martedì 5 aprile 2011

Federali-Sera. 5 aprile 2011. Tunisi. Sì ai rimpatri degli immigrati tunisini irregolari ma a patto che si realizzino su numeri limitati, praticamente con il contagocce, in porti e aeroporti secondari e a telecamere spente, senza enfasi nei media. Altro che ospitarli nelle strutture del nord, bisogna rimandarli in Tunisia sui B52 e basta, dice Sandy Cane, americana del Massachusetts e primo esponente di colore della Lega a diventare sindaco. L’Ue ha stanziato per l’Italia oltre 75 milioni per gestire i flussi migratori nel solo 2011.

Sarko' l'africano:
Tunisia e Egitto: emancipazione e rottura non violenta.
Libia: "pronti a riforme, ma Gheddafi resta"
La Francia bombarda la Costa d’Avorio

Economia in padania e zone limitrofe:
Parmalat, Francia: “Il decreto antiscalate? Discriminatorio di fatto”
Udin. Reati fiscali, indagato Calligaris che contrattacca: «Io vittima»
Treviso. Il Carroccio al vertice di Ascopiave
Treviso. «Troppe tasse, chiudo e vado all'estero».
Treviso. Ecco il maxievasore: Giovanni Bruttocao.
Mantova. Un comitato d'affari a Mantovabanca
Mantova. Soldi sulla parola e bilanci creativi
Emilia. La Lega vuol mangiare la piadina
Ma la Lega già apre la partita delle deleghe

In gita sulle fortezze volanti:
Le condizioni di Tunisi: «Rimpatri solo limitati»
Lo tsunami umano e la generosità del Sud
I sindaci del Carroccio: via sui B52
Immigrazione, Bossi: permessi temporanei
Trento. «Profughi, siamo pronti a fare la nostra parte»
Firenze. Accoglienza in 7 province e 14 strutture

Luis ha il cuore d'oro:
Bozen. Premi d'oro ai dipendenti comunali.
Tunisia e Egitto: emancipazione e rottura non violenta. 05 aprile 2011 - 08:42. Di Abdelafidh Abdeleli, swissinfo.ch
La religione rimessa al suo posto, l'emancipazione delle donne e la non violenza contro i regimi violenti: per l'antropologo svizzero-tunisino Mondher Kilani, questi tre elementi sono le caratteristiche più importanti delle due rivoluzioni che hanno avuto successo finora nei paesi islamici.
Dopo due rivoluzioni popolari in Tunisia e Egitto, la "primavera araba" si scontra con la repressione in molti altri paesi islamici, dalla Libia allo Yemen, fino alla Siria. L'esempio tunisino ed egiziano ha tuttavia sconvolto molte certezze, tra cui quella di "un'eccezione araba", in base alla quale nel mondo musulmano non sarebbe attuabile un cambiamento di società.

Un tema, quest'ultimo, evocato durante una recente giornata di studi all'Università di Losanna, a cui ha partecipato il professor Mondher Kilani. Intervista.

swissinfo.ch: Le rivoluzioni in atto in Tunisia e Egitto spingeranno gli intellettuali a rivedere i loro pregiudizi sul mondo arabo e sulla cosiddetta "eccezione araba"?

Mondher Kilani: Sì, certamente. Sta cambiando sia il punto di vista degli arabi su se stessi che quello degli occidentali sui paesi islamici. Si pensava che nulla potesse cambiare in questi paesi e che erano essenzialmente orientati verso dittature, terrorismo, arcaismo. L'eccezione araba, insomma.

Oggi ci rendiamo invece conto che non esiste più un'eccezione araba. Non nel senso che gli arabi sono diventati come gli occidentali, ma nel senso che nessuna società è più immune da sconvolgimenti. Nei paesi islamici vi era una crescente pressione dei giovani verso la libertà e contro la corruzione. Qualcosa doveva quindi cambiare.

Questo fenomeno ha sorpreso e sta ancora sorprendendo molti. Ma, da un profilo storico, le trasformazioni in atto sono il risultato di esigenze che esistevano già da tempo all'interno della società.

swissinfo.ch: I paesi occidentali hanno sostenuto la transizione democratica in Europa orientale e, prima ancora, in Grecia, Portogallo e Spagna. Quale ruolo potranno assumere nel mondo arabo?

M.K.: Difficile dirlo. È vero che l'Europa occidentale e gli Stati Uniti hanno sostenuto i processi democratici in Europa orientale e meridionale. Li hanno anche anticipati, in quanto consideravano l'ex blocco sovietico e i paesi meridionali come una parte dell'Europa.
Ma per il mondo arabo le cose sono diverse. La posizione dell'Occidente è molto ambigua e complessa. Innanzitutto perché vi è stato un passato coloniale o imperiale. E poi per il fatto che i regimi autoritari arabi sono stati quasi tutti sostenuti in un modo o nell'altro dall'Occidente, sia come alleati geostrategici, sia come produttori di petrolio o come barriere per frenare le migrazioni da Sud a Nord.

Tenendo conto di tutto questo, non si può dire che vi era una particolare predisposizione da parte dell'Europa e degli Stati Uniti a sostenere i movimenti democratici nel mondo arabo. Bisognerebbe piuttosto dire che i cambiamenti in corso sono avvenuti nonostante il sostegno accordato fino a poco tempo fa dai paesi europei e dagli Stati uniti ai regimi dittatoriali nei paesi islamici.

Ora, alcuni paesi occidentali stanno cercando di salire su un treno in corsa. Resta però da vedere se il loro sostegno è dovuto al desiderio di giungere ad una reale democratizzazione dei paesi islamici o al fatto che ormai non possono più fare a meno di appoggiare i movimenti democratici. swissinfo.ch: Per ora, due paesi sono riusciti a rovesciare i loro regimi dittatoriali. A suo parere, si istaurerà un nuovo tipo di contratto sociale in Tunisia e Egitto?

M.K.: È ancora troppo presto per prevederlo. Non sono un indovino, e nessuno lo è. Di certo, in futuro bisognerà tener conto in questi paesi delle rivendicazioni provenienti dalla base, rivendicazioni di dignità, giustizia, democrazia e libertà. E, per fare questo, sono necessari cambiamenti radicali, tra cui una ridefinizione dei diritti dei cittadini, del patto sociale, del buon governo, dei rapporti tra le classi sociali e tra uomo e donna, delle relazioni tra la politica e la religione.

swissinfo.ch: Per riguarda proprio la religione: quale sarà il suo posto in questa nuova configurazione?

M.K.: La questione si porrà in ogni caso. Difficile però sapere se verrà posta in termini ideologici, vale a dire come un riferimento assoluto, destinato ad ispirare i regimi politici. Penso che entrerà piuttosto come riferimento culturale, come riferimento a una tradizione. Perché, se ho ben capito quello che sta accadendo attualmente nel mondo arabo, non si tratta di una rivoluzione simile a quella avvenuta nel 1978-79 in Iran, in cui il riferimento fondamentale era l'Islam.

swissinfo.ch: Per concludere, lei ha affermato che è in corso una "rottura antropologica" nella storia di questi popoli. Cosa intende esattamente?

M.K.: Intravedo almeno tre tipi di cambiamento. Il primo è semplicemente che la religione – anche se è presente e rappresenta ancora un simbolo importante nel mondo arabo – non viene più utilizzata come fonte ideologica per determinare il patto sociale. Tutti i regimi arabi, "laici" o meno, hanno usato la religione per rafforzare il loro potere e la loro legittimità. Hanno preso in qualche modo in ostaggio la religione. Mi sembra che la religione stia prendendo la sua giusta collocazione, emancipata da tentativi di manipolazione.

Un altro punto importante è l'emancipazione delle donne. Durante le manifestazioni, le donne erano presenti nello spazio pubblico, così come sono presenti nella società civile, velate o meno. Ciò mostra, tra l'altro, che l'emancipazione può essere raggiunta per vie diverse da quelle seguite in Occidente. Ritengo che ormai possiamo soltanto muoverci verso un rafforzamento della parità tra uomini e donne.

Ciò che mi sembra altrettanto importante, quando parlo di rottura antropologica, è il rapporto con la violenza. La gente è scesa disarmata a manifestare per le strade. La popolazione ha risposto alla violenza strutturale, dittatoriale, simbolica ed economica, di cui ha sofferto, con un movimento di nonviolenza. Tutto ciò è una prova di civiltà e dimostra la una capacità dei cittadini di farsi carico del proprio destino, per non essere più manipolati. Né da dittatori, né da presunti salvatori e neppure da coloro che spingono verso una fuga in avanti, alla ricerca di soluzioni miracolose.
Abdelafidh Abdeleli, swissinfo.ch
Traduzione di Armando Mombelli

Libia: "pronti a riforme, ma Gheddafi resta"; e il rais riappare. 08:16 05 APR 2011
(AGI) - Tripoli, 5 apr. - Il governo libico e' pronto a organizzare le elezioni e a riformare il suo sistema politico, ma Muammar Gheddafi deve restare, perche' e' una figura unificante dopo quattro decenni di potere: lo ha fatto sapere il governo di Tripoli. "Potremmo avere qualsiasi sistema politico, eventuali modifiche alla Costituzione, qualunque cosa, ma (Gheddafi) deve continuare a rimanere al potere. Ne siamo convinti", ha detto un portavoce del governo, nella notte. Intanto il colonnello e' riapparso in pubblico: dopo giorni di totale black-out, la tv di Stato libica ha trasmesso immagini che ritraggono Muammar Gheddafi mentre saluta alcuni sostenitori dal suo complesso bunker di Tripoli di Bab al-Aziziyah e che alza la mano in segno di vittoria. Il portavoce del governo ha aggiunto che nessuna condizione potra' essere imposta dall'estero, anche se il Paese e' pronto a discutere proposte per portare piu' democrazia, trasparenza, liberta' di stampa e combattere la corruzione. "Chi siete voi -ha detto- per decidere che cosa devono fare i libici? Perche' (le potenze occidentali) non dicono che spetta al popolo libico decidere dove stare o andare, decidere se avere un diverso sistema politico o no?".

