Alla Calabria hanno scippato anche l’anima
Più di un miliardo di fondi Ue non spesi. Campania a rischio Grecia
Matera. «Produttori costretti a svendere la frutta»
Venezia, padania. 630 milioni per il Mose, 40 a Venezia
Alla Calabria hanno scippato anche l’anima
23/07/2011
di ROBERTO LOSSO
La calabresità è un vecchio arnese. Perché non suscita più passioni né buoni sentimenti. Al massimo, ormai, è una stucchevole rappresentazione retorica nelle mani rapaci dei vecchi e nuovi baroni della politica e delle lobby. La utilizzano per darsi un tono. Quando appare strumentalmente utile richiamarsi a quella cultura contadina che, nella nostra regione, riempiva di contenuti e valori una vita spesso al limite della sopraffazione e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Anche nella miseria, però, c'era tanta dignità nelle genti di Calabria. Nonostante tutto, infatti, riuscivano a resistere. Ad opporsi ad un sistema di potere feudale che, di fatto, le escludeva dalla distribuzione della ricchezza che esse producevano. Ci riuscivano, quei cafoni e lazzaroni, facendosi popolo, comunità e vicinato. Spesso e volentieri attraverso forme di ribellione che anticipavano quel bisogno di giustizia sociale che rappresenterà, in seguito, l'arma vincente delle rivoluzioni di massa. Ne sanno qualcosa i piemontesi di Casa Savoia che, dopo l'illusoria marcia trionfale del “compagno” Garibaldi, nel Mezzogiorno redento e liberato, mandarono l'esercito per “costruire” l'Italia. Dissero che era necessario per liberarci dai briganti. Invece, fu un massacro. Anzi. Una vera e propria guerra di sterminio. Rileggendo quelle pagine d'impiccagioni sommarie e feroci rappresaglie, ci sembra di rivivere lo stesso film del terrore che ancora oggi viene proiettato in Libia o in tutte le regioni del mondo dove i nostri soldati, per lo più ragazzi del Sud, muoiono nelle sporche guerre del petrolio che i generali chiamano missioni di pace. La storia c’insegna che non è una buona strategia di governo degli uomini e dei popoli pensare di educarli a colpi di cannone. Nelle regioni meridionali dell'Italia post-risorgimentale non ha funzionato. Anzi. Ne ha segnato il declino, perché ha imposto con la violenza delle armi modelli politico-culturali estranei ai processi produttivi e sociali propri del Regno delle Due Sicilie. È vero. L'equilibrio preesistente non era un granché. Era corrotto e decadente. Non è stato, però, lungimirante portarsi via soldi e tecnologie. Che pure c’erano ai tempi di Francischiello. Né, tanto meno, sottrarre all'agricoltura, dall'oggi al domani, gran parte della sua forza lavoro con l'imposizione di una leva obbligatoria lunga sette anni. Eppure, a Torino, capitale dell'Italia unita a metà, sapevano che la repressione militare insieme all'ulteriore impoverimento di chi era già povero avrebbero suscitato sentimenti di sfiducia nei confronti dei piemontesi e dello Stato unitario che agli occhi dei meridionali si presentava nel peggiore dei modi. La Calabria, in quest’annessione senza solidarietà e senza amor patrio, pagò il prezzo più alto. Perché, anche allora, era il Sud del Sud. È incominciata da lì, da quella rivoluzione tradita, il cammino di perversione che ha inaridito l’anima, la sensibilità e la cultura della nostra terra? In fondo, anche nelle successive fasi storiche, dal fascismo al dopoguerra, dalla prima alla seconda repubblica, l’approccio alla questione è sempre stato quello del bastone e della carota. Più carabinieri e più Cassa del Mezzogiorno. A condizione, però, che, al momento giusto, i calabresi fossero ossequiosi, fedeli e riconoscenti. È stato così ogni volta che la Calabria