Oltrepadani:
Belluno, pace fra comitati referendari: "L'autonomia è l'obiettivo di tutti".
Belluno. Pedavena: nasce l'ufficio turistico virtuale per gli smartphone.
Belluno. La Coldiretti bellunese: «Non c'è una legge per la montagna».
Udin. Tondo protesta con Roma per la tassa sulle calamità: rischia anche la 3ª corsia.
Carrettieri del Po:
Italianità? Parliamo di sviluppo
Italia in coda per Pil e investimenti
Il sistema-paese passa dalla banca
Federalismo, è caccia ai fondi
Italia ancora in grave ritardo sulle rinnovabili
Relazioni ambigue e sottili:
Bari. La domanda del 17 Marzo: quando il terzo Risorgimento?
Bozen. Il riscatto dei cittadini, l'editoriale del direttore
Cara Italia, ora uno scatto.
Belluno, pace fra comitati referendari: "L'autonomia è l'obiettivo di tutti". Il comitato provinciale e quello di Sappada stringono un'alleanza.
di Irene Aliprandi. BELLUNO. «Abbiamo tutti lo stesso obiettivo: l'autonomia». Atto di pace tra il Comitato per il referendum di Sappada e il Comitato per il referendum provinciale, che ieri hanno voluto parlare insieme delle preoccupazioni e delle speranze sul futuro delle due iniziative. E' un passo avanti fondamentale, dopo mesi di polemiche, e offre una prospettiva nuova al rapporto tra i Comitati. «Condividiamo il fatto che il diritto delle comunità a cambiare i confini amministrativi, diritto sancito dalla Costituzione, va tutelato», dice Alessandro Mauro del Comitato per Sappada, spiegando le ragioni dell'incontro con i promotori del referendum provinciale. «Il referendum provinciale non colpisce i nostri interessi. Siamo solidali con loro e vogliamo che sia chiaro che, in nessun caso, le istituzioni possono dire ai bellunesi che non possono votare, solo perché vivono al confine con una Regione a Statuto Speciale. Sarebbe uno svilimento dei nostri diritti». Sappada non ha cambiato idea: lasciare il Veneto per l'annessione al Friuli Venezia Giulia rimane l'obiettivo principale, ma tutelare quel diritto, acquisito con il voto popolare, vuol dire difendere anche i diritti degli altri bellunesi. I sappadini non possono dimenticare che, altrove, c'è chi è più fortunato, come la Val Marecchia che ha ottenuto il passaggio in Emilia Romagna: «Noi invece no», continua il Comitato di Sappada, «a loro il diritto è stato concesso, ma a noi no, forse la loro storia vale più della nostra». Il sindaco di Sappada ha inviato alla Cassazione una nota, teoricamente ad opponendum al referendum provinciale, ma il Comitato spiega: «Pensiamo che vadano chiariti alcuni aspetti complessi della vicenda, non deve essere interpretato come un segnale di divisione. Vogliamo garantire entrambi i referendum, evitando che possano essere inficiati». Moreno Broccon, del Comitato per il referendum provinciale, conferma la volontà di lavorare insieme ai comuni: «Non abbiamo interessi discordanti e l'incontro di oggi dimostra come sia fallito miseramente il tentativo di separarci, anche grazie ai Comuni di Lamon e Sovramonte». Il sindaco di Lamon infatti ha inviato in Cassazione una memoria ad adiuvandum e Sovramonte garantisce il suo appoggio. Per quanto riguarda i tre comuni ladini referendari, pare che non faranno iniziative in Cassazione. «Noi», dice Broccon, «vorremmo che la provincia di Belluno diventasse autonoma, ma anche che Sappada possa andare in Friuli. Le nostre finalità sono le stesse e non si può dimenticare che i referendum sono la conseguenza diretta della mancanza di risposte da parte delle istituzioni». Il primo ad essere portato ad esempio è Matteo Toscani, vicepresidente del consiglio regionale: «Che si prende la briga di appoggiare i comuni referendari, ma non noi», dice ancora Broccon, «ma non fa nulla per quei comuni. Lunedì scriveremo a Toscani per chiedergli di calendarizzare la seduta del consiglio per il parere sul passaggio di Sappada al Friuli». Un cenno anche alle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia: «E' evidente che non possiamo festeggiare a cuore aperto visto che a Belluno la Costituzione non viene applicata», continua Broccon. «Quando arriverà il giorno in cui tutti avranno pari diritti, potremo festeggiare anche noi». Per il referendum provinciale intervengono anche Marinella Piazza e Carlo Zanella, sulle motivazioni che hanno spinto ai referendum: salvare il territorio bellunese dallo spopolamento.
Belluno. Pedavena: nasce l'ufficio turistico virtuale per gli smartphone. di Raffaele Scottini. PEDAVENA. Mette insieme tecnologia, multimedialità, servizi, cultura, turismo e peculiarità del territorio. Così nasce il progetto per lo sviluppo di un'applicazione turistica per i cellulari smartphone, lanciato da Pedavena che chiama a raccolta tutti i comuni. Una volta completato l'inserimento dati di cui si occuperà la ditta bellunese I-contact, l'applicazione sarà pubblicata a ottobre sfruttando un sistema che permette di gestire le informazioni sul telefonino con un unico punto di accesso. Senza bisogno del collegamento internet, il fruitore in questo modo conoscerà le offerte dei comuni aderenti. Per un visitatore, o un cittadino curioso che si sposta nei luoghi d'interesse, purché dotato di un telefonino di ultima generazione, basterà scaricare l'applicazione che punta a diventare un ufficio turistico virtuale. Una guida completa dei luoghi da vedere, dei locali dove mangiare o dormire, con le notizie utili sugli uffici comunali, le associazioni e gli enti, compresi i contatti e-mail, i numeri di telefono e i riferimenti web. Tutte le schede poi riporteranno le coordinate Gps per consentire di raggiungere la meta sfruttando la funzionalità di Google map e navigazione interattiva. Se ad esempio ci troviamo in montagna e cerchiamo un'indicazione sul ristorante più vicino, oppure vogliamo sapere se il feltrino offre uno spettacolo per la serata, sarà sufficiente accendere il dispositivo tecnologico. Ogni amministrazione potrà inserire i propri contenuti, organizzandoli in opportune categorie le cui voci sono ordinate in base alla distanza della posizione corrente dell'utilizatore. Le news e gli eventi saranno aggiornati in tempo reale tramite il sito ufficiale del comune. Inoltre sarà possibile condividere le notizie presenti tramite Facebook o e-mail. «L'idea è di unire il territorio, creando un'applicazione turistica da scaricare direttamente sul telefonino per tutti i tipi di smartphone, dove siano racchiuse le informazioni culturali e di servizio dell'area circostante che ora si trovano sparse su internet», spiega il vicesindaco di Pedavena - ente capofila - Nicola Castellaz. In più, gli escursionisti avranno sul palmare la mappatura dei sentieri, corredata magari dalle foto dei luoghi più caratteristici complete di approfondimento. «La descrizione del posto lungo il tragitto insieme al riferimento logistico in punti strategici, è utile anche per evitare di perdersi. Un vantaggio è che i contenuti sono navigabili in assenza di rete internet», aggiunge. «L'inserimento dati viene fatto in autonomia dai comuni attraverso una piattaforma di gestione. Dopo l'accesso sarà possibile selezionare l'area su cui lavorare e per la buona riuscita del progetto la ditta I-contact si occuperà della formazione degli operatori incaricati dalle amministrazioni per l'aggiornamento. Ringrazio i comuni aderenti».