La Francia bombarda la Costa d’Avorio
04 aprile 2011 Abdijan - Improvvisa svolta di guerra in Costa d’Avorio dove gli elicotteri della missione Onu (Onuci), affiancati da quelli della missione francese `Liocorno´, hanno lanciato oggi pesanti raid militari ad Abidjan con l’obiettivo dichiarato di neutralizzare le armi pesanti utilizzate dai fedelissimi di Laurent Gbagbo, il presidente uscente che si rifiuta di lasciare il potere, contro i civili. Secondo quanto riferito da testimoni e da fonti Onu ad Abidjan, gli elicotteri francesi hanno colpito il campo militare di Agban, una delle basi dei fedelissimi di Gbagbo.

Mentre secondo altre testimonianze, un altro accampamento pro-Gbagbo, quello di Akouedo, è stato colpito da missili sparati da elicotteri delle Nazioni Unite. Questi ultimi hanno anche sparato contro il palazzo e la residenza di Gbagbo ad Abidjan.

L’operazione militare è, secondo l’Onuci, legittima. Ma da Parigi un consigliere di Gbagbo ha affermato che i raid sono «illegali» e costituiscono di fatto «un tentativo di assassinare Laurent Gbagbo».

Il primo annuncio dell’attacco è stato fatto dalla Francia: in conformità con la risoluzione 1975 del consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Onuci (la forza delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio) «ha appena intrapreso una serie di azioni per neutralizzare le armi pesanti utilizzate contro i civili e il personale delle Nazioni Unite ad Abidjan», ha comunicato nel tardo pomeriggio la presidenza francese a Parigi. «Il segretario generale delle Nazioni Unite (Ban Ki-moon) - ha aggiunto l’Eliseo - ha chiesto il sostegno delle forze francesi a queste operazioni. Il presidente della Repubblica (Nicolas Sarkozy, ndr) ha risposto positivamente a questa richiesta e ha autorizzato le forze francesi a partecipare alle operazioni condotte dall’Onuci per la protezione dei civili».
«La Francia - conclude l’Eliseo - chiede lo stop immediato di tutte le violenze contro i civili. Gli autori di questi crimini dovranno risponderne davanti alla giustizia».

Proprio oggi sempre ad Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio, diverse persone, tra cui due francesi, sono state sequestrate da «uomini armati» che hanno fatto irruzione nell’hotel Novotel. La città è teatro da giorni di combattimenti tra i sostenitori del presidente vincitore delle elezioni di novembre, riconosciuto dalla comunità internazionale, Alassane Ouattara e il capo di stato uscente Laurent Gbagbo.
Inoltre il direttore generale della Ong (Organizzazione non governativa) Action contre la Faim (Acf), Francois Danel, ha confermato che «centinaia di persone sono state massacrate» alla fine di marzo a Duekouè, nell’ovest della Costa d’Avorio, e che «le violenze continuano». Il direttore di Acf è uno dei primi responsabili di una Organizzazione non governativa occidentale a trovarsi a Duekouè. «Ho incontrato diverse persone - ha raccontato - e mi hanno detto che non sono decine, bensì centinaia, le persone massacrate».

Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) aveva parlato di «almeno 800 morti» nella sola giornata del 29 marzo, mentre la Caritas aveva menzionato «un migliaio di morti o dispersi» a Duekouè fra il 27 e il 29 marzo. Secondo l’Onu, le stragi sono coincise con la presa di controllo della città da parte delle truppe di Ouattara, il presidente che oggi l’Onu ha deciso debba infine prendere il potere datogli dall’esito del voto dello scorso novembre. Oggi, da Bruxelles, la commissaria Ue per gli aiuti umanitari, Kristalina Georgieva, aveva fatto un appello a Ouatarra e a Laurent Gbagbo per «proteggere i civili» ed evitare che la Costa d’Avorio «scivoli ancora di più verso la guerra civile». Ma a centinaia, uomini, donne e bambini, sono già fuggiti dalle loro case ed hanno attraversato il confine con la Liberia per cercare di sottrarsi a violenze indiscriminate.

Parmalat, Francia: “Il decreto antiscalate? Discriminatorio di fatto”
April 5, 2011
Secondo una fonte del Ministero degli Esteri francese, “il decreto antiscalate di Tremonti non è contrario al diritto comunitario”, i due mesi di tempo in più ai Cda per convocare le assemblee per l'approvazione dei bilanci o il rinnovo dei vertici sono, infatti, uguali per tutti, “ma - osservano da Parigi - vista la tempistica, può sembrare discriminatorio di fatto”.
Polemiche infondate. Un funzionario del ministero avrebbe rivelato ad alcuni giornalisti italiani che la Francia, in merito a tali mosse da parte dell’Italia, non ha intenzione di opporsi, ma spera lo possa fare la Commissione europea. Per quanto concerne, invece, le altre recenti manifestazione d’interesse di gruppi francesi a imprese italiane, dal Quai d'Orsay ci tengono a precisare che non sempre le polemiche sono fondate: ”Si è trattato di operazioni spettacolari - afferma la medesima fonte - ma è sbagliato pensare che si tratti di una strategia francese concepita dai poteri pubblici e condotta dal governo per impadronirsi dei gioielli italiani”. Sono, al contrario, “normali strategie di imprese: ogni volta è un'operazione diversa dall'altra” e “in molti casi il ricorso al partner francese è stato una soluzione di riserva”. Dal Ministero degli Esteri transalpino ricordano, quindi, che nel caso di Bulgari o Alitalia “si cercava il partner italiano”.
Polemiche infondate. Un funzionario del ministero avrebbe rivelato ad alcuni giornalisti italiani che la Francia, in merito a tali mosse da parte dell’Italia, non ha intenzione di opporsi, ma spera lo possa fare la Commissione europea. Per quanto concerne, invece, le altre recenti manifestazione d’interesse di gruppi francesi a imprese italiane, dal Quai d'Orsay ci tengono a precisare che non sempre le polemiche sono fondate: ”Si è trattato di operazioni spettacolari - afferma la medesima fonte - ma è sbagliato pensare che si tratti di una strategia francese concepita dai poteri pubblici e condotta dal governo per impadronirsi dei gioielli italiani”. Sono, al contrario, “normali strategie di imprese: ogni volta è un'operazione diversa dall'altra” e “in molti casi il ricorso al partner francese è stato una soluzione di riserva”. Dal Ministero degli Esteri transalpino ricordano, quindi, che nel caso di Bulgari o Alitalia “si cercava il partner italiano”.

Economia più concentrata. Alla luce di quanto affermano dal ministero, le manovre economiche delle aziende francesi sono dovute al fatto che la stessa Francia “ha un'economia più concentrata e, soprattutto nel settore del lusso, la potenza finanziaria francese è superiore a quella delle imprese italiane”. Da Parigi spediscono poi al mittente anche le accuse di protezionismo e di intervento dello stato a difesa delle imprese: “Il 42,3% del capitale presente nelle imprese del CAC40, il principale indice di borsa francese, è straniero” e “lo stock di investimenti stranieri rispetto al Pil è del 42% in Francia, del 21% in Germania e del 19% in Italia”. Dal Quai d'Orsay, infine, replicano alle illazioni dell’Italia in merito al provvedimento francese anti-Opa del 2005. Quest’ultimo, fanno sapere da Parigi, “prevede l'obbligo di autorizzazione governativa per aziende di 11 settori, ma sono settori strategici come la difesa, la sicurezza nazionale e l'ordine pubblico. Se altri stati vogliono fare un decreto del genere, magari per altri settori,- concludono dal ministero - possono negoziarlo con Bruxelles”.
Mauro Sedda

Udin. Reati fiscali, indagato Calligaris che contrattacca: «Io vittima»
di Luana de Francisco
Maxi-inchiesta della procura di Udine, oltre al presidente coinvolti altri industriali friulani. Il gruppo di Manzano cita una società di consulenza e una banca svizzera: ci hanno nascosto i rischi
UDINE. Il presidente della Confindustria regionale, Alessandro Calligaris, risulta tra le persone indagate dalla Procura di Udine, nell'ambito di una maxi-inchiesta su presunti reati fiscali. Tutti pezzi da novanta dell'imprenditoria friulana - nel registro degli indagati comparirebbero cinque o sei nomi "eccellenti", più quello di un noto commercialista -, finiti nel mirino della Guardia di finanza, per avere eluso le tasse - questa l'ipotesi accusatoria - attraverso una serie di operazioni di "stock lending" tra il 2005 e il 2006.

Partite diversi mesi fa, le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Raffaele Tito e dal sostituto procuratore Lucia Terzariol, dovrebbero concludersi a giorni. Il tempo di perfezionare il capo d'imputazione, che dovrebbe ipotizzare la violazione dell'articolo 3 (dichiarazione fraudolenta) o, in alternativa, dell'articolo 4 (dichiarazione infedele) della "Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto", e le notifiche agli indagati saranno fatte partire.

Calligaris, che è coinvolto nell'inchiesta in qualità di presidente della Calligaris Spa di Manzano, però, ha giocato d'anticipo. E, qualche settimana fa - dopo l'interrogatorio davanti al pm Tito -, è passato al contrattacco. Deciso non soltanto a dimostrare la propria innocenza, ma anche a ottenere il risarcimento del denaro perso e dei danni patiti, con l'operazione finanziaria finita, l'estate scorsa, al centro dei controlli dell'Agenzia delle Entrate prima e della Guardia di finanza poi.

Assistito dagli avvocati Giuseppe e Massimiliano Campeis, il presidente degli industriali ha scelto a sua volta le vie legali, presentando un atto di citazione contro la stessa società di consulenza milanese, la Scf - Advisor in structured corporate finance spa, e contro la stessa banca svizzera, la Clariden leu ag, successore della Bgp sa, che lo hanno fatto finire nei guai. Obiettivo: fare accertare e dichiarare al tribunale civile la nullità o l'annullamento dei contratti stipulati con le due società nel maggio del 2005, ottenere la restituzione dei quasi 5 milioni 800 mila euro corrisposti per quell'operazione e farsi riconoscere il diritto a un risarcimento danni quantificato in 3 milioni di euro.