è scesa in piazza. Intervennero i reparti speciali, quando, negli anni ‘50, i contadini occuparono le terre incolte che, per generazioni, avevano concimato con il proprio sudore. Se ne restarono nelle caserme, mentre i “fattori” del barone Mazza uccidevano Giuditta Levato ed il bambino che portava in grembo. Poi, però, Alcide De Gasperi fece la riforma agraria. E venne l’esercito, venti anni dopo, per porre fine alla rivolta popolare di Reggio Calabria. Intervennero gli stati maggiori dell'Italia golpista, con i carri armati e con il “pacchetto Colombo”, perché, nel frattempo, la situazione era sfuggita di mano ai “boia chi molla” e ai servizi segreti degli opposti estremismi. Così, strada facendo, si è persa la Calabria, che ci portavamo dentro. Pezzo dopo pezzo, infatti, ci hanno scippato l'anima. Nel ventre molle di questa moltitudine di persone che non riesce più a farsi popolo, è uno stillicidio d’avvenimenti moralmente indecenti. C’è di tutto. Alcune, tra l’altro, al limite della cialtroneria e dell'accattonaggio. A che serve elencarle? La cronaca ne parla tutti i giorni. Quelle del mare dei veleni, della politica senza ideali e della ‘ndrangheta pigliatutto. Le conosciamo così bene ormai che l'unica cosa che c’indigna è l'impudicizia trasversale che le accompagna e spesso le giustifica. È quest’omertosa contiguità che fa venire il mal di stomaco. Eppure, in nome della calabresità oltraggiata, c'è chi protesta, se la “Rubettino” ripropone un testo di Giorgio Bocca sull’“asprezza” della Calabria. È vero. Questo amabile giornalista partigiano e galantuomo conosce poco la nostra regione. Altrimenti non avrebbe pensato che ha ancora un'anima. Non è così, perché le hanno scippato tutto. Anche la gioiosa capacità di resistere, pensando ad un futuro migliore.
Più di un miliardo di fondi Ue non spesi. Campania a rischio Grecia
Investirli entro la fine dell'anno o il ritiro. E Bruxelles ipotizza per l'allungamento delle scadenze di utilizzo
NAPOLI — La Grecia ha 12 miliardi di fondi europei inutilizzati. Fermi perché lo Stato ellenico non è in grado di mettere la quota di cofinanziamento nazionale. L’Europa, svenata dai salvataggi in corso dei paesi a rischio default, ha un serio problema di cassa, almeno nel breve periodo. Per questo motivo a Bruxelles in sede Ecofin si sta cominciando a ragionare seriamente sull'ipotesi di un allungamento delle scadenze di utilizzo dei fondi comunitari, per poter diluire nel tempo i pagamenti a fronte di un’oggettiva crisi di liquidità. Sarebbe, se questo criterio fosse accolto, una manna dal cielo per le regioni meridionali, e segnatamente la Campania, che alle condizioni attuali non potrà mai riuscire a spendere un miliardo e 200 milioni entro fine anno.
CALDORO CON TREMONTI E SILVIO - «La migliore performance che ha avuto la regione - spiega al Corriere del Mezzogiorno Stefano Caldoro, reduce da due decisivi vertici romani, uno con Berlusconi, l'altro con Tremonti - è stata attorno ai 500, 600 milioni sulle risorse del fers». Raggiungere il doppio della spesa è un programma da libro dei sogni. «Il ministro dell’Economia - ragiona il governatore - si è reso conto, dati alla mano, che il patto di stabilità va rivisto per la parte che riguarda i fondi europei». Sarebbe una svolta decisiva, in particolare per la Puglia e la Campania che sono in maggiori difficoltà sui tetti. «Ho proposto al ministro tre cose - anticipa Caldoro - La prima far partire subito l'agenzia nazionale, con Cassa depositi e prestiti e Mediocredito, per gestire gli interventi pluriregionali e di interesse nazionale, come ad esempio l'alta capacità ferroviaria Napoli Bari».
