Lombardo: ora l'abolizione delle Province
Bozen, oltrepadania. «Alle Province fisco e ordine pubblico»
Juncker, e' troppo presto per Eurobond
Grecia, non funziona messa in mobilità statali
In Germania i lavoratori non sono mai entrati in crisi
La nuova Duma
Lombardo: ora l'abolizione delle Province
Il governatore: "Mi auguro che l'Ars esamini il ddl con celerità". Lettera a Monti: "In Sicilia già troppe tasse"
PALERMO. "Mi auguro che l'Assemblea regionale adesso esamini il ddl sull'abolizione delle Province con la stessa celerità con cui ha approvato il ddl di riduzione del numero dei parlamentari". Lo ha detto il governatore della Sicilia, Raffale Lombardo. Il ddl prevede la costituzione di Liberi consorzi tra comuni.
Sulla manovra Lombardo ha aggiunto: "Possiamo agire su Irpef e Irap ma le tasse in Sicilia sono già ai massimi livelli. Per questo ho appena scritto un lettera al premier Monti. La Sicilia ha diritto a incassare le accise dei prodotti petroliferi". Lo ha detto in conferenza stampa il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo.
Bozen, oltrepadania. «Alle Province fisco e ordine pubblico»
Manovra, Dellai rilancia. Pronti 4 emendamenti per Roma. Il nodo Irap
BOLZANO. Lorenzo Dellai, presidente della Regione, non ci gira attorno: la manovra del governo Monti è «poco equa» e «penalizzante» per le autonomie. Un obiettivo ancora più pressante diventa così ottenere nuove competenze «come il prelievo fiscale e l'ordine pubblico». Ma nell'immediato bisogna cercare di tamponare: già pronti quattro emendamenti che saranno presentati a Roma.
A Bolzano si sono discussi finanziaria e bilancio della Regione ma pensando a quello che succede a Roma. Tanto che la seduta è iniziata approvando l'impugnazione davanti alla Consulta di alcuni articoli del decreto sul Patto di stabilità voluto dal governo Berlusconi a settembre.
DELLAI. Nella sua relazione il presidente della Regione ha evidenziato come la nuova manovra «richiede ai nostri territori notevoli sacrifici», «è sicuramente pesante e presenta non marginali aspetti di iniquità» per le autonomie. Certo, a differenza del governo Berlusconi l'esecutivo Monti sembra più aperto «alla concertazione». L'intesa col governo «sarà strumento fondamentale per adeguare i contenuti della manovra alla nostra autonomia, se del caso negoziando anche elementi di innovazione nel quadro delle competenze».
E infatti Dellai indica i principali obiettivi futuri in questo settore: «Dobbiamo rafforzare le garanzie sulle entrate attraverso nuove competenze in materia fiscale» e «non dovrebbe essere più un tabù» l'idea di maggiori responsabilità per ordine pubblico e sicurezza.
EMENDAMENTI. Ma intanto, in attesa di future trattative con Roma, gli ufficie i parlamentari lavorano per
presentare emendamenti alla manovra in fase di discussione. Quattro in particolare quelli concordati tra Bolzano, Trento e Aosta. Nessuno di questi chiede esplicitamente di ridurre il contributo a carico delle autonomie perché una tale richiesta in questa fase non sarebbe nemmeno ammessa alla discussione. Si punta però a fare riconoscere alcuni principi per evitare che crolli la diga dell'autonomia finanziaria, con conseguenze potenzialmente devastanti.
Il primo emendamento riguarda l'Imu: nella versione originale è previsto che i Comuni ne versino il 50% direttamente allo Stato, ma questo metterebbe in discussione il ruolo della Provincia di referente con Roma per la finanza locale. A trattare con lo Stato insomma deve essere la Provincia, possibilmente tramite norma d'attuazione, e poi quest'ultima fa i conti coi Comuni. Il secondo è sulla riserva all'erario, ossia il fatto che lo Stato si tiene per sé il gettito delle nuove tasse o dell'aumento delle vecchie. Un principio che la Provincia non contesta ma che chiede di «compensare»: per altro verso infatti la manovra prevede riduzioni di tasse (Ace, Irap e altro) che si trasformano in minori entrate per le casse provinciali.