Al centro della vertenza, un contratto di cosiddetto stock lending, operazione assai diffusa tra il 2005 e il 2006 e che consiste nel prestito di un pacchetto di titoli contro il pagamento di una commissione. Prodotto che a Calligaris fu proposto, appunto, dalla Bgp - e, più in particolare, dal suo legale rappresentante, ingegner Stefano Botti, nome di spicco negli ambienti finanziari italiani e non solo - e dalla Scf e che si tradusse nell'acquisizione a mutuo, da una finanziaria con sede nella Repubblica ceca, di 89 mila azioni di una società portoghese.

«Una vera e propria truffa», secondo lo studio Campeis, che nella citazione ha insistito sull'«assenza assoluta di buona fede» da parte dei proponenti e sulla mancata comunicazione rispetto al «grado di rischiosità» del prodotto.

«Nel caso peggiore - era stato assicurato alla Calligaris - il danno economico sarebbe stato compensato da benefici fiscali, essendo possibile spesare l'intero costo nell'esercizio. In caso di successo, invece, i dividendi incassati, al 95%, non avrebbero dato luogo a tassazione».

Di tutt'altro avviso l'Agenzia delle Entrate, che, carte alla mano, lo scorso luglio evidenziò la «contraddittorierà, l'illogicità e le incongruenze» del contratto di stock lending, definì l'operazione «inverosimile», parlò di contratto «concluso in frode alla legge» ed eccepì «l'indeducibilità a fini Ires di 5.217.440 euro». Tutti elementi poi confluiti nei faldoni che raccolgono le carte dell'inchiesta aperta dalla Procura. E che, nella sostanza, gli inquirenti avrebbero riscontrato e contestato a tutti gli indagati, ipotizzando un'elusione fiscale per milioni di euro.

Treviso. Il Carroccio al vertice di Ascopiave
A Treviso Zugno al posto di Salton (Pdl). Azzurri spiazzati. di Giampiero Di Santo. La Lega è pronta a farlo fuori e a sostituirlo alla presidenza di Ascopiave, la società energetica quotata in Borsa che conta tra i suoi azionisti 93 comuni della Marca Trevigiana, con Fulvio Zugno, assessore del bilancio di Treviso e uomo di fiducia del segretario regionale del Carroccio, Gian Paolo Gobbo, e manager dai mille incarichi.

Ma Gildo Salton, attuale numero uno di Asco Holding e già amministratore delegato di Ascopiave, oltre che longa manus del Pdl in azienda secondo molti ha giocato di anticipo.

Con un nuovo contratto a tempo indeterminato che dovrebbe garantirgli, come direttore generale di Ascopiave, uno stipendio lordo di 230.000 euro l'anno e soprattutto, nel caso in cui il Carroccio voglia dargli subito il benservito senza giusta causa, una liquidazione, contributi previdenziali e annessi e connessi compresi, di circa 2 milioni di euro. Una sorta di assicurazione per Salton, quella decisa dal consiglio di amministrazione che lo scorso 28 gennaio ha dato all'unanimità (il manager si è astenuto) il via libera al contratto. Il cda ha deciso che Santon, come direttore generale, avrà diritto a uno stipendio di 230.000 euro, cioè di 70.000 euro superiore rispetto a quello che gli era stato garantito come amministratore delegato. Sarebbe un vero blitz,insomma, quello deciso dai consiglieri di amministrazione. Ed è per questo che Salton, sostenuto dal Pdl trevigiano, sarebbe entrato in conflitto con la Lega, che il 28 aprile prossimo, grazie all'intervento dei comuni soci, quasi tutti in mano al Carroccio, lo sostituirà con Zugno. Non che la decisione non abbia scatenato polemiche furibonde sia per la morsa ferrea stretta dalla politica su un'azienda quotata in borsa, sia per il fatto che Zugno, oltre che nella giunta comunale di Treviso, è anche impegnato in una serie di incarichi non certo di secondo piano. È componente (retribuito) del collegio dei sindaci di Ascotrade, del collegio dei sindaci dell'Ulss 8 Asolo-Montebelluna-Castelfranco, del collegio dei sindaci della Camera di commercio e del consiglio di amministrazione di Consorzio energia Veneto. Con la nomina alla presidenza di Ascopiave arriverebbe al sesto incarico pubblico, come spiega il blog «Un'altra Treviso» e come ha sottolineato il Pd attraverso il candidato alla provincia Floriana Casellato: «È scandaloso che il comune di Treviso, che non è socio Ascopiave, piazzi alla presidenza un suo assessore: pensi piuttosto ai disagi che l'AimGas sta creando nel capoluogo. Siamo di fronte alla solita Lega acchiappa-poltrone, a un'ignobile occupazione di potere». Il Pdl non sa invece come reagire alla mossa della Lega. I coordinatori di Treviso, il senatore Mauro Castro e il deputato Fabio Gava, nominati nel luglio scorso con la benedizione del ministro del lavoro Maurizio Sacconi, sono rimasti spoiazzati e hanno convocato un vertice urgente per decidere le contromosse. «Sono senza parole», ha detto Gava con riferimento alla professione di Zugno, commercialista: «Non basta saper leggere i bilanci per guidare l'Ascopiave: bisogna saperli fare». Salton, dal canto suo, non ha protestato: «Sono a disposizione: Zugno è da anni in Ascotrade, lo conosco, lavoreremo bene. Superliquidazione se mi tolgono la direzione? Balle».Certo è che per il Pdl di Treviso il colpo assestato dalla Lega non sarà assorbitro facilmente. Gli azzurri, nella provincia, hanno perso peso e potere dopo le ultime elezioni regionali, tanto che Gava e Castro, nelle loro dichiarazioni successive alla nomina a coordinatori, erano stati chiari: «Dobbiamo puntare a salire nelle prossime provinciali dal 15% al 20% dei consensi», aveva detto Castro. «Inoltre dovremo lavorare in modo unitario per trovare gli interpreti migliori nell'interesse del territorio», aveva aggiunto. Gava aveva sottolineato la necessità che il Pdl «riprenda un percorso interrotto con le ultime elezioni regionali, e tornare così ad avere un ruolo guida nella politica del territorio». Ma per ora il pallino sembra saldamente nelle mani della Lega. Che sul colosso del gas punta per compensare, con i dividendi distribuiti ai comuni azionisti, i tagli di bilancio imposti ai sindaci dalle manovre del governo centrale.

Treviso. «Troppe tasse, chiudo e vado all'estero». S.Polo. Dal Bò in Consiglio: zero investimenti contro la crisi. di Alessandro Viezzer. SAN POLO. «Ho intenzione di dimettermi, visto che non c'è la volontà qui a San Polo di stipulare intese sui servizi in convenzione con altri Comuni. Sono scoraggiati». E' stato risoluto Paolo Dal Bò, consigliere di minoranza della lista «San Polo Viva, Pdl, Udc», in consiglio comunale, durante la discussione sullo stanziamento dei fondi per il bilancio 2001. La discussione si è infiammata quando si è toccato l'argomento dei tagli alle spese e la diminuzione delle opere pubbliche. Il sindaco Vittorio Andretta ha assicurato che, pur in mancanza di fondi dallo Stato (circa 200 mila euro in meno i trasferimenti) non ci saranno tagli ai servizi. Paolo Dal Bò ha ricordato di avere un'azienda con 18 dipendenti. «Se chiudo allora ci saranno 18 famiglie in carico allo Stato - ha detto - Cerco di resistere, ma sto pensando di spostare l'attività all'estero. Sto aspettando di avere 650 mila euro per un lavoro che ho fatto dopo il terremoto a L'Aquila. Dobbiamo cambiare la politica e cercare di liberare le risorse per fare meglio. Troppe tasse». «Gli amministratori devono pensare a diminuire le spese dei Comuni, anche in fatto di gestione dei rifiuti - ha aggiunto - Niente che diminuisce oggi, ma tutto che aumenta. Vi avevo detto di stare attenti ai costi del lavoro. In questo periodo è un bollettino di guerra, con tante aziende che chiudono». Il sindaco Andretta ha ricordato come nell'ambito del consorzio del comprensorio Opitergino si stia dibattendo ogni settimana sul fatto di riunire i servizi, ma ci sono tuttora forti resistenze: «La tendenza è di chiudere i rubinetti delle spese e farci risparmiare - ha spiegato Andretta - L'unione dei servizi va bene ma non sempre punta al risparmio». Paola Buosi, assessore al bilancio, ha informato che il sindaco e gli assessori si sono ulteriormente diminuiti del 10% le indennità: il sindaco ha un'indennità di 1.050 euro, al posto dei 1150 dello scorso anno (a fronte dei 2.700 dettati per legge). Il vicesindaco prende 450 euro al posto di 500, mentre gli assessori 400 euro al posto dei 450 dello scorso anno.

Treviso. Ecco il maxievasore: Giovanni Bruttocao. Nel mirino del Fisco per 15 milioni. Lui: «No, sono 2. E non ho nessuna villa palladiana». Due mesi dopo, ha un nome il protagonista della maximulta per evasione fiscale: si tratta di Giovanni Bruttocao, fondatore nel 1984 della Data Clinica Sas, centro medico privato di Strada Ovest, nel capoluogo. Una delle attività che ha visto protagonista l'imprenditore trevigiano, chiamato dopo accertamenti a ripagare la bellezza di 15,7 milioni di euro al Fisco.

«Non ho ville palladiane come è stato detto o appartamenti sparsi, non ho nulla di tutto questo». Sono queste le prime dichiarazioni di Bruttocao non appena raggiunto ieri al telefono, deciso a passare successivamente a un secco «no comment» una volta saputo che il suo nome, affiorato in queste ore, era stato confermato anche dall'avvocato Loris Tosi, suo rappresentante in tribunale, ancora oggi in lotta per scardinare l'impianto accusatorio imbastito dall'Agenzia delle entrate.

