di Michael Kimmelman - The New York Time – 12 aprile 2011
[Articolo originale "Fabled Italian Film Studio Is Bright Light in Budget Gloom" di Michael Kimmelman]
Pubblicato in: USA
Traduzione di ItaliaDallEstero.info
ROMA – Era una giornata primaverile baciata dal sole, calda, con frotte di turisti attrezzati di macchina fotografica radunati in Piazza del Popolo, commercianti di frutta e verdura che vendono puntarelle nelle bancarelle del mercato di Campo de’ Fiori, e il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi pronto a subire un processo per abuso di potere e per aver fatto sesso a pagamento con una minorenne.
Il solito.
Alla reception di Cinecittà, il leggendario studio cinematografico, sequenze tratte da «Morte a Venezia» e da «La Dolce Vita» apparivano su uno schermo al di sopra della testa del receptionist. Vivaci adolescenti in scarpe Nike Free e in occhiali da sole alla Marcello Mastroianni debordavano fuori da uno scuolabus per una visita agli “esterni” dello studio, dove si registra la versione italiana del «Grande Fratello».
Ultimamente questo paese è diventato il reality di se stesso, come lamentano spesso gli italiani. La situazione ha raggiunto il punto in cui nessuno sembra trovare particolarmente strano il fatto che il Presidente del Consiglio, come una versione italiana di Miriam da Forest Hills o di Dave da Harlem che chiamano la redazione di WFAN [stazione radiofonica sportiva di New York, NdT], telefoni regolarmente ai talk show televisivi per fare sfuriate o per lamentarsi per il modo in cui il conduttore descrive alcuni provvedimenti del governo.
Non molto tempo fa Giovanni Floris, il conduttore di «Ballarò», è arrivato al punto di rifiutarsi di rispondere a una telefonata di Berlusconi. Silvio aveva già avuto il proprio turno da Palazzo Chigi, ha dichiarato il Signor Floris, e se il capo del governo italiano aveva altro da aggiungere, era il benvenuto a presentarsi di persona al programma televisivo e a dirlo.
Questo spettacolo ora passa per umorismo macabro nella terra di Plauto e di Boccaccio, in cui l’amministrazione del signor Berlusconi, dopo aver dato fondo senza sosta al budget per le arti nazionali e ai fondi per l’opera lirica, per la musica, per il teatro e per il cinema, appoggia la cultura solo a parole, definendola l’orgoglio, la gioia e il motore economico nazionale.
E’ passato il secondo anniversario del terremoto che ha devastato L’Aquila e, vergognosamente, il centro storico un tempo animato di quella città rimane ancora quasi vuoto. Un auditorium progettato dall’architetto giapponese Shigeru Ban, che doveva essere inaugurato il giorno dell’anniversario, è stato rinviato continuamente a causa delle solite disgrazie di natura economica e organizzativa.
Il direttore d’orchestra Riccardo Muti ha fatto notizia il mese scorso quando, durante la prima del «Nabucco» qui a Roma, ha condotto il pubblico in uno spontaneo bis del «Va, Pensiero» («Oh, mia patria, sì bella e perduta» dice uno dei testi significativi.) L’occasione era la celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, e il bis ha rappresentato la protesta italiana contro i tagli all’arte e contro lo stato generale di agitazione del paese, ha spiegato il signor Muti successivamente, paragonando l’evento a «qualcosa tratto dal film ‘Senso’ di Visconti», confermando così che per gli italiani la vita ha cominciato a imitare la finzione.
Luchino Visconti e i suoi colleghi, tra cui Federico Fellini, Vittorio De Sica, Bernardo Bertolucci, William Wyler, Joseph L. Mankiewicz, Martin Scorsese — e l’elenco potrebbe continuare — nei decenni hanno reso Cinecittà il più celebre centro di produzione cinematografica in Europa, ma fino a un paio di settimane fa era anch’esso un punto di riferimento italiano in crisi, o così si diceva. Senza un programma di incentivi, del genere di risorse presenti all’estero per attirare registi stranieri, lo studio parlava addirittura, anche solo per suscitare la simpatia generale, di vendere alcuni degli inestimabili oggetti usati sul set di Fellini, in modo da ricavare facilmente contanti.
Recentemente il governo ha proposto una tregua di tre anni, con la promessa, di fatto, di agevolazioni fiscali sul 25% del denaro che i produttori stranieri spendono qui nella produzione. Questo provvedimento allinea di più lo studio con quelli di Berlino, Praga, Budapest e Londra.
Tuttavia, una proroga, come un film, alla fine si concludono. L’Italia di oggi non sembra in grado di programmare bene il suo futuro, sia quando si tratta di preservare il suo famoso centro cinematografico per i posteri sia quando lascia sgretolare l’eredità architettonica o archeologica o quando deve consolidare questa sempre più espansa, varia e incontenibile capitale.