Belluno. La Coldiretti bellunese: «Non c'è una legge per la montagna». Dal Paos boccia Venezia ma poi la promuove perchè «qualcosa si muove». BELLUNO. «Un bel 3 alla Regione Veneto perchè non è capace di fare una legge per la montagna (e non possiamo sempre combattere per avere qualcosa per la montagna), ma anche un 6 perchè qualcosa si sta muovendo». È severo il voto che il presidente della Coldiretti Belluno, Silvano Dal Paos mette a Venezia specie dopo l'esclusione delle stalle di alta montagna dai bandi veneti per i finanziamenti. L'occasione è stata l'inaugurazione della nuova sede dell'associazione che viene ospitata a Salce dal Consorzio agrario rimesso a nuovo. «È un ritorno a casa, visto che siamo partiti da qui. Poi ci eravamo trasferiti e ora torniamo rinnovati e ingranditi con maggiori spazi per tutte le nostre attività, anche per la vendita diretta dei prodotti, come una sorta di farmer market», ha detto Dal Paos. E proprio sull'esclusione delle stalle c'è stato un incontro nei giorni scorsi tra Dal Paos, Bottacin e l'assessore Manzato: «Abbiamo avuto rassicurazione che ci sarà un bando apposito per queste realtà, perchè finalmente hanno capito cosa significa fare agricoltura in montagna. Il nuovo bando dovrebbe uscire entro ottobre-novembre, ma io mi batterò perchè abbiamo un buon finanziamento». Il presidente della Coldiretti se la prende anche con le Dolomiti Unesco. «Il territorio lo manteniamo noi agricoltori e quindi ci aspettavamo che in questa partita dell'Unesco almeno venissimo coinvolti o comunque venisse riconosciuto il nostro lavoro. Siamo stufi delle pacche sulle spalle, qui noi facciamo un servizio sociale. Ricordiamoci, visto che tiriamo sempre in ballo Bolzano, che lì oltre alla Regione anche gli albergatori mettono qualcosa per mantenere il territorio». Dal Paos parla anche di Avepa ma con toni più concilianti rispetto a quelli di qualche mese fa. «Registriamo un miglioramento perchè al 90% delle imprese stanno arrivando i soldi (il 75%) per lo sfalcio e anche i contributi compensativi per lo sfalcio. Abbiamo raggiunto anche un buon accordo per la fotografia aerea dei terreni: ci hanno dato le foto su cui l'agenzia intende lavorare. Su questo abbiamo fatto anche delle verifiche, per poter accelerare le procedure». Ma nonostante questo, il settore sta risentendo della crisi, anche se i giovani si stanno facendo avanti. «La crisi ci ha bersagliato», precisa il presidente della Coldiretti, «soprattutto per quanto riguarda il credito. I ritardi di pagamento hanno messo in ginocchio le aziende, assieme al costo del mangime che cresce e a tutta la questione del latte. Diciamo che la forbice tra il guadagno e l'entrata è sempre al limite. Ma i giovani stanno reggendo. Abbiamo circa 22-24 aziende di nuovo insediamento con parecchi giovani. Laddove si registrano delle chiusure è per la mancanza di un turn over generazionale all'interno della famiglia». E infine una battuta anche sui farmer market e sull'Ogm. Su questi ultimi Dal Paos ha ribadito la sua più convinta contrarietà, mentre sui farmer market ha sottolineato come «all'inizio nessuno ci credeva, ma adesso invece è una realtà importante per il sostentamento delle nostre imprese. Per i nostri giovani, che si stanno concentrando sulla coltivazione di piccoli frutti e che hanno investito 400-500 mila euro, poter vendere direttamente i loro prodotti è un'importante fonte di reddito».
Udin. Tondo protesta con Roma per la tassa sulle calamità: rischia anche la 3ª corsia.
di Anna Buttazzoni. Moretton (Pd): «La vera sciagura naturale è il governo Berlusconi»
UDINE. «La vera calamità naturale è il governo Berlusconi». Gianfranco Moretton, capogruppo del Pd in Consiglio, infila parole taglienti nelle pieghe del decreto Milleproroghe approvato a Roma. Il decreto prevede l’aumento delle tasse in caso di calamità naturali e rischia di bloccare le gestioni commissariali, come la terza corsia. Il governatore Renzo Tondo è preoccupato e pronto a protestare con Roma. Il senatore Pdl, Ferruccio Saro difende il provvedimento.
Martedì sarà il vicepresidente della Regione, e coordinatore nazionale per la Protezione civile Luca Ciriani, a partecipare alla Conferenza delle Regioni dove gli effetti del Milleproroghe sulla Protezione civile sarà l’unico argomento in discussione e da dove partirà la richiesta di un chiarimento urgente con il governo. Perché il provvedimento introduce una “tassa sulle calamità”: davanti a un disastro, quindi, le Regioni dovranno rispondere con proprie risorse, se serve aumentando le tasse o l’accise sulla benzina.
Altro dilemma è quello delle gestioni affidate a commissari che in Friuli Vg sono la terza corsia – il commissario è Tondo – e la bonifica della laguna di Grado e Marano. Il Milleproroghe inserisce la necessità di una richiesta preventiva che le gestioni commissariale dovranno ottenere dal ministero delle Finanze e dalla Corte dei conti prima di compiere qualsiasi azione o realizzare un’opera. Elementi che certo rischiano di ingessare le due opere, affidate invece a un commissario proprio per l’esigenza d’essere compiute velocemente.