Secondo l'accusa dei giudici tributaristi emessa lo scorso dicembre dalla commissione tributaria provinciale di Treviso, l'imprenditore avrebbe presentato dichiarazioni dei redditi negli ultimi anni per circa 15 milioni.

Una sentenza mai digerita da Bruttocao, che ha rifiutato la conciliazione - come accade invece in genere - impugnando gli accertamenti emessi dalle Entrate in relazione agli anni 2002, 2003, 2004, 2005 e 2006, scattati per maggiori imposte Iva, Irap, Irpef, contributi previdenziali, addizionali regionali oltre ad una serie di sanzioni collegate (15 milioni 700 mila euro) e interessi sull'attribuzione di redditi dal lavoro autonomo per un importo complessivo superiore ai 16 milioni di euro, rilevate a seguito di movimentazioni bancarie in entrata e uscita, stipulazione di contratti di mutuo, oltre a vendite e acquisti di immobili.

Cifre assurde rispetto ai redditi reali dell'imprenditore, secondo i suoi legali, decisi a dare battaglia in tribunale, dove la Procura sta indagando a fondo per il reato di evasione fiscale.

Secondo il Fisco, infatti, dal 1998 al 2006 compreso, Bruttocao non aveva mai dichiarato alcun reddito pur essendo socio, nonché legale rappresentante, in diverse società richiamate negli avvisi, tra cui Data Clinica, di cui il padre Ettore risultava socio, oltre alla Area Medica di via Bertolini 42, sempre a Treviso.

Tutte circostanze confermate dal suo avvocato, che attesta la mancata dichiarazione dei redditi «ma per un importo complessivo di circa 2 milioni di euro, come dimostrato in una perizia che abbiamo presentato ma non è stata presa in considerazione».

Da parte loro, gli esperti dell'Agenzia delle entrate avevano messo nel calderone delle accuse prove evidenti, tra cui un patrimonio immobiliare comprensivo di una villa palladiana del valore di 4 milioni di euro, fatto sconfessato a pieni polmoni da Bruttocao.

Tra le motivazioni portate a giustificazione dall'imprenditore e iscritte nella sentenza della commissione tributaria, si afferma che parte della movimentazione bancaria, e precisamente 457.508 mila euro per il 2002, 294.764 euro per il 2003 e 12.900 per il 2004, erano in chiaro, e quindi senza nulla da rilevare. Anche per questo aveva poi chiesto l'annullamento degli avvisi di accertamento.

Mantova. Un comitato d'affari a Mantovabanca
Chiesti 84 milioni al vecchio cda
Mantovabanca dà il via all'azione di responsabilità nei confronti degli ex consiglieri, direttore generale e condirettore, e del collegio sindacale. La richiesta è pesante: 84 milioni di euro. Nell'atto si parla di fidi facili, mentre il vecchio cda viene definito un comitato d'affari. di Corrado Binacchi
MANTOVA. Un conto salatissimo, a sei zeri, da far pagare - con il vincolo della solidarietà - a chi «ha ripetutamente e gravemente violato le disposizioni normative che presiedono all'esecuzione degli obblighi affidati».

Fuor dal burocratese, la mossa dei commissari di Mantovabanca si traduce in una richiesta di risarcimento danni stratosferica, da 84milioni e 300mila euro, indirizzata agli ex vertici dell'istituto di credito finito nella bufera un anno fa. Prima la sospensione del direttore generale e del condirettore, poi il loro siluramento.

Infine le dimissioni collegiali del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale, alla vigilia di un'assemblea che - siamo al maggio 2010 - avrebbe dovuto approvare un bilancio con un buco da 26 milioni di euro (passivo in larga parte segnato dalle svalutazioni dei crediti, legate alle operazioni oggi nel mirino). Assemblea poi saltata visto il commissariamento della Bcc da parte del ministro dell'Economia, su proposta di Banca d'Italia.

Prese in mano le redini dell'istituto, i commissari straordinari, Vittorio Donato Gesmundo e Claudio Puerari, hanno da una parte continuato l'ordinaria attività della banca al servizio dei clienti, e dall'altra studiato la strategia per far pagare a chi era ai vertici dell'azienda il conto.

I rilievi, pesantissimi, sono circostanziati e documentati passo passo con l'ausilio del rapporto che ha chiuso l'ispezione di Banca d'Italia, anche se ovviamente dovranno essere provati davanti al giudice in quella che si annuncia come una lunga battaglia legale (la prima convocazione in aula è per metà aprile).

Nell'atto di citazione, 250 pagine che la Gazzetta di Mantova ha letto, gli avvocati di Mantovabanca parlano di «livello di negligenza, imprudenza e o imperizia delle condotte poste in essere da un lato, il conflitto di interessi dall'altro, che comportano di per sè l'imputabilità ai consiglieri di amministrazion e ai sindaci delle perdite operative che la banca ha registrato a causa di anni di prolungata mala gestio».

L'atto di citazione riprende, nella lunga premessa, la denuncia del 2008 di Alberto Scandolara, ex consigliere di amministrazione poi dimessosi. È lui a muovere le prime accuse di cattiva gestione ai vertici della banca, e di omessi controlli da parte dei sindaci. Ma gli avvocati dello studio di Firenze Bigliardi, Pabis Ticci & Associati, riprendono anche i verbali della precedente ispezione di Palazzo Koch, che avevano rilevato come la denuncia di «gravi anomalie nella conduzione del comparto del credito» fosse rimasta inascoltata.

«L'azione di responsabilità - scrivono i legali nell'atto di citazione - trova il suo fondamento nelle anomalie gestionali riscontrate dall'analisi degli ispettori di Banca d'Italia e, successivamente, dall'attività dei commissari che sono intervenuti nella gestione». Un centinaio le singole posizioni passate al setaccio (gli stessi crediti già fortamente svalutati lo scorso anno dal vecchio consiglio in conclusione dell'ispezione di Banca d'Italia) per ricostruire l'entità economica del danno che gli ex vertici avrebbero causato alle casse dell'istituto di credito. Una dozzina, invece, le più importanti in termini di volumi e di presunte irregolarità, quelle passate ai raggi X.

Altrettante le presunte anomalie gestionali con violazione delle regole di sana e prudente gestione messe nero su bianco dagli avvocati. Si va dalla «concessione di credito a soggetti colpevoli di illeciti penali e tributari» alla «disinvolta erogazione del credito ad imprese in cui alcuni esponenti della banca (il condirettore generale, il presidente del collegio sindacale e il consigliere Carra) avevano rilevanti interessi» fino all'«errata impostazione della valutazione circa il merito creditizio».

E, ancora, «l'assunzione di rischio imprenditoriale improprio» (finanziando potenziali speculazioni dei clienti e andando ben oltre il ruolo della banca) e «il sistematico ribaltamento del risultati dell'istruttoria senza motivazioni tecniche adeguate, oltre all'avversione all'avvio di azioni legali contro i debitori».

Non solo. Secondo il pool di legali che assiste i commissari di Mantovabanca, la vecchia gestione sarebbe responsabile anche di «impropria e sospetta rapidità dell'analisi istruttoria». «Pratiche di finanziamento passate in direzione - scrivono ancora gli avvocati - che si chiudono in pochi giorni se non in poche ore», senza passare per i necessari approfondimenti istruttori.

Mantova. Soldi sulla parola e bilanci creativi
Ecco la denuncia che chiama in causa gli ex dirigenti e consiglieri d'amministrazione della banca. Soldi concessi sulla parole e bilanci creativi: così gli imprenditori del mattone avrebbero ottenuto prestiti impossibili e condizioni di favore. Nell'atto si parla di intreccio di relazioini, affari e finanza allegra che potrebbero interessare anche la Procura. di Corrado Binacchi
«C'erano divergenze strategiche sulla gestione del credito». Fa sorridere, a un anno di distanza dal congelamento - seguito poi dal licenziamento - del direttore generale e del condirettore, la spiegazione ufficiale con cui l'ex cda di Mantovabanca aveva tentato di gettare acqua sul fuoco dell'incendio che stava divampando ai vertici dell'istituto. Una banca che oggi batte cassa, chiedendo a chi allora stringeva le redini il risarcimento dei danni.

Passando sotto la lente di ingrandimento una dozzina di robusti affidamenti (su oltre un centinaio presi in esame) a noti imprenditori mantovani e no (molti del settore immobiliare), il pool di legali che assiste i commissari di Banca d'Italia punta a dimostrare un preciso teorema.

Se il direttore generale Giuseppe Roveri e il condirettore Fabio Vernizzi sono responsabili delle perdite (certe e potenziali) di Mantovabanca, non di meno deve rispondere l'ex consiglio di amministrazione che ha avallato senza fiatare quelle decisioni. E un ruolo di primo piano avrebbe avuto il collegio sindacale per gli omessi (o scarsi) controlli sull'operato dell'esecutivo dell'istituto di credito, La fiducia, in parola, che spesso ha la meglio su bilanci, documenti contabili, contratti preliminari e perizie.

Imprenditori amici
Il nome dell'imprenditore - amico o vicino - che spesso vale di più dei pareri negativi dei responsabili fidi di filiale e degli analisti. I legali non vanno per il sottile e si spingono talmente in là da immaginare, all'interno dei vertici della banca, una sorta di «comitato d'affari». Mettendo nero su bianco che - al di là del contenzioso civile - potrebbe essere la Procura a far piena luce sul presunto intreccio di relazioni, affari e finanza allegra.

Su una delle operazioni della Lombarda Iniziative Immobiliari (con sede a Casaloldo) i legali denunciano il presunto conflitto di interesse di Carlo Zaltieri. La società acquista da un'altra immobiliare (che ha ottenuto un mutuo ipotecario dal banco di San Giorgio) un condominio a Laigueglia (in provincia di Savona). Secondo la ricostruzione dell'analista fidi, «la società si rivolge a Mantovabanca per avere un fido da 1,5 milioni su indirizzo di Zaltieri».

