«Imu, sui campi pugliesi si stima un'impennata del peso fiscale fino al 160%»
Occupazione grandi imprese al palo da quattro anni
Crisi: l'anno dello spread. La nuova peste ''made in europe''
Crisi: 2012, lo spettro di due monete si aggira nell'Eurozona (outline)
«Il ritorno alla dracma? Sarebbe un inferno»
Adottare la moneta unica? Non c'è fretta
«Imu, sui campi pugliesi si stima un'impennata del peso fiscale fino al 160%»
di Marco Mangano
BARI - La cura dimagrante imposta dal professor Mario Monti si abbatte come una mannaia sulla più grande industria pugliese: l’agricoltura.
«L’impatto dell’Imu su alcune aziende campione nel settore dei seminativi, irrigui o vigneti, causerà un’impennata del peso fiscale del 121% sui terreni, mentre per i fabbricati c’è addirittura una prospettiva di incremento fino al 160%». Dario Stefàno, assessore alle Risorse agroalimentari della Regione Puglia, 48 anni, di Scorrano (Lecce), laureato in Scienze economiche, affida alle cifre il commento alla manovra economica appena approvata.
Non le pare offensivo per il popolo dei campi definire «Salva Italia» questa manovra?
La legge non ha escluso l’agricoltura, con un impatto di certo non trascurabile. L’anticipo al 2012 dell’Imu determina la base imponibile, applicando al reddito dominicale, rivalutato del 25%, un moltiplicatore pari a 120, anziché di 75, valore precedente. Parliamo, dunque, di un incremento considerevole, pari al 60%. Per i fabbricati rurali si dispone l’assoggettamento all’Imu diversamente da prima quando ai fini Irpef ed Ici il reddito era ricompreso nella base imponibile dei terreni. L’aliquota fissata per i fabbricati rurali ad uso strumentale è del 2 per mille. È evidente che una manovra di queste dimensioni si profila pesante per il sistema agricolo.
Cosa si aspettava, invece, che il governo estraesse dal cilindro?
Risposte più concrete anche per bilanciare gli effetti sull’unico settore che, anche in un prolungato momento congiunturale negativo, ha mostrato segnali di tenuta. Auspicavo che la manovra fosse accompagnata da misure che alleggerissero il sistema da alcuni vincoli burocratici, che pesano più che su ogni altro settore.
La proposta di riforma della politica agricola comunitaria (Pac) in vigore dal 2013, presentata dal commissario europeo Dacian Ciolos, è stata attaccata in modo duro perché colpisce i sistemi mediterranei. Cosa accadrebbe alle aziende pugliesi se la riforma recepisse la proposta così com’è?
Il progetto presentato da Ciolos sembra tarato sulla rendita piuttosto che sul valore della produzione. L’anomalia più evidente è quella di inquadrare tutto il «greening» (pagamento ecologico, una delle componenti del nuovo sostegno della Pac costituito da sei tipologie di pagamenti diretti, ndr), introducendo meccanismi che alimentano le complicazioni burocratiche ed escludono le colture arboree. Una penalizzazione per la Puglia la cui traccia principale è rappresentata proprio dalle colture arboree. Non a caso siamo la prima regione per produzione di olive da olio, per esempio. Le nuove regole ambientali dei pagamenti diretti previsti nella nuova Pac comporterebbero un danno per la sostenibilità sia economica che ambientale delle aziende pugliesi, per la conseguente «spinta» all'abbattimento di ulivi, che hanno funzione ambientale di molto superiore ai pascoli del Nord Europa. Sulla base di alcune prime valutazioni sui pagamenti diretti, realizzate dal nostro gruppo di lavoro, se le proposte legislative della Pac in vigore dal 2013 fossero confermate, ci troveremmo di fronte ad una prospettiva sconfortante. Avremmo una riduzione netta, con una forbice compresa fra il 25,66% della provincia di Foggia e il 45,69% di quella di Lecce. Una prospettiva insostenibile, ma che siamo impegnati a scongiurare. Grazie, infatti, all’azione svolta dal Sistema delle Regioni, con il coordinamento della Puglia, in sinergia con il presidente della commissione Agricoltura del Parlamento europeo, Paolo De Castro, possiamo provare ad invertire questa prospettiva nefasta e tradurre in concreto la recente apertura di Ciolos a rivedere in modo profondo l’impianto della proposta legislativa.
Cosa è accaduto dopo la regolarizzazione previdenziale «partorita» da De Castro?