Il terzo riguarda l'aumento dell'addizionale Irpef: anche qui non si contestano i 24 milioni richiesti ma il fatto che si violerebbe lo Statuto impedendo alla Provincia di decidere autonomamente se fare o meno esenzioni. L'ultimo è il più «sistemico» perché riguarda i 920 milioni chiesti alle autonomie. Chiesti come? In assenza di specifiche norme di attuazione, saranno accantonati presso lo Stato dalle tasse che dovrebbero tornare sui territori. Ma con questo sistema, si obietta, Roma non farà mai nuove norme d'attuazione: infatti quella sull'Accordo di Milano aspetta da due anni. Insomma bisogna riportare in vita le Commissioni dei 6 e dei 12, che da tempo non fanno più norme.
LA SVP. I quattro emendamenti tecnici saranno presentati - che siano ammessi è un altro discorso - in Commissione bilancio alla Camera. Saranno presentati dai due parlamentari Svp, Siegfried Brugger e Karl Zeller, e dal loro collega autonomista valdostano. Zeller (che presenterà anche suoi emendamenti, per chiedere che si alzi l'aliquota sui capitali scudati e per chiedere che la liberalizzazione dei nuovi insediamenti commerciali tuteli ambiente e urbanistica) è durissimo sulla manovra: «È scandalosa, impugneremo alla Consulta. Attaccano le autonomie, rinviano a norme di attuazione che si continuano a non fare... Una Provincia seria non può rapportarsi con uno Stato che cambia le carte in tavola ogni settimana. Rispetto a quanto concordato 3 anni fa, gli altoatesini pagano un miliardo in più all'anno». Il senatore Svp Oskar Peterlini ha scritto a Monti chiedendo un incontro tra il presidente e i parlamentari altoatesini.
PARADOSSO IRAP. Tra le misure a favore della crescita, la manovra prevede lo sgravio di 10600 euro di Irap per le aziende che assumano una donna o un under 35. Secondo i tecnici il provvedimento si dovrà applicare anche in Alto Adige: dove però sono stati appena deliberati sgravi per le aziende che fanno innovazione e nuove assunzioni. Insomma una somma di agevolazioni che farà felici le imprese ma non la Provincia, che si trova con un «buco» nelle entrate, per altro non ancora quantificabile.
SINDACATI. Contro la manovra si mobilitano anche i sindacati: lunedì Cgil, Cisl, Uil e Asgb manifestano davanti al Commissariato del Governo.
Juncker, e' troppo presto per Eurobond
Ipotesi valida solo con unione fiscale e forse ci vorranno anni
08 dicembre, 09:41
(ANSA) - ROMA, 8 DIC - Non ci sono ancora le condizioni nell'eurozona per l'emissione di Eurobond. Lo ha detto il presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker, a radio France Info - riferisce Bloomberg - precisando tuttavia che l'ipotesi resta un valido obiettivo per il futuro. ''Gli Eurobond non sono su tavolo ora e potrebbero volerci degli anni'', ha spiegato Juncker, dal momento che per crearli e' necessaria una unione fiscale che sia adeguata.
Grecia, non funziona messa in mobilità statali
La misura della sospensione temporanea dal lavoro (o messa in mobilità) dei dipendenti statali in eccedenza, decisa dal governo greco nell'ambito del programma per la riduzione della spesa pubblica, non ha dato i risultati desiderati. Infatti, secondo i primi dati diffusi dal ministero della Riforma Amministrativa, su 4.929 dipendenti che hanno lasciato il posto di lavoro dal 6 ottobre fino al 27 novembre, soltanto 515 di loro rientrano nella legge in questione.
Il resto degli impiegati è riuscito ad andare in pensione anticipata, presentando la domanda prima dell'entrata in vigore della legge, oppure aveva maturato gli anni di anzianità necessari (33) per andare regolarmente in pensione. In base a questi dati, quindi, è chiaro che non è possibile raggiungere l'obiettivo dei 30.000 dipendenti che in base alla legge dovevano andar via dal settore pubblico entro la fine del 2011, come prevedeva l'accordo con la troika.