Tondo è chiaro. «Ho delegato Ciriani a seguire questa partita e certo – dice il presidente Fvg – se il provvedimento non sarà modificato non ci saranno i presupposti per garantire l’operatività della gestione commissariale per la realizzazione della terza corsia sull’A4. In quel caso sarò costretto a valutare come agire».
«È davvero preoccupante e drammatico – insiste Moretton – che il governo Berlusconi e il centro-destra cancellino d’improvviso i poteri della protezione civile in caso di calamità naturale, a scapito della sicurezza dei cittadini che proprio nel bel mezzo dell’evento calamitoso abbisognano di soluzioni urgenti, immediate e, quindi, improcrastinabili nel tempo, pena la tutela della salute e della vita umana». Il democratico bolla come «insana» la scelta di cancellare risorse nazionali in caso di calamità. «È come dire – aggiunge Moretton – che i cittadini colpiti dagli eventi calamitosi sono abbandonati al loro destino. Non accettiamo nemmeno l’atteggiamento di esponenti del centro-destra che si sono ben guardati dal mettere in atto una forte protesta quando era possibile ancora evitare la beffa».
Per Saro, però, la Regione non deve preoccuparsi. «La terza corsia e la laguna di Grado e Marano non corrono alcun rischio – afferma il senatore – perché le risorse che sono a disposizione non saranno toccate. Era necessario, invece, introdurre uno strumento per il controllo delle spese, perché non è accettabile che lo Stato non ne sia a conoscenza, e per questo serviranno i pareri del ministero e della Corte dei conti, che però avranno l’obbligo di rispondere entro sette giorni. Ma non ci saranno problemi perché nessuno ha interesse a bloccare opere prioritarie per il Friuli Vg».
Il pidiellino difende poi la decisione di aumentare le tasse o l’accise sulla benzina. «È una possibilità che viene data alle Regioni – argomenta Saro –, ma è evidente che se il Friuli Vg o altre amministrazioni regionali avranno già i fondi a disposizione non dovranno aumentare alcunché. Ricordo poi che per il Fvg non cambia nulla, perché per riparare ai danni dell’alluvione di qualche anno fa in Val Canale e nel Canal del Ferro venne sottoscritto un accordo bipartisan tra Stato e Regione, che stanziarono 250 milioni ciascuno e per la Regione fu possibile accendendo un mutuo».
Italianità? Parliamo di sviluppo
Franco Debenedetti. Ieri Bulgari venduta alla Lvmh di François Arnault, oggi Parmalat sotto attacco di Lactalis; e prima ancora Gucci e Valentino, il pendolino e Giugiaro, Perugina e Galbani: l'Italia terra di conquista? Non insensibile al grido di dolore, il governo invoca la reciprocità e convoca l'ambasciatore: il decreto che chiude le frontiere è già pronto. Presi dalle celebrazioni per l'Unità d'Italia, abbiamo dimenticato quella d'Europa, nata per evitare l'escalation delle ritorsioni e cresciuta con la libertà dei mercati?
Alla mossa di Tremonti vien da rispondere con una provocazione: se il controllo di una nostra industria passa in mano straniera, è un bene o un male? Ovviamente guardando alle imprese reali, nello stato in cui oggi si trovano, non alle imprese immaginarie, nello stato in cui potrebbero trovarsi se fossero state diversamente gestite.
Fondiaria ed Edison di oggi potrebbero finire in mani straniere per ragioni che fanno tutt'uno con la storia del nostro capitalismo, e del modo in cui Mediobanca difese le grandi famiglie anche oltre la fase di più pervasiva ingerenza dello Stato. Se Alitalia finirà come partner regionale di Air France anziché membro alla pari di un grande carrier europeo, sarà per le ragioni politiche che prima l'hanno cresciuta nell'inefficienza e poi l'hanno sfruttata come strumento di campagna elettorale, a spese dei contribuenti. Telecom, azzoppata da valutazioni esorbitanti e da operazioni finanziarie sbagliate, è mantenuta italiana a prezzo di un sostanziale immobilismo.
Ai casi in cui il vincolo dell'italianità del controllo ha segnato negativamente il destino delle aziende, si dovrebbero aggiungere le occasioni mancate per lo stesso motivo, come Autostrade Abertis. Tutte storie con un'origine in comune: la preoccupazione di salvaguardare l'italianità di un'impresa che induce a costruire barocche architetture finanziarie per renderla non contendibile, e a strategie che si rivelano perdenti. Finché la vendita che si voleva evitare diventa, per molte di esse, l'unica soluzione possibile.
Tutt'altra cosa è chiedersi perché sono probabilmente pochi, in relazione alle dimensioni della nostra economia, i casi contrari, gruppi e istituzioni finanziarie che acquisiscono il controllo di aziende straniere: siamo più sovente prede che predatori. La globalizzazione abbatte le barriere nazionali, consente economie di scala che favoriscono le imprese di maggiore dimensione, rende disponibili i capitali necessari. Perché imprese nostre, che pure operano con successo anche fuori dai confini nazionali, trovano più conveniente accettare limiti alla propria crescita, pur di non rischiare il controllo? Fanno scandalo le malversazioni che distruggono ricchezza: ma quante sono le occasioni di crescita perse per timori ed esitazioni?
Nel valutare convenienze e rischi, contano anche le visioni di sé nel mondo, culture e ideologie. L'ossessione del controllo è path dependent, dopo mezzo secolo di protezionismo e autarchia e un altro mezzo secolo di presenza massiccia dello Stato nell'economia. I tempi cambiano, l'ossessione rimane: se per difendere l'italianità con interventi pubblici oggi mancherebbero pure i soldi, lo Stato ci mette la moral suasion; se neppure questa basta, la decretazione d'urgenza.
Se i nodi dell'accrocchio Edison Edf vengono alfine al pettine, e l'accrocchio municipale di A2A rischia di uscirne male prima delle elezioni, il ministro Tremonti ordina lo stop di un anno: poi si vedrà. Per proteggere Parmalat dai fondi esteri, il Milleproroghe pone un tetto alla distribuzione dei dividendi; i rumors di Lactalis fanno resuscitare la proposta della fusione con Granarolo, replay di Alitalia Air One, con tanti saluti alla concorrenza; la partecipazione di Lactalis fa diventare il latte prodotto strategico, con tanti saluti al mercato unico.
Dalla politica arriva, forte e chiaro, il messaggio che il vincolo di proprietà prevale sull'obiettivo dello sviluppo. Sui giornali, perfino su quelli della borghesia imprenditoriale, commentatori teorizzano le ragioni per cui è bene che alle aziende a controllo pubblico, dall'Enel a Finmeccanica, dalle Poste alle Ferrovie, non venga a mancare un solido ancoraggio al Tesoro, o alla Cassa depositi e presiti, o ai comuni, o alle fondazioni bancarie. Né dà scandalo se l'"ancoraggio" concretamente si rivela essere quello di partiti e potentati alle posizioni chiave, che se le disputano senza pudore: con tanti saluti all'efficienza.