Purtroppo, all’importante iniziativa non si è fatta seguire una riforma del sistema previdenziale del settore, tra i più pesanti in Europa e, dunque, capace di condizionare in modo negativo la competitività delle nostre imprese. Questo, sommato alla prolungata congiuntura sfavorevole, ha prodotto per le aziende una difficoltà a rispettare gli impegni assunti con quella sanatoria, esponendole al ricorso al credito a breve per tenere testa ai piani finanziari che avevano difficoltà a rispettare.
Cosa propone il Sistema delle Regioni?
Una moratoria che fotografi la situazione, generi strumenti capaci di alleggerire l’indebitamento delle aziende agricole e, nel contempo, disegni una riforma capace di allineare il sistema previdenziale agricolo italiano alla media europea.
Com’è andato il 2011 per la Puglia?
L’andamento dell’export dei prodotti agricoli conferma la solidità di un settore che continua a fronteggiare una situazione difficile, generata dalla congiuntura internazionale e dall’assenza di un profilo di politica agricola nazionale.
Le cifre.
Sono significative: +6,2% al quale ha contribuito la commercializzazione estera delle nostre produzioni vitivinicole di qualità e un +7,9% dei prodotti dell’agricoltura. C'è di più: l’agroalimentare pugliese continua a essere sinonimo di eccellenza e sicurezza alimentare. Infatti, rimangono solidi i primati produttivi rispetto ai quantitativi nazionali: uva da tavola 68%, pomodori 35%, ciliegie 30%, mandorle 35%, olive 35%, grano duro 21%, carciofi 31%, mandorle 30% e uva da vino 14%.
Cosa riserverà il 2012 all’agroalimentare regionale?
La prospettiva è quella di consolidare l’andamento positivo del 2011, a condizione però di continuare sulla strada dell’innovazione, da interpretare non solo nell’ammodernamento dei processi produttivi, pure necessario, ma anche nella riscrittura dei modelli organizzativi. Per questo, ho proposto un «patto» alle organizzazioni di categoria affinché la nostra principale attenzione sia rivolta all’aggregazione e, dunque, il 2012 sia l’anno della svolta.
Occupazione grandi imprese al palo da quattro anni
Filadelfo Scamporrino - 31 dicembre 2011
E’ allarme rosso in Italia per l’occupazione nelle grandi imprese in quanto in calo negli ultimi quattro anni. Per questo la Cgil, per voce del segretario confederale del Sindacato, Fulvio Fammoni, è tornata a ribadire la necessità di una messa a punto di tutele che, aventi carattere straordinario, difendano l’occupazione nel nostro Paese. Gli ultimi dati Istat sulle retribuzioni e sull’occupazione nelle grandi imprese non promettono niente di buono; secondo la Cgil, infatti, cala l’occupazione ma anche il numero delle ore di cassa integrazione, il che significa che ci sono lavoratori che, una volta terminata la CIG, vengono espulsi dal mondo del lavoro.
E di questi tempi è difficile, difficilissimo rientrarvi se a perdere il posto di lavoro sono persone sopra i 40 anni. Ed in merito all’aumento delle retribuzioni di ottobre 2011, il segretario confederale della Cgil ha fatto presente come il dato in aumento sia frutto di fattori specifici e, comunque, registra tassi di crescita ben al di sotto dell’inflazione.
D’altronde proprio sulle crisi industriali presenti nel nostro Paese la Cgil è molto preoccupata. Nel dettaglio, il più grande Sindacato italiano teme che il 2012, dal fronte lavorativo, per l’Italia sia l’anno della disoccupazione di massa. Ragion per cui occorre con urgenza correre ai ripari prima che sia troppo tardi per i lavoratori e per il sistema Paese. E’ difficile infatti che l’Italia possa salvarsi senza salvare il lavoro. Il Sindacato, tra l’altro, ritiene che sulle pensioni, dopo la manovra Monti, la partita non sia chiusa; e per questo è necessario che l’Esecutivo torni a confrontarsi con le parti sociali.