Conflitti d'interesse
Il commercialista di Casaloldo svolge attività di consulenza per la Lombarda ma è anche presidente del collegio sindacale della banca. Nella pratica, secondo l'atto di citazione, mancano «le visure dell'ufficio tecnico, i progetti e i permessi per costruire». Non solo l'istituto accorda il fido, ma poco dopo lo aumenta fino a 2,5 milioni nonostante nella pratica fossero finiti «due distinti preliminari relativi alla stessa unità immobiliare, con prezzi differenti e firme palesemente difformi». Per quella singola posizione la svalutazione del credito ha portato, secondo i legali dei commissari, a una perdita di 2,6 milioni.

Altri affidamenti finiti del mirino dei commissari sono quelli alla Barim (l'immobiliare di Mattia Bardini finita poi in concordato preventivo), per operazioni immobiliari a Porto Mantovano, a Belfiore e a Ospidaletti, in Liguria. «Dal conto affidato di Barim - scrivono i legali per dimostrare il presunto conflitto di interessi - in gennaio 2009 partono due bonifici da 32 e 25mila euro, indirizzati a Fin Pro Service, società riferibile alla famiglia del condirettore Fabio Vernizzi». La visura camerale indica come amministratore unico Andrea Vernizzi.

Altri nomi, altre storie. Capo Mastro srl (società che fa capo all'imprenditore della ristorazione Luca Mastruzzi) che ottiene in fiducia (il responsabile area crediti scrive nella pratica «le capacità imprenditoriali di Mastruzzi sono positive») un affidamento da 6,5 milioni di euro per acquistare un terreno a Corte Bignotte (a Romanore). A finanziamento erogato, vengono pagati 3,1 milioni in assegni bancari allaAV Rubino (della famiglia Vernizzi), per un'operazione chiusa con la Capo Mastro a Desenzano, 350mila euro in assegni circolari sempre alla AV Rubino, 160mila euro a D'Agency e Fin Pro Service (famiglia Vernizzi) e 47mila euro al geometra Carra, futuro componente del cda di Mantovabanca.

Mantova. Il costruttore investiva alle Seychelles. Sotto la lente degli analisti anche gli affidamenti a Coghi, Scattolini e Pasino-Azzoni. MANTOVA. Tre nomi di spicco del settore costruzioni, Edilizia Ferrari, Coghi e Scattolini. E un altro big, ma del comparto trasporti, Pasino e Azzoni. Intestatari di conti, mutui e affidamenti che vengono analizzati nell'atto di citazione contro gli ex vertici della banca. Del gruppo di Suzzara i legali segnalano, come sospetto, un mutuo fondiario da 850mila euro che in 48 ore passa da pratica di fido a delibera del cda. Contestato anche un finanziamento per una speculazione alle Seychelles. Delle posizioni Circolo Cittadino (ristrutturazione di un complesso di pregio in corso Umberto) e Concreta (complesso di loft e villette a Belfiore) gli avvocati non contestano nè la bontà delle iniziative imprenditoriali né la solidità delle famiglie. I problemi nascono dall'eccessiva concentrazione di credito sulle singole operazioni: 5,7 milioni per Circolo Cittadino (già ottenuto il decreto ingiuntivo e la nuova ipoteca sugli immobili, perdita stimata per la banca di 2,5 milioni) e oltre 10 per Concreta (pratica passata in sofferenza nel settembre del 2009, perdita stimata per l'istituto in 4,1 milioni).

E Pasino e Azzoni? Affidamenti schizzati del 500% in 14 mesi (da 900mila a 4,6 milioni) con l'ok del condirettore senza ascoltare le criticità sollevate dall'area crediti. La perdita prevedibile, secondo la banca, è di 4,4 milioni. Restando all'estero segnalata anche la pratica Gamar (commercio di legnami e macchinari in Romania e Bosnia). La società è fallita, il titolare arrestato nel 2007.

Emilia. La Lega vuol mangiare la piadina
È cominciata la campagna per l'«occupazione» dell'Emilia
di Giorgio Ponziano. I leghisti emiliani hanno realizzato un film e lo stanno proiettando dove c'è la campagna elettorale. Il titolo è emblematico: «Occupiamo l'Emilia». È un viaggio-documentario dentro il Carroccio laddove prima vi era l'egemonia comunista, in questi anni erosa dai seguaci di Umberto Bossi, che hanno raggiunto percentuali a due cifre in molti Comuni delle province di Piacenza e Parma, hanno conquistato baluardi come Sassuolo (nel modenese) che dal dopoguerra non avevano avuto alternanza, adesso tentano il colpaccio a Bologna proponendo un proprio candidato, Manes Beranrdini, a capo della lista Lega-Pdl.

In 308 comuni dell'Emilia-Romagna su 348 comuni la Lega ha superato alle ultime elezioni regionali il 10% e in 34 comuni si è attestata tra il 20 e il 30%. Forte di tutto ciò, i verdi incominciano a lavorare anche sul piano economico e delle infrastrutture, per esempio stanno premendo perché l'aeroporto di Forlì si allei non con quello di Rimini, ma con Venezia in modo da costituire un'asse romagnolo-veneto. Ma la bandiera verde è stata issata soprattutto su due comuni emiliani ed è da queste trincee che i leghisti stanno andando all'arrembaggio e sperano di ottenere alle amministrative di giugno un risultato storico, uscendo dal Veneto e incominciando la marcia lungo la Penisola, almeno fino a Firenze. L'Emilia sta diventando quindi una regione strategica per Bossi & Co, che non a caso hanno imposto il loro candidato a Bologna e qui è stata mandata, come commissario e supervisore, Rosi Mauro, senatrice del Carroccio e braccio destro di Bossi. Ora c'è perfino il film che esalta le gesta del movimento verde, destinato a esaltare i militanti ma anche a dare fiducia agli elettori indecisi. È prodotto da Cinepadania, che ha tanto di simbolo (una macchina da proiezione accanto al simbolo verde della Lega) e ha messo il trailer su Youtube. Nel film, tra le ciliegine sulla torta c'è l'intervista alla figlia di un partigiano, ex sindaco Pci di Spilamberto, che dice: «Anche mio padre oggi sarebbe leghista».

Un lavoro organizzativo meticoloso che ha consentito al Carroccio due exploit fino a qualche anno fa inimmaginabili: il 35 % dei voti a Bettola, Piacenza, città natale di Pier Luigi Bersani, e il 30 % dei voti a Medesano, Parma. Quindi Medesano è diventato il fronte a Sud: 10.221 abitanti, uno su tre vota Lega. Prima il voto andava al centrosinistra.

Che qui la Lega faccia sul serio se n'è accorta anche Patrizia D'Addario, rea di essersi messa (anche) di traverso sulla strada di Silvio Berlusconi. Era stata invitata alla rassegna Ciccolandia, un'innocua fiera del cioccolato. Ma il sindaco è andato su tutte le furie e ha ufficialmente comunicato agli organizzatori «di aver fatto presente all'artigiano cioccolatiere che aveva annunciato l'arrivo della D'Addario, che la sua partecipazione ufficiale non è consona al tipo di manifestazione».

Quindi, i medesanesi non hanno potuto vedere la D'Addario, e poco male. Ben più grave è il fatto che il sindaco sia finito al centro di polemiche perché di fronte all'uccisione nella cittadina del boss della camorra Raffaele Guarino s'è limitato a commentare che « non viveva il paese».

Salvo poi la conclusione delle indagini: l'omicida è un campano, anch'egli legato alla criminalità organizzata, residente nell'amena cittadina.

«Il nostro successo?» spiega Roberto Corradi, consigliere comunale di Medesano ma anche consigliere regionale grazie al boom elettorale «Parliamo alla gente e siamo tra i cittadini, li ascoltiamo, discutiamo con loro. Certo, è quello che faceva il vecchio Pci, adesso loro hanno una classe dirigente chiusa, autoreferenziale, mentre in strada ci siamo noi e i voti li prendiamo noi, qui siamo partiti da zero e adesso un terzo degli elettori ci sceglie e ci apprezza».

La scommessa leghista è fare accadere all'ex-Pci in Emilia quanto in Veneto è capitato alla Dc : uno straordinario travaso di voti, là dal bianco fiore qui dal rosso, tutti raccolti dai verdi.

Non a caso, oltre al caso-Bernardini, che farà schizzare in alto la Lega a Bologna, a Rimini il Carroccio corre solo con Marco Casadei (che farà perdere il Pdl), mentre a Ravenna ha lasciato bisticciare ex forzisti e larussiani per poi scegliere un ex-Dc.

Ma la Lega già apre la partita delle deleghe
di Lina Palmerini
5 aprile 2011
«Un posto su otto! E siamo il secondo partito di governo!». In casa leghista il malumore resta anonimo ma non viene affatto dissimulato. E anche quando si parla della vittoria che hanno portato a casa – Giuseppe Orsi in Finmeccanica – sembra che non basti a rincuorare le ambizioni sbocciate durante questa partita delle nomine.
Le mire dei "padani" si erano infatti spinte molto in là al punto che ieri – alla chiusura dei giochi – si parlava apertamente di un bilancio in perdita per Bossi e i suoi. Una sconfitta che brucia perché, in questi rinnovi di primavera, la Lega c'era entrata con una certa baldanza, puntando a poltrone chiave che avrebbero determinato un suo upgrade nella geografia economica nazionale. Si era parlato non solo dell'amministratore delegato di Finmeccanica ma pure delle Poste e della presidenza di Enel con in ballo tanti nomi: Danilo Broggi e Roberto Castelli, Mauro Michielon e Gianfranco Tosi. Invece in attivo c'è solo un risultato, Giuseppe Orsi: ad dell'AgustaWestland, azienda di Finmeccanica con sede in provincia di Varese e che – anche in ragione territoriale – ultimamente è stato iscritto nell'area di influenza leghista. E, in particolare dei varesini Bossi-Maroni-Giorgetti.