Chi indica agli imprenditori italiani che il loro interesse può essere servito meglio da ambiziosi obbiettivi di crescita anziché da una cauta diversificazione di portafoglio, che si può andare più lontano ponendo a garanzia del controllo la propria capacità piuttosto che il conto dei diritti di voto? Chi può accompagnarli in questo percorso, quando il nostro sistema finanziario, mancando intermediari quali i fondi pensione, è al 100% bancario, di banche che si vantano di avere il territorio come radicamento e il paese come missione. Se il proprio orizzonte è il campanile, difficile indicare agli altri il mondo.
Sono tante, e l'ha ricordato Alessandro Plateroti ieri su questo giornale, le ragioni che ostacolano la crescita. Ma alla luce di questo episodio, c'è da sperare che al prossimo convegno o stati generali in cui si discetta di stimoli all'economia e di "frustate" per la crescita, qualcuno si alzi e indichi quanto le barriere, anche culturali e ideologiche, erette per difendere imprenditori e aziende del nostro sistema industriale, finiscono per frenarne lo sviluppo.
Italia in coda per Pil e investimenti
G. Sa. ROMA
Tra il 2000 e il 2010 l'Italia ha lasciato sul campo l'8% degli investimenti in infrastrutture e costruzioni, pari a 15 miliardi di euro annui: l'ulteriore frenata di questo motore portante del l'economia ha pesato sulla performance del Pil, che - a conferma del rallentamento di tutta l'economia italiana - è risultata la peggiore del mondo occidentale e la terzultima tra i 180 paesi del Fondo monetario internazionale. Soltanto Zimbabwe e Haiti hanno fatto peggio di noi in termini di variazione del prodotto interno lordo: il dato italiano 2010 è solo del 2,3% più alto di quello 2000 contro l'8,7% della Germania, il 12,5% della Francia, il 15,4% del Regno Unito, il 17,8% degli Stati Uniti. Per non parlare dei paesi in via di sviluppo che corrono con tassi decennali di crescita a tre cifre (si veda la tabella con i numeri indice dei principali paesi). Nel gruppo dei cinque paesi più lenti ci sono anche Portogallo e Giappone, mentre i cinque più veloci riguardano tutti economie di piccolo taglio: Guinea equatoriale, Afghanistan, Azerbaijan, Quatar e Turkmenistan. Il primo paese pesante è la Cina che presenta un tasso di crescita fra il Pil 2000 e il Pil 2010 del 171 per cento.
A rielaborare i dati del Fondo monetario internazionale è il Cresme, istituto di ricerca italiano leader per il settore delle costruzioni. Proprio sul mondo delle costruzioni si focalizza lo studio che evidenzia come l'Italia non sia l'unico paese occidentale a perdere quote consistenti di investimenti nella comparazione statica fra 2000 e 2010. A fronte del nostro calo dell'8%, presentano una riduzione di investimenti più marcata la Spagna (-30%) e gli Stati Uniti (-15%). La Spagna ha per altro fatto registrare negli anni di mezzo crescite anche molto elevate e lo scoppio della bolla immobiliare ha prodotto quindi effetti congiunturali ancora più drammatici.
Un po' meglio, nel raffronto fra gli estremi del periodo, va la Germania (-7%), mentre decisamente meglio sta la Francia che non perde investimenti nel 2010 rispetto al livello del 2000. La crescita robusta di opere pubbliche e private è comunque tutta in Oriente, vicino e lontano: in Turchia il 45%, in Polonia il 50%, in Russia il 131%, in Romania il 137%, in India il 202%, in Cina il 367%. La media dei paesi Briics si attesta al 241 per cento.
Anche per le imprese di costruzione a caccia di export la fotografia del planisfero si mostra nella sua evidenza: la crescita del mercato delle costruzioni si è ormai spostata tutta in quattro principali aree, Europa orientale, Asia, Sud America e Africa, che pure è cresciuta tra 2000 e 2010 a un tasso medio annuo superiore al 7 per cento.
Il valore a livello mondiale degli investimenti in costruzioni è stato nel 2010 di circa 4.700 miliardi di euro, tornando alla crescita (+1,5%) rispetto al terribile 2009, quando la caduta del mercato globale era stata del 3,1%. In questa mini-ripresa di oggi, come nella caduta precedente, tuttavia, la situazione è assai diversificata da area ad area: nel 2010 l'Europa occidentale scende ancora del 3,6%, l'America del Nord del 3%, mentre crescono Sud America (+5%), Asia (+6,9%), Africa (3,2%). Nel 2009 il tonfo mondiale era stato causato tutto da Europa occidentale (-9,8%) e Nord America (-13,1%) mentre le altre aree continuavano a presentare tassi di variazione in crescita.
Il sistema-paese passa dalla banca
La sfida economica, industriale e finanziaria tra Francia e Italia è giustamente stata giudicata come un confronto tra due sistemi-paese. Data la natura bancocentrica dell'Italia, la partita si potrà giocare solo se – oltre a regolamentazioni simili e alle necessarie spinte imprenditoriali – anche le grandi banche domestiche sapranno dimostrare di fare "sistema". Lo sguardo è puntato su Intesa Sanpaolo, UniCredit e Mediobanca che – archiviando fiere rivalità, consolidate nella storia finanziaria italiana – hanno stavolta la possibilità di collaborare nell'interesse del paese. Il tema non è tanto la difesa dell'italianità di una singola impresa, quanto la tutela di interi distretti o filiere produttive (come è il caso della Parmalat e dei produttori di latte). Con soluzioni che passano da operazioni di mercato che rendano più forti le imprese sotto attacco dall'estero. Le banche italiane collaboreranno? I segnali di unità d'intenti non mancano. Su Telecom, la partita delle nomine è filata via liscia con il consenso delle tre grandi banche. Il caso Fondiaria-Sai vede ormai UniCredit al posto dei francesi di Groupama. Su Edison, c'è convergenza nel contrastare Edf. E su Parmalat si profila una inedita collaborazione a tre per sostenere il difficile tentativo dell'italiana Ferrero in opposizione a Lactalis. Il sistema-Italia è affidato anche alla responsabilità delle banche.