Nel frattempo, in vista dell'arrivo ad Atene dei rappresentanti della troika - Paul Tomsen del Fondo Monetario Internazionale, Matthias Mors dell'Unione Europea e Claus Mazuch della Banca Centrale Europea - prevista per il 12 dicembre, aumentano le pressioni sul governo guidato dal premier Lucas Papademos affinch‚ risolva il problema. Diversamente, come prevedono vari analisti, i rappresentanti dei creditori internazionali della Grecia chiederanno ulteriori misure aggiuntive, senza escludere il licenziamento.
In Germania i lavoratori non sono mai entrati in crisi
di Werner Eichhorst
Il sistema tedesco di relazioni industriali, basato sulla cogestione e sulla contrattazione collettiva, ha garantito decenni di pace sociale e tutele per i lavoratori. Le riforme degli anni Novanta e la sfida del nuovo secolo: coniugare flessibilità ed equità.
1. L’attenzione per il modello tedesco di relazioni industriali negli ultimi tempi è cresciuta sia a livello interno sia a livello internazionale. Il motivo di tanta considerazione è naturalmente l’attuale performance dell’economia tedesca, capace non solo di far fronte alla recessione, ma addirittura di raggiungere tassi record di occupazione nel bel mezzo della peggior crisi economica del secondo dopoguerra.
Per molti osservatori è merito della ritrovata competitività del settore manifatturiero dedito all’esportazione – in particolare nella produzione di beni sofisticati come macchinari e parti meccaniche – dovuta anche al grande utilizzo di lavoro temporaneo, che ha permesso di continuare a impiegare i lavoratori più qualificati persino quando la domanda ha subìto un calo senza precedenti.
Per apprezzare a fondo il modello tedesco di relazioni industriali bisogna conoscerne le origini storiche e i cambiamenti degli ultimi 20-30 anni, maturati all’ombra di un sistema istituzionale – quale quello della Germania del secondo dopoguerra – quanto mai stabile. In questo lungo periodo gli interessi dei lavoratori sono stati rappresentati in un sistema duale che prevede sia la cogestione (nell’impresa e nel singolo stabilimento) sia la contrattazione collettiva per settori. Questo modello, mutuato dal periodo tra le due guerre mondiali, poteva essere riproposto solo in un momento in cui gli imprenditori erano deboli politicamente e i sindacati molto rispettati; c’è stato comunque bisogno di un duro scontro politico.
Il primo passo fu la legge sulla cogestione nel settore del carbone, dell’acciaio e delle miniere del 1951. Ancora oggi nei consigli di sorveglianza delle imprese di settore con più di mille lavoratori a questi ultimi spettano per legge gli stessi seggi degli azionisti: le dispute vengono risolte dal presidente del consiglio, che è neutrale. Nelle imprese siderurgiche e minerarie il responsabile delle risorse umane può essere nominato solo con l’assenso del rappresentante dei lavoratori. La cogestione non si riduce a questo settore in declino.
Il German Works Constitution Act del 1952, emendato nel 2004, si occupa delle companies con più di 500 lavoratori e stabilisce che un terzo dei membri del consiglio di vigilanza deve essere composto da loro rappresentanti. La legge sulla cogestione del 1976 ha stabilito l’uguaglianza tra rappresentanti dei lavoratori e degli azionisti nelle imprese con più di duemila impiegati. Qui però in caso di stallo il capo del consiglio, cui spetta il voto decisivo, è nominato dagli azionisti.
La cogestione a livello di impresa ha come fine la supervisione del management; l’influenza diretta dei sindacati sulle condizioni di lavoro e di occupazione deriva invece da quella a livello di singolo impianto, regolata dalla legge del 1952, che vale per tutte le aziende con più di 5 lavoratori.
Negli impianti la cogestione è volontaria, non obbligatoria: i lavoratori hanno il diritto di organizzare un consiglio del lavoro tramite elezioni. Questi consigli sono presenti solo nel 10% degli impianti, soprattutto in quelli medio-grandi, e non sono molto diffusi nelle piccole imprese. Oggi circa il 45% dei lavoratori del settore privato dell’ex Germania Ovest è rappresentato da un consiglio del lavoro; il 38% nell’ex DDR. Nel settore pubblico la percentuale è invece dell’88%.