Ma pure su quest'unica "bandierina", i leghisti frenano gli entusiasmi: «Una vittoria? I conti si faranno dopo», dicono. Già, perché come sibila un esponente leghista che ha seguito la partita-nomine da vicino, «Guarguaglini non va mica in pensione». Un modo per rimarcare che il timone di comando di Finmeccanica è ancora coperto da un punto interrogativo: quello delle deleghe tra presidente e amministratore delegato. Una partita che si aprirà ora e solo tra un mese si potrà dire se il Carroccio l'ha spuntata oppure no. Intanto la Lega mastica amaro e legge in questa sconfitta non solo il braccio di ferro tra Letta e Tremonti ma se la prende soprattutto con l'establishment nazionale, «quelli che hanno ispirato commenti giornalistici contro di noi indicandoci come i nuovi lottizzatori solo per tenerci ai margini», si sfoga un leghista.

Alla fine, il segno è passivo. E se il "sole della padania" brillerà (forse) in Finmeccanica, è invece decisamente tramontato alle Poste. È qui che il Carroccio sente davvero di aver perso la sua battaglia. E non solo per la posizione di amministratore delegato – per cui si puntava su Danilo Broggi, ad della Consip vicinissimo a Roberto Maroni – ma anche per il posto da presidente. Su quella sedia la Lega aveva sponsorizzato Mauro Michielon, nel consiglio di amministrazione di Poste da svariati anni, che non è riuscito a farcela. Eppure quello doveva essere un "cadeau" al partito veneto, in particolare al segretario regionale Gian Paolo Gobbo, trevigiano come Michielon, molto vicino a Bossi e al cosiddetto "cerchio magico" leghista. E invece non solo Michielon non l'ha spuntata ma addirittura è uscito dal cda, scalzato da un altro leghista veneto: il vicentino Antonio Mondardo, già assessore all'ambiente della provincia e pure vicepresidente, che mette insieme le varie fazioni venete Gobbo-Zaia-Tosi.

Il "colpaccio" alle Poste non è andato a segno, così come non sono andate a segno nomine in più nei consigli di amministrazione. Viene confermato Dario Galli in Finmeccanica e Gianfranco Tosi al Cda dell'Enel ma anche qui c'è un po' di delusione. Lui, che nella mappa leghista è un uomo vicino a Giorgetti, era uno dei nomi che girava per la presidenza di Enel e non era la prima volta. Ma anche questa volta niente da fare. Conferma pure per Paolo Marchioni all'Eni, vicino al Governatore del Piemonte Roberto Cota. Ma appunto le riconferme segnano un pareggio mentre la non-nomina di Roberto Castelli all'Enel segna un altro punto a sfavore. «Erano tutte chiacchiere giornalistiche messe in giro senza fondamento. Era chiaro che Castelli non sarebbe entrato in partita perché si sarebbe dovuto dimettere tempo prima dal governo», replica secco Massimo Garavaglia, senatore leghista della commissione Bilancio, uomo di fiducia di Giancarlo Giorgetti. Garavaglia fa riferimento alla norma sull'incompatibilità tra incarichi di Governo e in aziende di Stato togliendo così di mezzo un'altra sconfitta che molti hanno già messo in conto al Carroccio.

Insomma, tirando le somme, l'ad di Finmeccanica non basta per dire che la Lega ha vinto. «Non si lamentino Bossi e i suoi. Avere la guida di Finmeccanica equivale a tre ministeri. In più hanno anche l'Economia, visto che Tremonti è con loro, quindi possono dirsi soddisfatti». A parlare così ieri era Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl e molto vicino al premier, che respingeva preventivamente nuove rivendicazioni leghiste. Del resto, la tensione tra i due alleati è già alle stelle sugli immigrati e in vista delle amministrative. «Una competizione sana», precisa Garavaglia che sulle nomine respinge le accuse. «Non ci muoviamo con il Cencelli. La nostra logica è affidare i ruoli a chi è competente: è la logica per cui Orsi è in Finmeccanica». Una affermazione che strappa una risata a Bruno Tabacci. «Orsi leghista? Mi viene da ridere, è un manager affermato che non ha bisogno dei padani. Così come è assurdo aver battezzato Ponzellini come uomo della Lega», commenta sarcastico il deputato dell'Api e massimo esperto di economia e aziende di Stato. «Bossi – aggiunge Tabacci – è uscito da questa partita come ci era entrato: con la voglia di essere protagonista di tutto ma senza riuscirci». Se è vero si vedrà nella prossima puntata: quella delle deleghe.

POLTRONE LEGHISTE
Antonio Mondardo
È la new entry nel Cda delle Poste anche se la Lega "perde"
la battaglia per ottenere la presidenza. Leghista, 46 anni, già assessore all'Ambiente alla provincia di Vicenza, è stimato dai big del Carroccio veneto e mette insieme le varie fazioni Zaia-Gobbo-Toso. Nel Cda prende il posto di Mauro Michielon, leghista di Treviso
Gianfranco Tosi
Ingegnere, 63 anni, viene confermato nel cda dell'Enel anche se era tra i nomi "sponsorizzati" dal Carroccio per la nomina a presidente. Dal '93 al 2002 è stato sindaco di Busto Arsizio e subito dopo è approdato al consiglio di amministrazione dell'Enel. Molto vicino a Giancarlo Giorgetti, "dominus" della partita nomine per la Lega.

Le condizioni di Tunisi: «Rimpatri solo limitati»
Gerardo Pelosi. TUNISI. Dal nostro inviato
Sì ai rimpatri degli immigrati tunisini irregolari ma a patto che si realizzino su numeri limitati, praticamente con il "contagocce", in porti e aeroporti secondari e a telecamere spente, senza enfasi nei media. Sarebbero queste le condizioni che il primo ministro tunisino, Beji Caied Essebsi, avrebbe posto al premier italiano, Silvio Berlusconi e al suo ministro dell'Interno, Roberto Maroni volati ieri a Tunisi, per il rilancio della cooperazione tra i due Paesi nella gestione dell'emergenza immigrazione sulle coste italiane.
Un incontro che non ha prodotto la firma di alcun accordo ma che è servito a fissare alcuni principi guida per invertire una pericolosa tendenza che ha visto nelle ultime 11 settimane l'arrivo in Italia di ben 22mila migranti (quasi 20mila tunisini). Per tutta la giornata di ieri, mentre Berlusconi e Maroni avevano già fatto rientro a Roma, una delegazione del ministero dell'Interno è rimasta a Tunisi per negoziare i punti dell'accordo che potrebbe essere firmato oggi stesso dallo stesso Maroni e dal suo omologo, Habib Essid.
Più in particolare, il Governo italiano si è reso disponibile a mettere a disposizione delle autorità tunisine la sua esperienza perché, ha detto Berlusconi «il controllo delle coste sia capillare ed efficiente» con attrezzature e motovedette (75 milioni di euro la previsione di spesa) e un nuovo sistema di radar costieri (35 milioni di euro). Nello stesso tempo l'Italia ha preso atto che la ripresa economica in Tunisia dopo la "rivoluzione dei gelsomini" e in attesa delle elezioni del 24 luglio per l'Assemblea Costituente tarda ancora a manifestarsi. Di qui la disponibilità italiana a concedere una linea di credito di 75 milioni di euro per lo sviluppo delle piccole e medie imprese, 20 milioni per progetti di formazione professionale per i giovani e 100 milioni di euro per il sostegno alla bilancia dei pagamenti.
Si tratta di impegni in parte già annunciati e che rientrano nel quadro della cooperazione bilaterale come ha spiegato lo stesso Berlusconi dopo avere incontrato il presidente ad interim tunisino, Foued Mbazaa e il primo ministro, Essebsi. «Tra i nostri Paesi - ha spiegato Berlusconi - ci sono rapporti di grande amicizia che continueranno ad essere tali. C'è un importante interscambio commerciale, culturale e per il turismo. Sappiamo che c'è un'emergenza e un momento difficile per l'economia tunisina, con giovani che guardano all'Europa e alla sponda sud del Mediterraneo come a un Eldorado per cercare di crearsi una nuova vita dove c'è democrazia e libertà e questo è comprensibile».
Ma l'Italia guarda con preoccupazione agli effetti di questo "tsunami umano" che è frutto anche della grave crisi umanitaria creatasi alla frontiera tunisino-libica a Ras-Jdir (dove sono transitati dal 23 febbraio 170mila profughi di cui 30mila tunisini). Ecco perché l'11 marzo scorso il sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi aveva convinto il premier Essebsi ad accettare i primi rinmpatri, 500 persone a gruppi di 50 alla volta entro un mese. Poi il 25 marzo i ministri Frattini e Maroni avevano tentato di estendere almeno del doppio il numero dei rimpatri per arrivare almeno a 100 rimpatri giornalieri. Un tentativo proseguito ieri da Berlusconi e accettato, in linea di principio, dal primo ministro Essebsi ma a precise condizioni: che i gruppi siano limitati nei numeri, che i rientri avvengano in porti secondari, non certo a Tunisi, e al riparo dai riflettori e dell'attenzione dei media. Tutto questo per evitare che la questione migratoria possa scatenare nuove e pericolose rivolte giovanili che sarebbero fatali per la sopravvivenza di un fragilissimo esecutivo che ha l'unico compito di traghettare il Paese verso le elezioni dell'Assemblea Costituente.
Il primo ministro tunisino, Essebsi, nelle dichiarazioni pubbliche non ha parlato, tuttavia, di condizioni ma ha solo «confermato la comune volontà dei due Paesi di operare per rafforzare ancora di più le relazioni privilegiate che uniscono i due Paesi e i due popoli».