Federalismo, è caccia ai fondi
Roberto Turno
L'ultima pensata estemporanea del governo è stata quella di finanziare i fondi alle regioni per il trasporto pubblico locale con una mega tassa sui Suv e su autovetture e autoveicoli per il trasporto promiscuo di persone di 8 euro per ogni kW oltre i 130 (176 cavalli fiscali), che sarebbe salito a 8,40 per i pagamenti frazionati nel corso dell'anno. Gettito atteso da destinare ai governatori per un anno: circa 290 milioni, che dall'anno seguente avrebbe incamerato solo lo stato. Una pensata però subito ritirata: per il no secco del Pd e delle opposizioni, per il malcontento dei governatori ma anche perché una nuova stangata fiscale, ancorché circoscritta a contribuenti più ricchi, avrebbe indotto negli elettori l'equazione "federalismo uguale aumento della pressione fiscale". Per di più voluta proprio dal governo. Come del resto la Uil ieri ha dimostrato in uno studio che calcola un aumento medio di 276 euro pro capite dal 2015 dall'incremento delle addizionali Irpef.
E così da domani, nell'ultimo rush in bicamerale in vista del parere atteso mercoledì 23 su fisco regionale e costi standard, governo e maggioranza cercheranno sul filo di lana di ritessere daccapo la tela di un accordo che ormai sembra quasi impossibile. Ma guardando attentamente a cosa accadrà tra i governatori, sui quali il governo ha scaricato la decisione del superbollo per le grosse cilindrate, che intanto ha rimesso nel cassetto.
Il nodo della restituzione alle regioni degli oltre 400 milioni tagliati al trasporto locale (Tpl) dalla manovra estiva, è il crocevia della partita sul federalismo regionale. Ma il governo fatica a trovare subito i fondi, senza i quali i governatori – che sono spaccati, con quelli leghisti però adesso più in difficoltà – potrebbero mettersi di traverso martedì nella riunione «straordinaria» che hanno convocato. L'altra ipotesi per finanziare il Tpl è di ricorrere a un decreto ad hoc, o all'assestamento di bilancio 2011. Ma le somme arriverebbero tardi e molte regioni, che devono far quadrare i bilanci, non ci stanno. Senza dire che dalle regioni il governo spera di ottenere un lasciapassare utile in parlamento per non arrivare al voto in bicamerale con una spaccatura – pareggio di 15 a 15, una bocciatura sostanziale – come già accaduto col fisco municipale. Nel parere del relatore di maggioranza Massimo Corsaro (Pdl) è intanto scomparsa la fiscalizzazione dal 2012 dei tagli alle regioni.
Si tratta, insomma. Con tutte le novità anticipate in questi giorni da Il Sole-24 Ore sul tappeto: addizionale Irpef sbloccata dal 2011 che salirebbe all'1,4% con un aumento dello 0,5% per tutti gli scaglioni d'imposta, poi al 2% nel 2014 e al 3% nel 2015 dai 28mila euro in su; anticipo al 2013 (dal 2014) della possibilità di ridurre o azzerare l'Irap; di nuovo la compartecipazione regionale dell'accisa sulla benzina; addizionale per regioni ordinarie e province dal 2012 per canoni di utenza dell'acqua pubblica con gettito destinato alle province; imposta di scopo per le province.
E poi la sanità, per la quale maggioranza e governo confermano dal 2013 il benchmark tra 3 regioni (del nord, del centro e del sud, con una regione piccola) non sotto piani di rientro da scegliere in una rosa di 5 per i costi standard del 2013. E con l'ipotesi di rimuovere i gap infrastrutturali (al sud, nelle aree montane, nelle piccole isole) che incidono sui costi sanitari tenendo conto di indicatori socio-economici e ambientali di disagio. Ma senza il criterio della «deprivazione» caro al sud, anche governato dal centrodestra. Criterio che invece vorrebbe l'opposizione, che chiede un benchmark tra le 5 migliori regioni nell'arco di 3 anni (non 2). Senza scordare i premi per le regioni benchmark e per chi acquista al meglio beni e servizi: in questo caso la richiesta è trasversale, ma il governo dovrebbe inserirla nel decreto in arrivo su «premi e sanzioni», altro argomento che però è ragione di scontro con i governatori.
Italia ancora in grave ritardo sulle rinnovabili
Ma il settore è in fermento: BioEnergy Italy, in programma in questi giorni e fino a domenica, sta registrando il tutto esaurito nei workshop e nei seminari tecnici
Fonte: © CREMONAFIERE.it - Pubblicata il 19/03/2011
CREMONA – Nel convegno «Energie rinnovabili e tutela del territorio: nuove opportunità per agricoltori ed enti locali» organizzato da Cremonafiere, DLG, Legambiente e ANCI in collaborazione con Chimica Verde nell’ambito di BioEnergy Italy è emerso un ritratto dell’Italia, dal punto di vista dello sfruttamento delle fonti per le energie rinnovabili, ancora in grave ritardo rispetto al resto d’Europa.
Il prof. Setti dell’Università di Bologna ha tracciato il quadro mettendo due realtà a confronto, Germania e Italia: nell’annata 2007/2008 la Germania produceva +1,8 Mtep a fronte della produzione italiana di +0,3; l’annata successiva, che ha visto in Italia l’espansione del fenomeno energie rinnovabili, la Germania ha prodotto +2,1 e l’Italia + 0,4. La produzione di un Paese quale la Germania, che gode tra l’altro di un irraggiamento molto inferiore rispetto al nostro Paese, è 6 volte maggiore rispetto all’Italia.
Non bisogna dimenticare che i risultati tedeschi sono il frutto di una pianificazione energetica che in Germania è iniziata nel 1970. Il Presidente di CremonaFiere Antonio Piva intervenendo al convegno ha sottolineato che «La normativa deve aiutare il comparto agricolo; ci vuole chiarezza sulle condizioni e sulle possibilità di accedere alle fonti rinnovabili e soprattutto la normativa va mantenuta per un ragionevole lasso di tempo. Il sistema Italia deve agevolare l’imprenditore che vuole investire in questo campo».
In ambito agricolo grandissima importanza rivestono le energie rinnovabili da biomassa che, come ha detto Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente, sono una grande occasione per diversificare le opportunità di reddito e contribuiscono a sviluppare l’aspetto multifunzionale dell’azienda agricola, non più solo produttrice di materie prime, ma anche fonte di servizi al territorio.