I consigli del lavoro hanno – entro certi limiti – diritto a essere informati e consultati nella gestione dell’impresa, ma influiscono soprattutto sulle politiche delle risorse umane: riorganizzazioni interne, assunzioni e licenziamenti individuali, utilizzo di forme di impiego atipiche e determinazione degli orari di lavoro. Gli accordi tra i consigli e i datori di lavoro sono decisivi per determinare l’allocazione del personale e la capacità di reagire rapidamente a un cambio di struttura o del ciclo economico. È importante sottolineare che la legislazione tedesca auspica una cooperazione costruttiva tra le due parti e proibisce ai consigli del lavoro di iniziare scioperi nei singoli impianti.
I consigli non hanno voce in capitolo su negoziati regolati da accordi collettivi perché, secondo la legge sulla contrattazione collettiva del 1949, tali accordi di solito sono frutto di intese a livello settoriale o regionale. Un altro principio fondamentale è la non intromissione del governo in accordi che riguardano le condizioni di lavoro: ciò implica che tali accordi siano vincolanti solo per imprenditori e lavoratori affiliati alle parti che li hanno negoziati, per esempio sindacati e associazioni degli industriali.
Non c’è una procedura di arbitrato prestabilita: in molti settori si ricorre a meccanismi congiunti di risoluzione delle dispute frutto di intese bilaterali che prevedono un interlocutore neutrale. Questa formula si è dimostrata di successo nella maggior parte dei casi, a volte dopo scioperi e serrate. Salvo poche eccezioni, gli scioperi sono autorizzati solo se approvati dalla maggior parte dei membri dei sindacati e solo dopo il fallimento di negoziati e arbitrati. Gli imprenditori possono rispondere con le serrate.
2. Dalla sua implementazione, il sistema tedesco di negoziazione collettiva ha beneficiato della forza organizzativa delle parti sociali. Da una parte, oltre all’associazione nazionale, Berlino ha un sistema di associazioni di imprenditori a livello settoriale e regionale piuttosto vasto; dall’altra, a differenza di molti paesi in Europa, la maggioranza dei sindacati dei lavoratori qui è unita politicamente e aderisce a un solo grande sindacato nazionale. Le associazioni al vertice di entrambe le parti non sono comunque coinvolte nella contrattazione collettiva, ma si dedicano prevalentemente a fare lobbying politico e a coordinare i vari settori. La negoziazione a tre non è mai stata importante.
Il sistema di relazioni industriali può essere considerato senza dubbio un pilastro del successo economico tedesco nel secondo dopoguerra: ha assicurato un’equa ripartizione dei redditi e una ridotta conflittualità sociale, come dimostra il basso numero di scioperi e serrate. Il quadro si è fatto meno idilliaco dopo gli shock petroliferi degli anni Settanta, quando ridistribuire le risorse equamente è divenuto più difficile; in quel periodo dal mondo accademico e da quello dell’impresa si sono levate molte critiche al modello tedesco, che è stato accusato di essere troppo rigido e di impedire il rapido adeguamento alle nuove sfide, mettendo in pericolo la competitività dell’industria nazionale.
La portata e la logica del sistema sono state riformate a partire da quegli anni. Uno dei risultati è stata la diminuzione della copertura degli accordi collettivi, soprattutto di quelli di settore, dopo la riunificazione. Nel 1996 questi accordi valevano per il 69% dei lavoratori della Germania Ovest e per il 56% di quelli dell’ex DDR, mentre oggi si applicano rispettivamente solo al 56% e al 38%. Oggi il 36% dei lavoratori della Germania Occidentale e il 49% di quelli della Germania Orientale non è coperto da alcun accordo collettivo. Tali accordi rimangono la norma nelle grandi imprese manifatturiere, del comparto energetico, di banche e assicurazioni, oltre che nella pubblica amministrazione, ma sono molto meno diffusi nelle piccole aziende e nel resto del settore dei servizi.
Questa situazione è anche conseguenza della diminuzione di iscritti ai sindacati e alle associazioni degli imprenditori. Se quindi le piccole industrie e le start-up frequentemente operano al di fuori di accordi collettivi, la cogestione – soprattutto a livello di singolo impianto – continua a caratterizzare le imprese medio-grandi e quelle del comparto manifatturiero, contribuendo alla pace sociale e alla fruttuosa interazione tra dirigenti e impiegati.