Lo tsunami umano e la generosità del Sud
05/04/2011
di GIANNI PITTELLA. vicepresidente vicario del Parlamento europeo
Prima Lampedusa, poi la Puglia e la Basilicata: il Mezzogiorno si prepara ancora una volta a rispondere con disponibilità e generosità a una richiesta di accoglienza che è stata trasformata, per una irresponsabile politica di propaganda governativa, in un’emergenza o, per dirla con il nostro presidente del Consiglio, in uno “tsunami umano’’. E’ evidente che davanti a un’ondata così inaspettata l’unica strada è allestire tendopoli in fretta e furia, per dare un tetto ai malcapitati, proprio come si fa, appunto, dopo un terremoto o uno tsunami. E’ bene allora sgombrare il campo da un equivoco inoculato nell’opinione pubblica da giornali e telegiornali governativi. In Italia al primo gennaio del 2011 erano presenti in Italia 4.563.000 stranieri, pari al 7,5% della popolazione totale, con un incremento, rispetto all'anno precedente, dell'7,45% (328.000 persone). Di questi 457mila sono marocchini, 107mila tunisini, 87mila egiziani. Nel 2009 secondo le stime per eccesso della Caritas gli immigrati non regolari (o “clandestini’’ secondo la definizione di reato infelicemente introdotta dal centrodestra per mettere definitivamente in ginocchio il sistema giudiziario al Sud), erano circa un milione. Complessivamente il governo ne ha regolarizzati senza troppi clamori più di settecentomila, consapevole che senza di loro il nostro apparato produttivo e di welfare ne uscirebbero paralizzati. Ogni anno arrivano sulle sponde europee del Mediterraneo circa 60mila migranti sui barconi. Un altro flusso, pari al 25%, passa approfittando delle frontiere aperte dei paesi Schengen e tutti gli altri entrano in modo regolare e poi si trattengono oltre la scadenza del visto di ingresso. La domanda è: perché e come l’arrivo di seimila persone a Lampedusa, seppure determinato da circostanze particolari, è stato trasformato in un paese di 60 milioni di abitanti, da sempre naturale porta d’ingresso d’Europa e che riesce normalmente ad assorbire oltre trecentomila persone l’anno, in un’emergenza? Perché non esistono strutture permanenti dove accogliere degnamente e rapidamente gli arrivati distinguendoli tra richiedenti asilo e migranti economici e trattandoli di conseguenza in base al diritto internazionale? Per fare tutto questo l’Ue ha stanziato per l’Italia oltre 75 milioni per gestire i flussi migratori nel solo 2011, partecipa con l’Agenzia Frontex al pattugliamento in mare, ma non può imporre ai singoli paesi di prendersi quote di immigrati supplementari senza un accordo tra i governi davanti a fenomeni giudicati dall’Italia straordinari. La politica adottata in questi giorni dal governo a marchio leghista è avvilente: mentre si digrignano i denti contro l’Unione Europea e gli immigrati, minacciati di essere rimpatriati senza troppi complimenti e lasciati a corto di viveri e di ricoveri, si permette che si disperdano nel territorio senza essere né identificati ne assistiti. Ricordo che precedenti governi riuscirono con poco clamore a dare accoglienza a 150mila profughi kossovari senza che scattasse lo stato d’emergenza nazionale, come sta facendo il ministro Maroni.

I sindaci del Carroccio: via sui B52
Paolo Bricco. MILANO. Gli amministratori locali e i vertici nazionali della Lega Nord si ricompattano sul l'emergenza immigrati e sul rifiuto di accoglierli. Tutti dietro a Bossi e a Maroni.
In pochi giorni si è ridotta a zero la distanza fra il "partito" dei sindaci del Carroccio e i dirigenti "romani" del movimento che si era creata negli ultimi mesi su alcuni temi cruciali, come la capacità di spesa degli enti locali e il rapporto con Berlusconi.
«Altro che ospitarli nelle strutture del nord, bisogna rimandarli in Tunisia sui B52 e basta», dice Sandy Cane, americana del Massachusetts e primo esponente di colore della Lega a diventare sindaco. Cane è sindaco di Viggiù, 5mila abitanti vicino a Varese. «I miei Stati Uniti hanno fondato la loro storia sulla capacità di integrare masse enormi di immigrati? Sì, ma era un altro periodo storico. Provi adesso a entrare illegalmente dal Messico in Arizona e poi vede cosa le succede. È un problema di spazi vitali. L'Italia non li ha. Se mi mandano mille tunisini a Viggiù, io mi sparo». E Lampedusa? «Lampedusa è una vergogna. Nemmeno il mio cane, che sta sul divano del salotto, viene trattato così. Bisogna soccorrerli e rifocillarli». E poi? «Beh, dopo vanno rimessi sui B52 e rispediti a casa».
I sindaci della Lega Nord non vanno molto per il sottile: la distinzione fra profughi e clandestini non incontra un grande favore. Massimo Bitonci, sindaco di Cittadella in provincia di Padova, emise nel 2007 l'ordinanza "anti-sbandati" con cui chiedeva, per rilasciare la residenza, dei documenti (per esempio la busta paga) che dimostrassero la capacità dello straniero di mantenersi da solo. Allora gli valse un avviso di garanzia, poi archiviato. Due anni dopo, le stesse richieste vennero incluse del decreto Maroni. «Sono tutti clandestini – sostiene Bitonci – ed è sbagliata la linea dei sindaci radunati nell'Anci di porre dei distinguo. Il presidente dell'Anci Chiamparino, di Torino, e il vicepresidente con delega all'immigrazione Zanonato, di Padova, sono entrambi del Pd. E la fanno troppo lunga sui rifugiati. Ma dove sono? Come fai a capire chi è un profugo politico e chi è un clandestino? Noi siamo contrari anche a Berlusconi che invita i comuni a prendersi una quota di questi qua». La paura di doversi prendere "questi qua" è molto forte fra gli amministratori leghisti. La giunta di Ghedi, in provincia di Brescia, ha deciso in passato di non concedere le case comunali agli stranieri. «La gente mi ferma per strada – sostiene il vicesindaco Gianluigi Boselli – hanno il terrore che gli immigrati possano essere radunati in una caserma vicino alla vecchia base missilistica di Montichiari, che è a cento metri dal nostro municipio. La linea Bossi-Maroni, per me, è ancora poco. A parte l'ordine pubblico, quanti lavori porterebbero via ai nostri compaesani? C'è una crisi tale che ormai le bresciane fanno i corsi per diventare badanti. Altro che usare gli immigrati per i lavori più umili...».
L'accelerazione impressa dal dossier immigrati cancella le sfumature fra le anime del mondo leghista. Diego Locatelli, sindaco di Brembate di Sopra, è insieme un uomo del Carroccio e un cattolico delle valli bergamasche. «Prima di questo esodo biblico – dice - non abbiamo mai lesinato gli aiuti alle famiglie, indipendentemente dalla religione e dalla nazionalità. L'importante è che fossero regolari. Ora, esiste senz'altro una differenza fra rifugiati e clandestini, ma ci vuole un bello sforzo per capirlo caso per caso».
Così, si ritorna al vecchio slogan leghista degli anni Ottanta: "aiutiamoli a casa loro". «Non c'è dubbio – conclude Locatelli – che occorra pressare il governo tunisino perché mantenga i patti sottoscritti. Le proporzioni sono diverse, lo so, ma è sempre una questione di regole. Noi, nel nostro piccolo comune, abbiamo deciso di non fare alcuna differenza sugli aiuti per le rette scolastiche e per i buoni mensa. Ora, se c'è un patto, che i tunisini lo rispettino. Sennò, se li riprendano tutti».

Immigrazione, Bossi: permessi temporanei
05 aprile 2011 Roma - Un permesso di soggiorno temporaneo per i migranti, concesso agli immigrati provenienti dal Nordafrica in modo da permettere loro di raggiunge altri paesi europei: è questo l’accordo raggiunto nella notte nel corso del vertice a Palazzo Grazioli tra Silvio Berlusconi e la Lega Nord.

È «la quadra», come l’ha definita Umberto Bossi, che permette di trovare una soluzione rapida all’emergenza causata dall’arrivo di migliaia di persone dalla Tunisia. Soprattutto una soluzione di compromesso che, almeno per il momento, evita tensioni all’interno della maggioranza sulla gestione dell’emergenza.

Il governo sta lavorando su più fronti per evitare che il flusso continuo di extracomunitari in Italia possa “deflagrare”, creando problemi alla stessa tenuta della maggioranza: il premier e il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, si sono spesi in prima persona, andando ieri in Tunisia per trovare un accordo che blocchi definitivamente le partenze dei barconi di immigrati dalle coste nordafricane verso l’Italia.

L’intesa di ieri sera sembrerebbe tenere conto della posizione di Berlusconi, che ha ricordato che l’Italia ha l’obbligo della accoglienza, ma anche della «soluzione» prospettata da Bossi, che spinge a inviare gli extracomunitari fuori dai confini nazionali, o almeno “padani”: le elezioni per le Amministrative sono vicine (si vota a maggio) e l’aumento di immigrati al Nord spaventa il Carroccio. Parlando nei giorni scorsi con i suoi, il Senatur non ha nascosto una forte irritazione nei confronti dell’alleato a causa di quelle posizioni, giudicate troppo morbide, sulla questione immigrati. Ma nel Pdl riprende vigore la fronda “sudista”, che teme una preponderanza della componente nordista del governo: 62 parlamentari, in una lettera a Berlusconi, hanno chiesto di distribuire le tendopoli «in modo equo e proporzionato sull’intero territorio nazionale, senza continuare a gravare soltanto sul Sud».

Nel mezzo c’è Roberto Maroni: il ministro dell’Interno deve fare di conto con il suo ruolo istituzionale, che gli impone di rappresentare «l’intero territorio nazionale», e con le pressioni interne di partito, che non escludono trasferimenti di immigrati al Nord. Nel Carroccio risuonano ancora le parole pronunciate da Bossi la scorsa settimana: «Fora di ball», aveva sentenziato il Senatur, prefigurando nuove ondate di immigrati anche dalla Libia. Anche il sindaco leghista di Treviso, Gianpaolo Gobbo, dà voce alla base del partito: «In Veneto non c’è posto per nessuno». È proprio la frizione che temono gli alleati del Pdl. La lettera dei 62 pidiellini è chiara: le tendopoli vanno distribuite sull’intero territorio nazionale.