Crisi: l'anno dello spread. La nuova peste ''made in europe''
31 Dicembre 2011 - 15:21
(ASCA) - Roma, 31 dic - Il 2011 e' stato l'anno dello spread. Parola inglese che sta per differenza. Prima e' comparso sui titoli delle agenzie di stampa, poi su quelli dei giornali; in serata, all'apertura dei telegiornali. Cosi' lo spread e' entrato nelle case degli italiani. Si e' trattato di una imperdibile occasione per migliorare la conoscenza delle lingue straniere, poi si e' capito che faceva anche male. Quando lo spread sale, 200, 300,.. 500 punti arriva qualche taglio alla spesa pubblica e un'infornata di nuove tasse mentre la benzina va alle stelle. Insomma, una botta al reddito disponibile delle famiglie. Con lo spread che vola, chi aveva in programma un branzino al sale, ripiega sulla minestrina. Chi pensava a un viaggio, si ferma al giretto ''fuori porta''. Chi aveva un lavoro, lo perde. Lo spread ormai cambia anche i governi. E' toccato, in rapida successione, a Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia. Lo spread e' lo ''stigma'' del terzo millennio, il marchio di infamia, con cui fare i conti giorno dopo giorno. Per liberarsene si avviano manovre finanziarie a ripetizione ma poi l'economia si avvita in recessione. Sta accadendo in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. L'Italia e' sulla stessa strada. La recessione, iniziata nel secondo semestre di quest'anno, proseguira' anche nel 2012 con una contrazione del Pil compresa, secondo diversi uffici studi, tra -1% e -1,6% . Nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, il premier Monti ha invitato ad affrontare lo spread con spirito laico: ne' demonizzazioni ne' divinazzazioni. ''Direi che ora ha smesso di crescere'', ha poi aggiunto con circospetto sollievo il presidente del Consiglio. Dunque anche Monti non trascura, nonostante l'aplomb anglosassone, come lo spread possa essere letale per il destino del suo governo. Ma cos'e lo spread? Si tratta della differenza tra il costo del debito pubblico della Germania, il piu' affidabile debitore dell'Eurozona, e quello degli altri paesi dell'unione monetaria. L'Italia paga il 7%, la Germania l'1,90%, lo spread e' del 5,10% o 510 punti. Parliamo dunque di un parametro finanziario prodotto da una semplice sottrazione. Quando lo spread sale, sale l'ansia degli investitori che dubitano dell'affidabilita' dei titoli pubblici del paese sotto tiro, consapevoli che crescono le probabilita', a causa dell'aumento dei tassi di interesse, che lo Stato non riesca ad onorare i propri debiti. Ogni giorno tutti i governi dell'Eurozona osservano con trepidazione l'evoluzione dello spread, sperando che non tocchi a loro; meglio al vicino. Ora si discute persino su come gestire il ''fallimento disciplinato'' della Grecia, che capitola per uno spread a 3.400 punti, pari a un tasso di interesse del 35,9%, assolutamente proibitivo per fare nuovi debiti, si procedera', forse, a ristrutturare quelli vecchi. In ogni caso, assicurano in coro i leader europei, ''the greek job (la soluzione ellenica)'' deve rimanere una eccezione non ripetibile. Sentiero scivoloso. Piuttosto che erigere con denaro sonante una rete di sicurezza che impedisca l'insolvenza delle nazioni, la politica europea ha invece aperto la strada al fallimento di uno stato sovrano, potenziando le capacita' distruttive dello spread. Cosi' il morbo e' sbarcato a Lisbona, Roma, Madrid e sfiora la Francia e il Belgio. E' la nuova peste. men/sam/
Crisi: 2012, lo spettro di due monete si aggira nell'Eurozona (outline)
31 Dicembre 2011 - 13:07
(ASCA) - Roma, 31 dic - La crisi del debito pubblico si e' allargata nel 2011, mettendo a dura prova l'euro. Nel 2010 aveva steso Grecia, Irlanda e Portogallo.
Quest'anno il contagio si e' esteso all'Italia, da gennaio a dicembre i tassi di interesse sui titoli decennali del debito pubblico italiano sono saliti dal 4,8% al 7%. Si e' invece attenuata la pressione sulla Spagna, i cui tassi di interesse sono scesi dal 5,42% al 5,16%.
La migliore performance di Madrid e' spiegata da diversi fattori: la Spagna ha un debito pubblico pari al 68% del Pil, Roma viaggia al 120%; la crescita economica spagnola di lungo periodo e' dell'1,5% all'anno, quella dell'Italia, quando va bene, racimola un misero 0,8%, infine, con le recenti elezioni politiche, Madrid ha aperto un ciclo di stabilita' politica, mentre l'Italia e' in piena transizione.
I due paesi hanno risposto al ''vento contrario'' con manovre finanziarie a ripetizione per consolidare i conti pubblici e non perdere l'accesso ai mercati dei capitali, come invece accaduto ad Atene, Lisbona e Dublino.
