inaugurava, da solo, nel marzo 2009 il Frecciarossa Milano-Roma. Non solo uno stile di governo diverso, ma una capacità di fare sistema che ci manca e certo aiuterebbe i talenti e la competitività dell'Italia.
4. Trichet: no a ristrutturazioni del debito. Adriana Cerretelli. Il Sole24Ore. BRUXELLES. Dal nostro inviatoSì alla ristrutturazione dei conti pubblici secondo i programmi concordati con Grecia e Irlanda. No, invece, alla ristrutturazione dei loro debiti, greco in testa.
Questo il messaggio lanciato ieri da Jean-Claude Trichet, il presidente della Bce approdato a Bruxelles per l'audizione mensile davanti alla commissione Affari economici e monetari dell'europarlamento.
«Sarebbe un segnale sbagliato ai mercati, un haircut», cioè un taglio al valore di rimborso dei titoli di stato della Grecia o di qualunque altro paese. Il motivo? Il taglio si ripercuoterebbe su chi possiede queste obbligazioni.
Prima di tutto, ha sottolineato, nessun passo del genere è previsto dagli accordi fatti per il salvataggio di Grecia e Irlanda. In secondo luogo un'iniziativa del genere non farebbe che premiare chi ha speculato contro la tenuta della zona euro. «Oggi i mercati sono fatti da investitori con posizioni lunghe e investitori con posizioni corte. I primi, formati in prevalenza da risparmiatori privati, perderebbero denaro qualora venisse tagliato il valore di rimborso dei titoli di stato. I secondi invece, gli speculatori, avrebbero tutto da guadagnarci. Dobbiamo tenerne conto quando riflettiamo su un problema così importante» ha concluso il presidente della Bce. Che ieri si esprimeva davanti all'europarlamento anche nella sua nuova veste di presidente del neonato Cers, Comitato europeo per il rischi sistemici.
«Invece di pensare alla ristrutturazione del debito vanno attuati i programmi di riduzione dei deficit e risanamento dei conti pubblici in Grecia come in Irlanda allo scopo di ritrovare credibilità. Anche se il processo richiede tempo e non bisogna fare confusione. I piani adottati vanno realizzati, la comunità internazionale si attende che questo avvenga nel modo appropriato».
Bombardato dalle domande degli eurodeputati, Trichet ieri ha preferito restare nel vago di fronte all'eventualità di una ristrutturazione volontaria del debito greco finanziata dall'Efsf, cioè dalla Facility europea di stabilizzazione finanziaria. Sono settimane che, nell'ambito della riforma dell'Efsf, si parla di allargarne il raggio di azione, tra l'altro prevedendone la possibilità di erogare prestiti ad Atene per ricomprare i titoli del proprio debito a prezzi scontati rispetto al valore facciale. In questo scenario tra i più probabili venditori potrebbe comparire proprio la Bce che, secondo alcune stime, oggi avrebbe in carico qualcosa come 50 miliardi di bond sovrani ellenici.
Trichet ha annunciato ieri che il Cers verificherà con cadenza trimestrale la tenuta del sistema finanziario rispetto ai rischi sistemici. Aggiungendo che «tutti i miglioramenti della governance economica dell'area euro non potranno che andare a vantaggio della stabilità sistemica» dell'Europa nel suo insieme. Nessun commento invece sul patto di convergenza rafforzata presentato da Germania e Francia al vertice Ue di venerdì scorso a Bruxelles.
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