UN PATTO CON TUTTE LE REGIONI - La seconda proposta, che potrebbe essere il vero punto di svolta per superare l'attuale rigidità dei tetti di spesa, è creare un Patto consolidato con dentro tutte le Regioni sia dell'obiettivo convergenza che di quello competitività e, naturalmente anche lo Stato: «In questo modo rimoduleremmo i tetti all'interno del patto consolidato». Da questo punto di vista le Regioni meridionali sono svantaggiate rispetto a quelle del Nord e agli altri enti locali: per i Comuni, infatti, il patto è triennale, per le regioni annuale. «Non solo ma quelle del nord - incalza il presidente della Campania - non avendo i fondi strutturali non hanno i picchi di spesa che hanno regioni come la nostra e la Puglia». «L'ultima strada percorribile - sottolinea Caldoro - è quella di appigliarsi a una norma della Finanziaria di due anni fa, che consente sforamenti dei tetti dei pagamenti del patto di stabilità ma solo per l’utilizzo dei fondi strutturali: ma pur se non si applicano in questo caso tutte le sanzioni, una buona parte resta, per cui si dovrebbero abolire tutte». Ora tocca a Tremonti scegliere quale delle tre strade adottare: il 28 luglio il ministro dell'Economia dovrebbe dare una risposta. Non c'è tempo da perdere, perché «al sud c'è il rischio del disimpegno per ben 7 miliardi entro fine anno - spiega il vicepresidente di Confindustria con delega al mezzogiorno, Cristiana Coppola - La spesa è oggi ferma in media al 10,2%».
PERSI I FONDI, NESSUN DIRITTO A CHIEDERNE ALTRI - E se il sud, e la Campania in particolare, perderà anche solo una parte dei fondi che le sono stati assegnati, non avrà più diritto in futuro a rivendicare la propria fetta di nuovi finanziamenti. «Ho ribadito a Berlusconi - conclude il governatore campano - che, dopo un anno di rigore e di rigido controllo dei conti, la Regione è rientrata nei limiti del patto di stabilità, ma i circa sette miliardi e mezzo di indebitamento accumulati negli anni precedenti sono privi di copertura finanziaria e non possono essere sostenuti con ordinarie correzioni di bilancio». Di qui la necessità di sbloccare i fondi regionali della sanità accantonati dallo Stato. Una situazione che definire kafkiana e paradossale è dir poco. Sul banco degli accusati un posto di rilievo lo meritano gli euro burocrati, che impongono regole rigide e complicate sull’utilizzo delle risorse, preoccupati più del cronoprogramma della spesa che non della qualità degli interventi. E ciò che avviene con i soldi del fondo europeo di sviluppo regionale e del fondo sociale accade anche con i finanziamenti della Bei: la banca europea stanzia le risorse ma se non si trova un pool di aziende di credito nazionali che le erogano a fronte di adeguate garanzie i soldi restano nella cassaforte della casa madre. E con i tempi che corrono e le restrizioni sul credito che impongono alle banche di rispettare i parametri rigidissimi imposti da Basilea due è come fare un triplo salto mortale.
MARCIANO: LA REGIONE NON PUO' PERMETTERSI DI PERDERE UN MILIARDO - «La Regione Campania non può permettersi di perdere oltre un miliardo di risorse comunitarie - accusa Antonio Marciano, coordinatore della segreteria del pd e consigliere regionale democratico, il quale ripropone a Caldoro «lo sblocco di quei grandi progetti che sono in stato avanzato, perché hanno già avuto l'avallo di Bruxelles: dalla metropolitana regionale alla riqualificazione di Bagnoli, dalla tratta ferroviaria Piscinola-Capodichino alla bonifica del fiume Sarno». Peraltro i grandi progetti escono dalla logica del disimpegno dei fondi a fine 2011, sono in linea con la nuova programmazione comunitaria che punta su piani complessivi di sviluppo e non su singole opere incapaci di incidere sulla crescita, possono essere gestiti in una logica di partenariato con il Comune di Napoli dove, con l'insediamento della giunta De Magistris, ci sono le competenze adeguate per dare corpo e gambe a queste iniziative, senza perdere altro tempo prezioso.
Emanuele Imperiali
Matera. «Produttori costretti a svendere la frutta»
MATERA– I produttori ortofrutticoli della provincia di Matera “sono costretti a svendere nettarine, pesche, anguria e altra frutta di stagione a causa della speculazione sui prezzi, alimentata dall’onda sul presunto calo delle vendite sui mercati procurati dall’effetto del batterio 'Escherichia colì e da azioni speculative della grande distribuzione”.