Si tratta di una ferita sulla quale il Pd getta sale: «È immorale che in nessuna regione del Nord siano stati predisposti luoghi di accoglienza», afferma l’eurodeputato Andrea Cozzolino. «Si è passati dai 1500 euro a immigrato per mandarli via, al “fora di ball” di Bossi, sino alla soluzione Maroni, che è stata quella di farli fuggire dalle tendopoli», afferma Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd.

Trento. «Profughi, siamo pronti a fare la nostra parte»
05/04/2011 09:06
TRENTO - Dal terremoto in Abruzzo alla solidarietà internazionale, senza scordare il contributo «culinario» a centinaia di feste e manifestazioni. L'attività dei Nuvola di Trento, i nuclei volontari alpini della protezione civile, si declina in molti modi e riveste ormai un ruolo fondamentale di supporto logistico durante ogni intervento di pubblica calamità. L'ultima emergenza umanitaria arriva dalla Libia, dall'Eritrea e dalla Somalia, con migliaia di profughi in fuga dalla guerra. «Noi siamo pronti a fare la nostra parte», conferma il presidente Giuliano Mattei.

Presidente Mattei, sabato si svolgerà l'assemblea ordinaria: dunque sarà tempo di bilanci. Partiamo dalle attività: essere Nuvola, è noto, non significa solo cucinare alle manifestazioni. «Per noi questa attività è un'occasione di formazione, visto che siamo inseriti nella protezione civile come logistica. Ora siamo 588: le manifestazioni sono anche un'occasione per fare imparare le persone a distribuire i pasti, a lavorare insieme. In questo modo, quando ci sono emergenze da affrontare, siamo pronti e, più si lavora, più si impara. Ecco perché per noi non sono solo feste, bensì occasioni di formazione».

Quasi 600 volontari. Ora che non c'è più la leva obbligatoria il volontariato alpino rischia di scomparire? «Negli ultimi anni, anche a fronte di eventi come il terremoto in Abruzzo, che ha toccato da vicino le persone, molti hanno deciso di impegnarsi con noi. E ultimamente si sono inseriti tanti giovani. Persone che si sono avvicinate per dare un contributo in occasione del terremoto dell'Aquila e che poi sono rimaste. Per questo l'anno scorso abbiamo modificato lo statuto, prevedendo anche un gruppo giovani, con ragazzi dai 14 ai 18 anni. Per ora sono solo in 9, ma è un inizio». Insomma, è un modo per garantire nuova linfa. «I ragazzi partecipano alle nostre iniziative, ma noi cerchiamo anche di capire da loro quali sono gli interessi ed i campi nei quali vogliono impegnarsi. Anche se non faranno il servizio militare, ben vengano questi ragazzi, che un domani potranno garantire un ricambio alla nostra associazione. Se per un alpino può essere naturale fare parte dei Nuvola, chi non lo è stato e decide di entrare, come gli amici degli alpini, lo fa con particolare motivazione».

Firenze. Accoglienza in 7 province e 14 strutture
Le province interessate sono Pisa, Livorno, Grosseto, Arezzo, Firenze, Siena e Pistoia. Ecco l’elenco delle sedi di ospitalità

Quattordici strutture di accoglienza in 7 province della Toscana: è questa la rete di accoglienza che è stata allestita per ospitare, i primi 304 immigrati che giungeranno da Lampedusa. Le province interessate sono Pisa, Livorno, Grosseto, Arezzo, Firenze, Siena e Pistoia. Ecco l’elenco delle sedi di ospitalità, secondo quanto si è appreso.

Arezzo: colonia di Palazzolo, nel comune di Monte San Savino, struttura gestita dalla Curia e dalla Croce Rossa (50).
Firenze: 25 troveranno ospitalità nei locali della canonica di Santa Maria a Morello, nel comune di Sesto Fiorentino, messa a disposizione dalla parrocchia; a Firenze 10 andranno a Villa Pieragnoli, struttura del Comune dove opera la Caritas diocesana, 10 all’Albergo Popolare e 10 alla Madonnina del Grappa.
Livorno: 15 sono destinati alla foresteria Laverie, nel parco archeominerario di San Silvestro nel comune di Campiglia Marittima, mentre Villa Morazzana, un ostello del comune di Livorno gestito da un privato ne accoglierà 30.
Grosseto: una cinquantina saranno ospitati in un ostello di Gerfalco, nel comune di Montieri e un centinaio nell’ostello della fondazione Sant’Anna a Massa Marittima.
Siena: una trentina di persone andranno in località Pineta, nel Comune di Monticiano, in una struttura di proprietà della Regione Toscana.
Pisa: Comune di Montopoli, località Le Capanne, nella struttura Oasi Mariana (20 posti).
Pistoia: 40 posti a San Marcello Pistoiese nella casa vacanze M.Longo Dorni.

Tra le altre strutture disponibili per l’accoglienza dei migranti anche quella di Empoli, e cioè la ex mensa del Centro Emmaus che ospiterà 15 persone, e l’ ex ospedale ortopedico di Calambrone (Pisa) dove, una volta ultimati i lavori, potrà ospitare dalle 50 alle cento persone e che è stata in questi giorni al centro di polemiche e proteste da parte di gruppi di cittadini. Quest’ultima struttura potrebbe essere utilizzata nel programma di accoglienza della seconda tranche di migranti in arrivo mercoledì.

Bozen. Premi d'oro ai dipendenti comunali. Solo quest'anno 1 milione e 340 mila euro, e il merito spesso non conta.
di Antonella Mattioli
BOLZANO. Il Comune quest'anno spenderà 1 milione e 340 mila euro per i premi di risultato riservati ai dirigenti, premi di produttività per tutti gli altri dipendenti e premi individuali. «Una cifra che non è spropositata - dice l'assessore al personale Luigi Gallo - se rapportata alle spese generali di personale (45,9 milioni di euro)». In realtà, la cifra è considerevole e proprio per questo si dovrebbe pensare che la macchina comunale viaggi come una Ferrari. Non è proprio così, perché altrimenti non si spiegherebbero le pressanti richieste di cittadini e mondo dell'economia ad aumentare la produttività dei dipendenti comunali per garantire servizi più efficienti riducendo le spese a carico della collettività. Un forte richiamo in questo senso è contenuto anche nella relazione dei revisori dei conti, secondo cui l'amministrazione deve recuperare in termini di efficienza, efficacia e quindi economicità dei servizi offerti. Lo stesso assessore Gallo ammette che "forse qualche miglioramento sulla produttività, per altro già buona, si potrebbe ancora ottenere". Ma allora come si spiega questa pioggia di premi? PREMI PER TUTTI. Mauro Todesco, sindacalista della Cisl, dimostrando un certo coraggio visto il ruolo che ricopre, chiama in causa i dirigenti: «Tocca a loro valutare l'operato dei propri collaboratori. Solo che per non scontentare nessuno, tendono a concedere a tutti i premi di produttività. Fortunatamente, non tutti i dirigenti si comportano nello stesso modo». Certo, non è facile escludere qualcuno con cui si lavora fianco a fianco tutti i santi giorni: gli "esclusi" poi potrebbero remare contro. «Il rischio c'è - ammette il sindacalista - ma i dirigenti sono pagati molto bene anche per assumersi delle responsabilità. Per fare scelte scomode. Altrimenti uno non accetta l'incarico. Il premio ha un duplice scopo: incentivare la produttività e premiare chi lavora di più. Se si concede a tutti, si scontentano i migliori che potrebbero essere indotti a adeguarsi al tram tram generale. Al di là di queste considerazioni comunque, io lavoro per il Comune dal 1974 e devo dire che nel corso degli anni efficienza e produttività dei dipendenti è migliorata notevolmente. Le critiche sono spesso infondate». Non tutti i sindacati la pensano così: c'è una parte che contesta la logica del merito e questo ha portato negli enti pubblici ad un certo appiattimento. «In effetti è così, ma la Cisl è da sempre a favore di un sistema meritocratico. Per questo siamo a favore anche del nuovo accordo in discussione al Consorzio dei Comuni che porta dal 50% al 60% la percentuale di premio di produttività che viene assegnato in base alla valutazione del dirigente». PREMIO PRODUTTIVITÀ. È definito dal contratto collettivo ed è costituito da un fondo pari al 3% della somma stanziata per il pagamento degli stipendi del personale. «Il 50% del premio - spiega l'assessore Gallo - viene assegnato a tutti i dipendenti, a premiare diciamo la produttività dell'ente. L'altro 50% è assegnato sulla base della valutazione del diretto superiore quindi con una differenziazione individuale». A quanto ammonta il 50% assegnato a tutti? «In media - spiega Todesco - intorno ai 500 euro». PREMIO INDIVIDUALE. «Poi - spiega Gallo - ci sono gli aumenti individuali di stipendio come ulteriore forma di salario incentivante per chi ha preso parte a progetti specifici o ha svolto compiti in parte superiori alla propria mansione. Il bugdet è fissato annualmente dalla giunta comunale. Per il 2011 ammonta a 260 mila euro». È riservato al 10% dei dipendenti ma anche qui, per premiare più persone la percentuale di chi le ottiene, è superiore. Anche in questo caso la valutazione spetta al dirigente. PREMIO DI RISULTATO. Questo è riservato alla dirigenza e il fondo è previsto dal contratto collettivo. Si basa sul raggiungimento degli obiettivi e viene valutato dal nucleo di valutazione (organo interno di valutazione dell'attività del Comune, diverso dai revisori dei conti). «Il nucleo - precisa Gallo - valuta gli obiettivi proposti e a fine anno quantifica il grado di raggiungimento degli stessi. Finora il nucleo era composto dal direttore generale e due esterni, adesso siamo in una fase transitoria ed è composto da direttore generale, segretario generale e vice. Il nuovo decreto legge regionale sul personale, se verrà approvato, prevede che siano tutti membri esterni».

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