Questa rete di relazioni ha permesso alle aziende di adeguarsi rapidamente al frenetico ambiente economico nel quale operano. I consigli del lavoro in particolare hanno saputo agire in maniera pragmatica, rappresentando le istanze dei lavoratori e cercando di stabilizzare il grosso della forza lavoro, ammorbidendo al tempo stesso gli effetti delle ristrutturazioni aziendali.
Da metà degli anni Novanta è cresciuta la portata degli accordi a livello di singolo impianto, che a volte hanno derogato agli accordi collettivi di settore pur di proteggere l’occupazione adattandola (in termini di orario e salari) alle esigenze specifiche di ogni impresa: di conseguenza, gli stessi accordi di settore sono divenuti più flessibili, dando maggiore discrezionalità alle singole aziende.
3. Col senno di poi si può dire che proprio questa maggiore flessibilità e discrezionalità a livello aziendale ha rafforzato il sistema di accordi collettivi. Dagli anni Novanta c’è stato un modesto aumento dei salari (nominali e reali) e una crescita dell’occupazione. Si è però creata una distinzione tra lavoratori superspecializzati e non, per cui i primi beneficiano di condizioni contrattuali migliori mentre i secondi sono esposti in maniera sproporzionata alla precarietà.
Questa divaricazione è emersa con chiarezza durante la crisi economica contemporanea, che ha colpito duramente il settore manifatturiero orientato all’esportazione, una tradizionale roccaforte del sindacalismo a livello di singolo impianto. Da una parte, i lavoratori più specializzati sono stati tutelati attraverso meccanismi di aggiustamento interno come la sospensione degli aumenti salariali e la riduzione dell’orario effettivo di lavoro: così sono stati salvati 350 mila posti di lavoro, anche se 300 mila precari sono stati licenziati, per poi essere riassunti appena è cominciata la ripresa economica.
Pur ammodernato, questo sistema non è necessariamente stabile. Il problema principale è la crescente disparità di condizioni: la cogestione a livello di singolo impianto ha contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro, che ora protegge i lavoratori stabili e scarica maggiori rischi sui precari. Gli imprenditori e i consigli del lavoro hanno creato un sistema piuttosto vantaggioso per un numero sempre più ridotto di lavoratori, mentre chi riceve i contratti in subappalto e chi ha contratti di lavoro temporaneo deve accettare salari notevolmente inferiori. Ciò crea tensione sia all’interno dell’impresa sia nel mercato del lavoro in generale.
Si osserva pertanto un aumento della tendenza a stipulare accordi individuali su salari e condizioni di lavoro. In un’economia alle prese con l’invecchiamento della popolazione e la crescita della tecnologia, i lavoratori qualificati sono in grado di negoziare da soli, anche al di fuori di accordi collettivi. Oltretutto, i sindacati storici stanno perdendo importanza, a vantaggio di quelli indipendenti, capaci di negoziare per conto di segmenti piccoli ma importanti come i medici, i piloti o i macchinisti. L’atteggiamento aggressivo di questi piccoli sindacati porta all’aumento della conflittualità, a più scioperi e a repentini aumenti salariali.
Il rovescio della medaglia è che in Germania sono cresciuti i lavori pagati poco, in particolare in quei sottosettori in cui la contrattazione collettiva è assente a causa della debolezza strutturale dei sindacati e delle organizzazioni degli imprenditori. Di conseguenza i sindacati, di solito custodi gelosi del loro diritto di contrattare autonomamente salari e condizioni di lavoro, hanno iniziato a battersi a favore di un minimo salariale nazionale, reclamando l’intervento dello Stato al riguardo.
Al momento sulla questione non è stato raggiunto alcun accordo politico. La classe politica potrebbe però accordarsi sull’espansione dei settori in cui un minimo salariale negoziato almeno dalla metà dei lavoratori sarebbe ritenuto vincolante per tutti. Dalla metà degli anni Novanta un accordo di questo tipo è stato attuato solo nel settore edilizio, ma ora anche in alcuni servizi è previsto un minimo salariale.