Detto questo, quando mi sono addentrato per incontrare Maurizio Sperandini, vice-direttore generale di Cinecittà, lui non sembrava preoccupato. Direttore degli impianti di produzione e reduce da 22 anni di esperienza in questo complesso, ha attraversato molti alti e bassi, e mi ha detto che lui e i suoi superiori erano soddisfatti dell’accordo di tre anni. Si è vantato di aver raddoppiato a 57 milioni di dollari il reddito annuale, a partire da quando lo studio è diventato privato a metà degli anni ’90, allorché era sull’orlo del fallimento.
Fondato da Mussolini per promuovere il cinema italiano e per realizzare film di propaganda fascista, Cinecittà si estende su 99 acri di terreno pubblico, utilizza edifici di proprietà statale e dipende da agevolazioni fiscali pubbliche, ma è un’azienda privata, for-profit, con un elenco di investitori appartenenti al bel mondo. Questi ora stanno prendendo in considerazione un ampliamento di 115 milioni di dollari sulle zone libere della proprietà, comprendenti un nuovo ambiente insonorizzato, uffici, un albergo, un complesso con palestra e ristorante sul genere di quelli che secondo Sperandini vengono offerti dai rivali di Cinecittà.
Nel frattempo, il campus di edifici color ocra realizzato da Gino Peressutti nel 1930, un prodotto significativo di design italiano modernista, degrada dolcemente in un paesaggio di cipressi, palme e prefabbricati di fibra di vetro. In fondo a strade piene di buche, il Foro del set di «Roma», la ormai finita serie di HBO, confina con il decrepito fronte del porto del XIX secolo della Lower Manhattan di «Gangs of New York». Nello studio dove Fellini ha girato «Satyricon» e Wes Anderson ha ripreso «The Life Aquatic», un groviglio a spaghetti di tubi dell’aria condizionata penzola da passerelle silenziose. L’altra mattina stilisti agghindavano modelle per un filmato di moda davanti a un finto colonnato antico, dove qualcuno aveva parcheggiato una Renault.
«Voglio portarti al sottomarino» ha proposto l’assistente di Sperandini, Francesca Rotondo, dopo che non è riuscita a individuare il colpevole proprietario della Renault; e come uno dei personaggi soprannaturali de «I guardiani del destino» («The Adjustment Bureau»), sul set di un palazzo fiorentino del quattordicesimo secolo ha aperto una porta che dava su un terreno invaso dalle erbacce dove erano radunati dei congressisti, e il sottomarino tratto da “U-571”, il film del 2000 su un sottomarino tedesco, se ne stava abbandonato in una lunga tenda dalla forma di un preservativo. Vicino, gli adolescenti dello scuolabus flirtavano, si mandavano sms e cercavano di non sembrare annoiati mentre aspettavano il turno per entrare.
«Noi vendiamo un misto di passato e di futuro» è il modo in cui il Signor Sperandini ha sintetizzato il richiamo per i registi a lavorare in questo luogo, dove il fascino e il surrealismo di Fellini non sono ancora svaniti, la condizione generale di follia — una sua variante trasognata, snervata e piuttosto sonnolenta — sembra un microcosmo dell’Italia e una metafora per come gli italiani, loro malgrado, vadano comunque avanti.
Qualche variazione del modello economico pubblico-privato di Cinecittà, in ogni caso, può risultare in definitiva una salvezza per altre istituzioni culturali qui in crisi. Questa è chiaramente la speranza del signor Berlusconi, un miliardario che possiede testate giornalistiche ed emittenti televisive, incluse quelle in cui interviene ogni tanto telefonicamente. Naturalmente lui si è battuto a favore di un maggiore controllo privato, forse per giustificare i suoi ingiustificabili tagli economici al fondo per la cultura e l’incompetenza del suo governo nell’amministrarli.
Ma la storia d’Italia, ora come in passato, è anche quella di un incredibile coraggio e ingegno. Il paese sopravvive continuamente alle calamità che infligge a se stesso. Ciò costituisce parte del toccante e incomparabile incanto e fascino del luogo. Quando sono riemerso in città fuori dalla metropolitana, centinaia di contestatori reggevano striscioni che prendevano in giro Berlusconi per la sua relazione con Karima el-Mahroug, la minorenne in questione dal nome d’arte “Ruby Rubacuori”. Hanno manifestato nella piazza di fronte al Pantheon e si sono confusi con perplessi turisti giapponesi e cinesi.
Era il solito spettacolo di caos, allegria e proteste. Una banda ha cominciato a suonare vicino alla fontana. Il sole è tramontato, gettando ombre sulla piazza.
Questa era Roma. E tutti sembravano molto felici.
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