Ma la vera ragione della crisi del debito, cioe' la mancanza di una rete di sicurezza che scongiuri l'insolvenza dei paesi dell'Euroclub proteggendo chi investe in titoli pubblici, non e' stata ancora affrontata pienamente.
Le risposte europee appaiono lente e incomplete, condizionate soprattutto da interessi nazionali ed elettorali che mal si conciliano con lo spirito dell'Unione.
Il Fondo europeo per la stabilita' finanziaria, il cosiddetto salva-stati, ha una potenza di fuoco intorno a 440 miliardi di euro, a cui si aggiunge una ''fantomatica'' leva, cioe' la possibilita' di indebitarsi, peraltro non ancora quantificata dopo mesi di summit europei. A disposizione ci saranno anche nuove risorse dal Fondo Monetario Internazionale pari a circa 150 milardi.
Denaro forse sufficiente a coprire le esigenze di finanziamento del debito pubblico del 2012 di Italia e Spagna, pari a 550 miliardi di euro, nel caso i due paesi perdessero l'accesso al mercato dei capitali a causa di una nuova impennata dei tassi di interesse. Denaro sicuramente insufficiente a salvare dal ''default'' Italia e Spagna che hanno complessivamente un debito pubblico di 2.600 miliardi, di cui 1.800 in titoli pubblici a medio e lungo termine.
Sulla faticosa costruzione della rete di sicurezza si sono consumate fratture importanti nell'Unione europea. Al Fondo salva-stati contribuiscono solo i 17 paesi della moneta unica piu' la Svezia, gli altri 9 dell'Unione europea, hanno declinato l'invito a metter mano al portafoglio.
Anche al rafforzamento dell'Fmi contribuiranno solo i paesi dell'Eurozona, nonostante la decisione fosse stata assunta da tutti i 27 paesi dell'Unione.
Si e' chiamata fuori la Gran Bretagna, promettono ma nicchiano Polonia, Repubblica Ceca, Danimarca e Svezia.
Spinto dalla disperazione, il presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, e' stato costretto a lanciare un imbarazzante appello ai paesi extra-europei del G20 ( Cina, India, Russia, Brasile Usa, paesi del Golfo) per mettere nuovo fieno in cascina. Da Pechino a Washington sono arrivati messaggi di sincera comprensione e solidarieta', ma non si e' visto un centesimo.
La crisi del debito sovrano ha sottolineato i limiti dell'architettura istituzionale europea, dove il mercato unico delle merci e dei servizi e' di tutti, mentre l'euro e' solo di quelli che vi aderiscono, oneri inclusi.
Nell'ultimo vertice europeo del 9 dicembre e' stato lanciato il progetto di unione fiscale propedeutico per una maggiore integrazione politica: sono i due tasselli che mancano per stabilizzare una moneta senza Stato. La strada si annuncia accidentata, alcuni paesi dell'Unione, Gran Bretagna in primis, hanno gia' rifiutato qualsiasi cessione delle sovranita' nazionale. In attesa che la politica trovi la ''quadra', l'onere della sostenibilita' dell'euro resta soprattutto in capo alla Bce.
Francoforte ha speso 273 miliardi di euro in titoli pubblici dei paesi sfiduciati dai mercati continuando ad inondare il mercato di liquidita' per scongiurare il collasso delle banche. Decisioni che hanno fatto crescere il bilancio della Bce a 2.700 miliardi di euro, +36% in 12 mesi, l'Eurotower ora ha un attivo di bilancio maggiore di quello della Federal Reserve, spesso indicata come esempio da seguire. Ma quest'ultima, al contrario della Bce, agisce come prestatore di ultima istanza del Tesoro Usa, di fatto ne garantisce la solvibilita'.
L'azione dell'Eurotower non ha impedito la ''frammentazione'' del mercato finanziario dell'Eurozona.
Non si spiegherebbe altrimenti la ritirata strategica dei capitali, dove oramai le banche investono solo nel debito pubblico del proprio paese vendendo i titoli di stato degli altri partner dell'unione monetaria. La frammentazione ha avuto importanti effetti per i tassi di interesse sul debito pubblico e conseguentemente sul costo dei prestiti bancari all'economia reale. Il tasso d'interesse unico, o quasi unico, compatibile con l'idea di una sola moneta e di una sola banca centrale, e' relegato nell'album dei ricordi.