In questa ottica la pianificazione in Italia è ancora in corso; c’è grande attesa in tutti i settori che sono coinvolti nel campo delle energie rinnovabili verso il Dlgs recepimento Dir. 28/2009 del 3 marzo 2011. Finisce l’ansia per la tariffa omnicomprensiva per gli impianti alimentati a biomasse e non di potenza inferiore a 1 MW e che entreranno in esercizio entro il 2012: la tariffa rimane fissa e costante per 15 anni. Viene istituito un fondo di garanzia a sostegno della realizzazione di reti di teleriscaldamento, di solito realizzate in piccoli comuni e spesso gestite da imprese forestali locali; vengono riformati i certificati bianchi, legati all’energia termica ed all’efficienza energetica, che attualmente hanno valori troppo bassi per garantire un reale sviluppo, si tratta di un’altra opportunità alla termica prodotta da biomasse o in cogenerazione da biogas; si conferma la cumulabilità delle tariffe incentivanti con altri incentivi pubblici non eccedenti il 40% degli investimenti per gli impianti entro 1 MW a biomasse, biogas e bioliquidi sostenibili di proprietà di aziende agricole e gestiti in connessione con esse.
Secondo una elaborazione Aiel di dati in previsione del Piano di Azione Nazionale presentati durante il convegno si ha un’immagine chiara di quanto contano le biomasse nelle diverse tipologie energetiche da fonti energetiche rinnovabili:
• Energia Elettrica da FER al 2020: biomasse 19%; altre rinnovabili 81%
• Riscaldamento e Raffreddamento da FER al 2020: biomasse 54%; altre rinnovabili 46%
• Energia per trasporti da FER al 2020: biomasse 87%, altre rinnovabili 13%.
Bari. La domanda del 17 Marzo: quando il terzo Risorgimento?
di GIUSEPPE DE TOMASO
Nella nazione dei Guelfi e Ghibellini, riesce difficile mettersi d’accordo persino sugli orari dei negozi. Figuriamoci sul «racconto» del nostro passato nazionale, sulla «narrazione» di fatti e protagonisti. Lo dimostra la storia dell’Unità d’Italia che, col tempo, si è trasformata in un derby tra nordisti e sudisti, risorgimentalisti e neoborbonici. Pretendere una lettura condivisa del battesimo dello Stato unitario pareva u n’aspirazione da anime belle, anche durante le celebrazioni del Centocinquantenario. Invece, nonostante qualche prevedibile, ma marginale provocazione, la settimana clou della memoria nazionale si è conclusa nel migliore dei modi: con un ritrovato patriottismo, senza sbavature retoriche. Una riscoperta del sentimento unitario, finora circoscritto soltanto in occasione delle partite di calcio degli azzurri. Un miracolo. Merito, bisogna riconoscerlo, del presidente della Repubblica. Fu il suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, a ridare impulso all’italianità, fuori e dentro la Penisola.
Fu Ciampi a chiedere e ottenere un dovuto omaggio ai simboli della migliore tradizione risorgimentale. Nessuno poteva prevedere se Giorgio Napolitano avrebbe allungato o no il solco dell’ex presidente. Invece, l’attuale Capo dello Stato, non soltanto ha raccolto il testimone patriottico lasciatogli da Ciampi, ma è riuscito ad aggiungere qualcos’altro: un’interpretazione del presente e del passato in grado di ricevere il plauso di Umberto Bossi e dei meridionalisti più severi, degli storici di destra e degli storici di sinistra. Un traguardo raggiunto, peraltro, senza cadere nella tentazione del cerchiobottismo che, si sa, spesso, costituisce una sorta di tic automatico del costume italico.
Napolitano non ha mitizzato il Risorgimento, ma non lo ha neppure retrocesso a concatenazione di vicende occasionali. Con tutte le sue manchevolezze, con tutte le sue contraddizioni, il Risorgimento rimane la pagina migliore della nostra Storia. Idem la vicenda del suo principale architetto, Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), non a caso definito da Napolitano come il più bravo politico che abbia generato lo Stivale. Anche le parole sul Mezzogiorno pronunciate dal presidente della Repubblica («Serve un esame di coscienza collettivo sul Mezzogiorno, cui va associata una severa riflessione sui propri comportamenti da parte delle classi dirigenti e dei cittadini dello stesso Mezzogiorno») sono difficilmente confutabili. Il Sud è ancora in credito con il resto del Paese, soprattutto sul piano della dotazione infrastrutturale.
Ma il Sud, fa intendere Napolitano, non è indenne da colpe e responsabilità, la gran parte delle quali riconducibili alla sua classe dirigente. Pur essendo un federalista convinto, lo stesso Gaetano Salvemini (1873-1957), secondo cui le tasse dell’Unità d’Italia divorarono il Mezzogiorno di tutti i suoi risparmi, sul finire della sua esistenza nutrì più di un dubbio sull’utilità dell’au - tonomismo per le popolazioni meridionali. Il timore di Salvemini non era di tipo ideologico, ma empirico. Il pensatore di Molfetta non aveva una grande opinione dei cacicchi della Bassa Italia, così come non ce l’aveva del loro Grande Capo piemontese (Giovanni Giolitti), cui questi esempi di rapacità e neghittosità facevano riferimento.
Anche la storia dell’ultimo mezzo secolo non assolve la classe dirigente del Mezzogiorno, che pur avendo avuto modo di frequentare la stanza dei bottoni a Roma, non è riuscita a vincere il virus del clientelismo e dell’assistenzialismo, che induceva personaggi come Luigi Carlo Farini (1812-1866), collaboratore di Cavour e primo ministro, a sparare sul livello moral-professionale dei maggiorenti del Sud («Basta la promessa dell’autorizzazione di una tabaccheria per convincerli»). Si riferisce a queste debolezze Napolitano quando sembra invocare l’autocritica di settori decisivi del sistema meridionale. Così come il capo dello Stato si riferisce senza tentennamenti a Bossi quando ricorda che l’Italia è una, e che il federalismo ha senso solo se rafforza l’unità.
Grazie a queste verità Nord e Sud, così come centrodestra e centrosinistra, avrebbero la possibilità di convergere su una strategia unitaria, specie ora che le emergenze economiche, energetiche, ambientali e militari richiedono uno sforzo superiore, uno scatto di orgoglio collettivo. La costruzione dello Stato unitario (1861) fu il Primo Risorgimento. La ricostruzione dello Stato distrutto dalla guerra fu il Secondo Risorgimento (1945-1953). Adesso - ecco il significato degli appelli di Napolitano - servirebbe il Terzo Risorgimento, che per realizzarsi avrebbe bisogno della più vasta collaborazione soprattutto sul versante dei doveri.