Un caso particolare è quello degli agenti temporanei. Gli accordi collettivi esistenti in questo settore permettono di derogare al principio dell’uguaglianza dei salari, ma i livelli sono molto al di sotto del corrispettivo percepito da chi lavora a pieno titolo nelle imprese. Un accordo che fissi il minimo salariale è imminente, ma il vero problema è ridurre il gap tra consulenti e lavoratori interni all’azienda. Proprio nella necessità di conciliare le esigenze di flessibilità e competitività con quelle di equa redistribuzione di rischi e benefici economici – esemplificata dal caso degli agenti e dei consulenti – risiede la sfida più grande per il sistema tedesco di relazioni industriali.
(traduzione di Niccolò Locatelli)
La nuova Duma
di Ida Magli
ItalianiLiberi | 04.12.2011
Finalmente i progettisti dell’Unione europea hanno gettato la maschera. Una maschera debole, trasparente, quasi inutile, quella che hanno portato fino ad oggi, ma pur sempre maschera. Mercato, mercato, mercato; finanza, finanza, finanza; ma soprattutto: democrazia, democrazia, democrazia. Da oggi, non più. Abbasso la democrazia, viva la dittatura. Il New York Times esalta il suo nuovo eroe: il Re Giorgio che, con piglio autoritario, è riuscito in un colpo solo a far governare l’Italia da persona non eletta e a far indossare al Parlamento italiano le vesti della Duma, quella Duma di cui il nostro Presidente sentiva profonda nostalgia visto che era formata dal partito unico e approvava immancabilmente le decisioni prese da Stalin.
Il gioco del “debito”, poi, ha anch’esso messo in mostra il suo scopo. Non è l’aver ceduto la sovranità monetaria che sta riducendo le nazioni al lumicino - ci ripetono instancabilmente i banchieri europei e del mondo intero - ma il fatto che insieme a quella monetaria non avete ceduto anche la sovranità su tutto il resto: il governo finanziario, l’imposizione delle tasse, il sistema pensionistico, la politica estera… Insomma, cosa pretendono le nazioni ? Di essere ancora “nazioni”? Di conservare qualche briciola di sovranità? Sciocchezze da “maiali” quali siete. L’euro sarebbe stata la più forte delle monete se non avessero voluto metterci le mani i governi nazionali. Imparate dunque, cari miei, dalla prima della classe. La Germania, lei sì che è furba! Non ha avuto che da cambiare il nome alla propria moneta e oplà, eccola a fare affari a meraviglia con tutto il mondo e con la vicina, simpaticissima Russia sopratutto. Non per nulla è stato il suo grande guru Helmuth Kohl a imporre all’euro il valore del marco. E chi aveva la lira, chi aveva la dracma, che non valevano neanche la centesima parte del marco? Sono stati i loro governanti a truffarli e dunque che vogliono? Arranchino, piuttosto. Non è compito dei tedeschi preoccuparsi degli alleati o dei sudditi. Nell’Ue poi gli alleati-sudditi sono tutt’uno: obbediscano e facciano bene i compiti.
Adesso, però, siamo arrivati al punto di non ritorno. I cittadini non hanno nessun potere, salvo che si voglia giungere alla ribellione, cosa che nessuno si augura. Gli unici che hanno ancora in mano la possibilità di non tradire gli italiani, consentendo la sopravvivenza dell’Italia come Stato sovrano e indipendente sono i parlamentari. Andare avanti sulla strada intrapresa con l’Unione significa la soggezione totale ai banchieri, la perdita di qualsiasi residua libertà e il progressivo impoverimento dovuto all’aumento del debito. Questa, infatti, è cosa sicura: la mancanza di una moneta emessa dal proprio stato e non soggetta, perciò, al pagamento degli interessi alla Bce , può garantire soltanto l’aumento del debito in forma esponenziale e la contrazione delle possibilità di mercato. I parlamentari riflettano se convenga rimanere alla storia per aver votato Sì a tutto questo. Se hanno un dubbio, chiedano agli elettori di decidere: indicano un referendum sull’Ue.
Ida Magli
www.italianiliberi.it
Roma, 3 Dicembre 2011
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