Per finanziare il debito pubblico la Germania paga sui titoli di stato decennali tassi dell'1,93%, Olanda 2,24%, Finlandia 2,36%, Austria 3,06%, Francia 3,07%, Belgio 4,07% , Spagna 5,28%, Italia 7%, Irlanda 8,60%, Portogallo13,66%, Grecia 35%. Differenze che riportano ai tempi del marco tedesco, fiorino olandese, marco finlandese, scellino austriaco, franco francese, franco belga, lira italiana, lira irlandese, scudo portoghese, peseta e dracma.
Germania,Olanda, Francia, Austria Finlandia pagano sul debito pubblico interessi di gran lunga inferiori a quelli del 2007, ultimo anno di grazia dell'economia, gli altri spendono molto piu' di prima, dal doppio al triplo, alcuni non possono piu' nemmeno finanziarsi. E' lo specchio della grande fuga di capitali che lasciano il Club Med per trovare rifugio in paesi considerati piu' solidi. Non e' piu' una stravaganza chiedersi se un euro che circola a Berlino abbia lo stesso valore di quello che circola a Roma. A vedere come si sta distribuendo l'allocazione internazionale dei capitali sembra proprio che la moneta unica si sia sdoppiata: EuroNord ed EuroSud.
Nel 2012 per l'unione monetaria sara' difficile reggere una simile metamorfosi, il nodo da sciogliere si manifesta in termini finanziari, spread, tassi di interesse e cosi via, ma potra' essere sciolto da uno scatto in avanti della politica.
Cercasi leader disperatamente, non nazionali ma Europei.
men/sam/
«Il ritorno alla dracma? Sarebbe un inferno»
Un «eventuale ritorno della dracma spingerebbe la Grecia in un vero inferno, almeno per i primi anni». È l'allarme lanciato dal governatore della Banca di Grecia, Georges Provopoulos, in un'intervista pubblicata dal quotidiano liberale Kathimérini. «Il primo periodo transitorio sarebbe da incubo», sottolinea il governatore, mentre il Paese è strangolato dal pesante indebitamento e dalla recessione, nel decimo anniversario dell'entrata in vigore dell'euro.
Con il ritorno della dracma la Grecia, che dipende largamente dalle importazioni, si ritroverebbe «senza carburante, materie prime, prodotti agricoli...la gran parte dell'apparato dello Stato - scuole, ospedali, polizia, esercito - funzionerebbe al rallentatore, le condizioni economiche e sociali diventerebbero insopportabili, la qualità della vita si abbasserebbe inevitabilmente, perché la nuova moneta sarebbe svalutata del 60-70%», afferma Provopoulos. «Successivamente ci sarebbe un riequilibrio, ma i progressi compiuti negli ultimi decenni sarebbero perdut», aggiunge.
Il governatore della Banca di Grecia è comunque convinto che «la popolazione si mobiliterà nella sfida nazionale per tornare il prima possibile sulla strada del progresso economico e sociale all'interno della zona euro».
31 dicembre 2011
Adottare la moneta unica? Non c'è fretta
A eccezione di Danimarca e Gran Bretagna, che hanno negoziato una clausola di "opt-out" (di esclusione) dall'euro, tutti gli altri Paesi dell'Unione Europea hanno il diritto-dovere di aderire alla moneta unica. Dopo l'ingresso dell'Estonia, il primo gennaio scorso, le nuove adesioni dovrebbero avvenire non prima del 2014. Per quell'anno, se saranno stati rispettati i parametri fissati dal Trattato di Maastricht, dovrebbero entrare Lettonia e Lituania.
La Lettonia prevede di adottare l'euro al più presto nel 2014, ma in origine mirava ad adottare la moneta unica giá il primo gennaio del 2008. A causa degli elevati tassi di inflazione, è stata invece obbligata a posticipare questa data. Discorso simile per la Lituania, che aveva fissato il primo gennaio del 2007 come data obiettivo per l'adozione dell'euro, ma la sua richiesta è stata rifiutata dalla Commissione europea a causa del livello dell'inflazione, leggermente superiore al massimo consentito. Al momento, l'abbandono del litas lituano è previsto per il 2014.
La Bulgaria si è posta invece come data il primo gennaio del 2015, cosa che aveva fatto anche la Polonia, ma, dopo la crisi del debito sovrano degli ultimi mesi, Varsavia non vuole più indicare alcuna deadline. Ingresso previsto, per ora, nel 2015 anche dalla Romania.
31 dicembre 2011
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