Lo ha detto il presidente della Coldiretti di Basilicata, Piergiorgio Quarto, il quale ha effettuato una rilevazione tra i produttori, “costretti a svendere i prodotti tra i 20 e i 40 centesimi di euro al chilogrammo mentre i consumatori sono costretti ad acquistare sui mercati a 1.40-1,60 euro al chilo. I nostri produttori – ha detto Quarto – sono costretti a vendere sottocosto, senza nemmeno poter coprire le spese. E tutto questo a fronte di un presunto calo dei consumi alimentato dalla paura del batterio Escherichia coli e da azioni speculative. Coldiretti sta preparando un lavoro minuzioso che denuncia ancora una volta gli effetti negativi procurati dalla speculazioni su prezzi e mercati, a danno dei produttori e dei consumatori”.
Venezia, padania. 630 milioni per il Mose, 40 a Venezia
Ma i soldi per ora non ci sono: per sbloccarli occorre il via libera di Tremonti
ROMA. Soldi della Legge Speciale promessi ma non ancora disponibili. Bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, a seconda dei punto di vista. Il Comitatone si è impegnato ieri a finanziare il Mose fino a ultimazione dei lavori. E a garantire a Comune, Regione e Magistrato alle Acque una parte di quei finanziamenti. Ma i soldi ancora non ci sono. Li dovrà sbloccare il ministero dell'Economia, verificata la disponibilità e il rispetto del Patto di stabilità. 630 i milioni di euro richiesti dal presidente del Magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta per andare avanti con i lavori del Mose. «Il cantiere ci costa un milione al giorno», ha detto. 50 i milioni richiesti dal Comune di Venezia, di cui il 15 per cento (7,5) andranno a Chioggia, il 5 per cento del rimanente (circa due milioni) al Cavallino. «Abbiamo compiuto la nostra missione», dice soddisfatto il sindaco Giorgio Orsoni. Che a un certo punto, vista la mala parata, ha dovuto battere il pugno sul tavolo. «Se i soldi sono solo per il Mose io voto contro», ha detto a metà riunione. Il sottosegretario Gianni Letta, che presiedeva la riunione, ha allora accettato di inserire la clausola della «quota parte». I finanziamenti del Mose dovranno prevedere una parte per la manutenzione. E i fondi per il Comune, la Regione e il Magistrato alle Acque. «Siamo soddisfatti che intanto la grande opera vada avanti», dice il presidente della Regione Luca Zaia, «adesso non si può fermarla, e abbiamo la certezza scientifica che sarà finanziata fino a completamento nei prossimi tre anni. Poi bisognerà parlare della gestione. E delle opere idrauliche sul territorio lagunare». I soldi richiesti dalla Regione (100 milioni di euro) però ancora non sono disponibili. «Siamo fiduciosi», dice Zaia, «perché il governo ha recepito le nostre istanze». Soddisfatto anche il sindaco del Cavallino Claudio Orazio, meno Michele Carpinetti, sindaco di Mira: «Avevamo chiesto 5 milioni per il disinquinamento della gronda lagunare», dice, «speriamo che si trovino». I fondi dovrebbero arrivare dalla riserva non spesa del Cipe entro il 31 dicembre. E su questo Orsoni è ottimista: «Il governo si è impegnato, sono sicuro che farà la sua parte», dice. 40 milioni di euro dovrebbero consentire al Comune di riprendere la manutenzione della città, ora quasi ferma dopo tre anni di «stop» ai finanziamenti della Legge Speciale. 40 milioni che non sono granché rispetto alle richieste e nemmeno in rapporto ai grandi numeri del Mose. Ma in questa fase sono pur sempre una boccata di ossigeno. Oltre all'illustrazione dello stato di avanzamento del sistema Mose e dei lavori alle bocche di porto - giunti quasi al 70 per cento dell'opera - ministri e dirigenti dello Stato hanno ieri preso atto anche dell'esistenza del progetto di off shore. La piattaforma per navi petroliere e transoceaniche messo a punto dall'Autorità portuale in collaborazione con il Magistrato alle Acque. Assegnato il progetto preliminare, si dovrà adesso vedere come trovare i finanziamenti privati per circa un miliardo e mezzo necessari alla realizzazione. Non si è parlato alla fine dell'emergenza Marghera e dei progetti in campo. «Le bonifiche le dovrà fare la Regione», dice il sindaco Orsoni. Anche qui si attende che Tremonti sblocchi la proposta avanzata ieri di finanziamenti alla Regione per 100 milioni di euro. Un via libera «con riserva». In attesa dell'ok di Tremonti.
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