Il presidente, con la Festa del 17 marzo, ha svolto un’analisi della storia italiana condivisa quasi da tutti. Ora, per uscire dallo stallo socio-economico, sarebbe necessaria una strategia altrettanto condivisa. Il che è complicato. Ma il senso delle celebrazioni di questa settimana non può che partire da questa considerazione: Cavour, Garibaldi e Mazzini marciavano divisi per colpire uniti, ma c’è qualcuno oggi capace di fare altrettanto?
Bozen. Il riscatto dei cittadini, l'editoriale del direttore
20/03/2011 09:48. Il successo della festa per i 150 anni dell'Unità d'Italia ha fatto riscoprire negli italiani l'orgoglio di patria e una nuova fierezza di essere nazione. Senza retorica, senza inutili ostentazioni muscolari, senza assurde nostalgie passatiste. Piuttosto una festa di popolo, che sente il bisogno di ritrovare fiducia in se stesso per rigenerare una nuova passione civile, una riguadagnata unità, una più forte e salda etica pubblica e di sentire comune. Interprete più alto di questo sentimento è stato Giorgio Napolitano, il Presidente degli italiani, che ha indicato la sintesi più completa: un'Italia unita e plurale, un destino comune dentro le differenze, una molteplicità e ricchezza di autonomie, municipalità, espressioni sociali e civili che camminano insieme, guardando unite al domani. Perché solo un'unità nazionale forte consente un federalismo pienamente realizzato.
Il richiamo energico alle autonomie e al ruolo dei cittadini, pone al centro dell'attenzione politica la questione dell'Italia di oggi: ribadita l'unità nazionale occorre ora procedere alla realizzazione plurale, espressione di una cittadinanza attiva. Cioè al compimento del principio di sussidiarietà che sta alla base del patto civico espresso nella Costituzione. Non è lo Stato, infatti, al centro della vita nazionale, ma è la persona, e le comunità e le espressioni sociali in cui si realizza la sua personalità. Gli articoli 2 e 3 della Costituzione ricordano che la Repubblica «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo», cioè non stabilisce tali diritti, come pure i valori che stanno alla base del vivere comune; ma li rinviene nel tessuto collettivo di un popolo, nei suoi riferimenti culturali, nella sua civiltà politica e giuridica. Non è quindi lo Stato il soggetto primo, ma i cittadini che, singoli o associati, come persone o nelle comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, associative in cui vivono la loro esistenza, costituiscono il motore del vivere civile, che poi «la Repubblica riconosce e garantisce», cioè sostiene, promuove, valorizza, coinvolge e rispetta.
La sussidiarietà, ossia il principio che non deve fare il livello superiore ciò che può fare il livello inferiore (che si esprime nel protagonismo dei cittadini, delle autonomie e dei corpi sociali), non è soltanto un valore aggiunto alla vita dello Stato, come pure afferma un bel libro dei professori Gregorio Arena e Giuseppe Cotturri, presentato nei giorni scorsi a Trento. Ma è il cardine della nazione, su cui i costituenti hanno impostato il Patto di cittadinanza, e che richiede un ripensamento dell'intera struttura dello Stato per adeguarne ad esso la sua declinazione. Solo realizzando appieno il principio di sussidiarietà, una democrazia liberale può rimanere se stessa. Il riconoscere che viene prima la società dello Stato, la persona rispetto al Potere, costituisce l'anticorpo più efficace a qualsiasi pretesa totalizzante dell'Autorità suprema. Anzi ne è il contropotere indispensabile, perché lo Stato non si trasformi in «etico» e imponga i suoi valori sulla libertà di coscienza dei singoli e delle autonomie sociali. Lo Stato moderno, infatti, per sua natura nasce e si espande come fagocitante di ogni altra realtà intermedia, e tende a subordinare gerarchicamente tutto a se stesso.
Ecco la forza dei territori, delle autonomie, dei cittadini, singoli e organizzati, delle chiese e delle associazioni, come soggetti primi della vita civile e politica del Paese, che lo Stato è chiamato ad aiutare, ordinare, normare, promuovere se meritevoli di sostegno, coinvolgere nella realizzazione delle proprie finalità e del bene comune, consapevole che le funzioni pubbliche devono competere in primo luogo a chi è più vicino alle persone, ai loro bisogni e alle loro risorse. Anzi sono proprio tali realtà che, nell'adempimento in libertà di questo loro compito, esprimono quei valori e quell'ethos di cui lo Stato vive e che da solo non è in grado di produrre e garantire. Troppo a lungo lo Stato centralista, imbevuto di ideologie di destra e di sinistra, ha concepito i cittadini, i corpi intermedi, le autonomie territoriali, come un limite, un'anarchia da domare, dei poteri su cui dover esprimere la propria supremazia. Al massimo, come nel caso del volontariato, delle riserve di energie e di prestazioni, da utilizzare in caso di bisogno, per tamponare le falle della propria organizzazione. È questo che ha fatto scrutare troppo a lungo le autonomie speciali come un'anomalia da contrastare invece che una libera espressione territoriale, da responsabilizzare, o tutt'al più da armonizzare con le altre, nella solidarietà nazionale.
È questo che fa vedere la libertà di scuola come una concessione, o una indigesta sopportazione, invece che come riconoscimento di una pluralità sociale, che arricchisce l'intera comunità nazionale. Le parole alte e forti di Napolitano per i 150 anni dell'Unità segnano uno spartiacque ed imprimono uno slancio rinnovato in un Paese sfiduciato e piegato nella rassegnazione, sotto il peso del degrado politico e morale, e della corruzione dilagante. Devono essere i cittadini il motore della rinascita su cui l'Italia può sperare: una cittadinanza attiva, responsabile, solidale, protagonista della vita pubblica, e partecipe convinta delle sorti della collettività e del bene comune. Sono i cittadini che devono prendersi cura non più soltanto di se stessi, ma in prima persona della comunità in cui vivono. Ribaltando la cultura assistenzialista dell'attesa dell'intervento dello Stato o della Provincia, per muoversi per primi, con autonoma iniziativa, singoli e associati, per adempiere ai bisogni di interesse generale. Solo così il Paese potrà risorgere. E se la festa del 17 marzo ha ridato agli italiani l'orgoglio di Nazione, questo cambiamento è il solo che potrà dare la speranza di Futuro.
Cara Italia, ora uno scatto. Giuliano Amato. Aveva ragione Giovanni Sabbatucci a scrivere giorni fa sul Messaggero che il presidente Napolitano, con i suoi ripetuti interventi sul 150° della nostra unità, è riuscito a imporre una visione del nostro passato che supera le tante dispute e le interpretazioni di parte di cui l'unificazione italiana è stata oggetto sinora. Ciò vale per gli intenti diversi che animarono i protagonisti della stessa unificazione e per la constatazione, tuttavia, che essi furono coessenziali l'uno all'altro, al punto di farci concludere che il risultato sarebbe mancato se, ciascuno a suo modo, non avessero tutti concorso a realizzarlo. E vale altresì per l'Italia che finì per uscirne, che non fu bella come alcuni l'avrebbero voluta, ma fu l'unica possibile. Fu essenziale alla modernizzazione del paese, in certa parte la seppe realizzare, ma proprio per la sua contestata fragilità lasciò problemi e conflitti che angustiano ancora oggi la nostra nazione incompiuta.
È tempo allora di riprendere da qui il nostro discorso e di avvalerci del passato per concentrare l'attenzione sul nostro futuro. Che Italia è quella che arriva a questo 150° anniversario? Saprà ancora progredire, come ha dimostrato e ancora dimostra di saper fare, o finirà per restare indietro, come in parte ha preso ad accadere? Già, perché i dati di cui disponiamo, soprattutto sul nostro più recente passato, offrono argomenti a entrambi i quesiti.
I dati macroeconomici degli ultimi due decenni sono quelli sui quali fondano il loro pessimismo coloro che pensano a un regresso italiano ormai pericolosamente in atto. Una produttività totale dei fattori che, in termini aggregati, è desolantemente piatta, una crescita annua che è conseguentemente e costantemente ai gradini più bassi della zona euro, un debito pubblico che in primo luogo in ragione di ciò viaggia regolarmente sopra il 100% del Pil. Per non parlare della disoccupazione giovanile in crescita e del cedimento progressivo del reddito in diverse regioni del Mezzogiorno, che, al pari di fenomeni similari riscontrati anche in altri paesi non solo europei, vengono imputati, più che a debolezze endemiche italiane, alla crisi globale degli ultimi anni. Ma certo fanno parte del quadro.
A fronte di questi dati per nulla incoraggianti, ci giungono dall'economia reale i segni di un'Italia che si sta adattando ai cambiamenti del mondo e che opera con successo con i nuovi e i vecchi protagonisti del mercato globale. Basta leggere i mutamenti che sono intervenuti nelle nostre esportazioni per rendersene conto: la quota crescente di ciò che esportiamo nei cosiddetti paesi emergenti avanzati, non solo in quelli asiatici, ma anche in America Latina e in paesi africani come il Sudafrica, la Nigeria o l'Angola; la capacità che abbiamo dimostrato di farci valere qui, ma anche in mercati tradizionali come quelli europei, con i nostri beni intermedi e i beni di investimento, che vanno crescendo al fianco del tradizionale made in Italy (l'Italia è il quarto esportatore mondiale di prodotti di meccanica strumentale); la crescita infine dello stesso made in Italy, grazie all'allargamento dei mercati mondiali.
E allora, come stanno insieme dati tanto diversi? E soprattutto, visto che sono veri tutti, quali prevarranno nel segnare il nostro futuro? Specie in occasioni celebrative come quella di quest'anno, è forte lo stimolo a portare l'attenzione su quelle che chiamiamo "le eccellenze italiane". E soprattutto all'estero organizziamo mostre che le illustrano. È giusto farlo. Oltre a concorrere potentemente al nostro prestigio, le eccellenze si riconducono alla nostra identità più profonda ed esprimono quella creatività che è riconosciuta nel mondo come la qualità prima degli italiani.
Non dobbiamo tuttavia illuderci e dobbiamo al contrario prendere atto di un fatto inesorabile. Abbiamo eccellenze nei campi più diversi e abbiamo anche di più, perché non c'è solo l'élite dell'eccellenza nel robusto apporto di imprese di buona qualità ai positivi andamenti delle esportazioni che ricordavo poc'anzi. Ma evidentemente tutto questo non basta a trascinare il grosso dell'economia italiana, che si arrabatta e va avanti a velocità e con risultati assai più modesti. Né basta a dar conto degli ostacoli e delle esternalità negative, non ciò che accade, ma ciò che non riesce ad accadere, e che proprio per questo riduce i risultati complessivi della nostra economia.
Usiamo quindi il 150° della nostra unità non solo per magnificare (insisto, giustamente) il meglio che sappiamo fare, ma anche per un sereno e impietoso esame di coscienza di ciò che dovremmo e potremmo fare perché il paese, tutto il paese, si porti all'altezza di quel meglio. È un esame di coscienza a cui non siamo abituati, giacché ciò che ciascuno di noi è abituato a fare, davanti ai mali italiani, è cercare ciò che altri, non lui, dovrebbe fare per superarli. Ho provato tempo fa a porre domande a 360 gradi (l'ho fatto nel libro Dove andremo a finire, ottimamente curato da Alessandro Barbano per i tipi di Einaudi) e subito mi sono sentito dire: «Non va bene, tutti colpevoli, nessun colpevole».
È questo l'atteggiamento di cui liberarsi. Noi non dobbiamo trovare un colpevole, dobbiamo rendere migliore l'Italia. Per anni il piccolo è stato il nostro bello, ora è possibile che buona parte dei nostri limiti siano i limiti di una piccola imprenditorialità che vive la propria attività in funzione della sola economia familiare. Restia a proiettarla oltre l'agiatezza che può ricavarne per la vita corrente, si condanna così a scomparire o a vendere ad altri, magari francesi, ciò che di meglio è riuscita a fare. E possiamo anche usare una legge, a mo' di testa di Materazzi, per far rinculare i francesi, ma meglio sarebbe promuovere un ambiente più ricco di possibili compratori italiani.
Abbiamo banche prudenti, che hanno evitato grazie a questo i rischi eccessivi in cui sono sprofondate quelle di altri paesi. Ma da noi il venture capital è quasi inesistente e le nuove iniziative, gli spin off e le avventure tecnologiche sono sogni per pochi. Abbiamo una abnorme diffusione del lavoro precario, ma continuano a incentivarlo i costi e le rigidità di quello non precario. Abbiamo uno Stato che si federalizza, ma che ancora non ha trovato il giusto mezzo fra i grappoli di autorizzazioni e licenze che pesano sulle attività economiche e la libertà data a ciascuno di fare come crede (salvo a inseguirlo troppo tardi quando ormai lo ha fatto).
Non è la motivazione di una sentenza di condanna, è un elenco neppur completo di problemi che non sono affatto irrisolvibili (in un'Italia che ha anche eccellenze), sempre che ciascuno se ne assuma la sua parte di responsabilità e non la scarichi riottosamente su altri. La coesione nazionale, quella di cui tanto parliamo nell'anno del 150°, è anche questo.
Nessun commento:
Posta un commento