Questa rabbia non è il Cile di Allende
Lucia Annunziata
Addirittura, si sta scomodando il Cile di Salvador Allende.
Audacissima citazione di vicende passate, in cui, è vero, affonda radici la mitologia che attribuisce ai camionisti un ruolo di «forza d’urto» delle rivolte sociali, ma la cui storia concreta, probabilmente dimenticata oggi nei suoi dettagli, è quanto di più lontano ci sia dalla rivolta sulle strade italiane oggi.
La prima diversità fra la ribellione in Cile e quella di oggi in Italia è nelle ragioni della lotta: i camionisti cileni si scagliarono contro le nazionalizzazioni, questi italiani lottano contro le liberalizzazioni. Un universo dunque capovolto, che giustifica dal suo impianto la forza di quelli (i cileni) e le debolezze di questi (gli italiani). Le nazionalizzazioni di cui Salvador Allende, presidente eletto in Cile il 4 settembre del 1970, furono un’operazione radicale dentro il Paese e destabilizzante dentro i rapporti internazionali. Contro quelle misure si scagliavano dunque anche le grandi multinazionali, in particolare degli Stati Uniti. Le liberalizzazioni di Mario Monti, specie quelle che toccano I camionisti, sono (almeno per ora) ritocchi che i mercati e le istituzioni internazionali attendono da tempo.
Il giorno 9 ottobre del 1972, lo sciopero dei camionisti, cui si aggiunsero i trasporti tutti, microbus e taxi compresi, non arrivò in Cile come una sorpresa. La Confederación Nacional del Transporte, guidata da León Vilarín (la cui potenza politica secondo un suo collega sindacale «valeva milioni di dollari»), espressione del gruppo dell’ultradestra «Patria y Libertad», riuniva 165 sindacati di camionisti, contava 40 mila iscritti e controllava 56 mila veicoli. Come si è poi scoperto, nel corso della declassificazione dei documenti del governo americano, lo sciopero era parte di quello che un memoriale della Cia definiva «Plan Septiembre», ed era così poco una sorpresa che venne annunciato dall’allora ambasciatore americano in Cile, Nathaniel Davis, con un messaggio segreto indirizzato direttamente a Nixon, con un giorno di anticipo. Il testo, brevissimo, diceva: «Per proteggere gli interessi dell’opposizione, lo scontro può rivelarsi inevitabile». Lo sciopero dei camionisti si prolungò per 24 giorni, mise in ginocchio il Paese, e si concluse, almeno in una sua prima fase, con la decisione da parte di Allende di procedere a un rimpasto di governo facendo entrare agli Interni un militare, e con la promessa di non toccare il settore. Non servì né l’una né l’altra mossa. E i camionisti si affermarono come coloro che avevano segnato l’inizio della fine del governo Allende, fama in verità immeritata ed esagerata. Nemmeno quello sciopero che tagliò in due un Paese strettissimo e lunghissimo, attraversato da una sola strada, avrebbe infatti potuto avere l’effetto che ebbe se non fosse stato per le tante e incredibili condizioni in cui si sviluppò.
E anche di queste conviene forse parlare adesso per capire quanto abissalmente diverse siano le situazioni del mondo negli anni di allora e quello (Italia compresa) di oggi.
Torniamo così su nazionalizzazioni e liberalizzazioni.
Salvador Allende inizia ufficialmente il suo mandato il 4 novembre 1970, Presidente scaturito da una sorta di scherzo della storia: il suo è il primo governo di sinistra che va al potere regolarmente eletto in un pianeta in cui la sinistra tutta pensa ancora che il potere si ottenga con la rivoluzione. L’elezione di Allende diventa così un vero e proprio esperimento nel cuore della Guerra Fredda. La sinistra lo osserverà con scetticismo e passione insieme (per Enrico Berlinguer sarà una tappa centrale del suo percorso di ricollocazione del Pci); per il mondo atlantista, Stati Uniti in testa, è il materializzarsi di un nuovo pericolo per il sistema, dopo l’infezione del subcontinente da parte della Rivoluzione cubana. Un pericolo tanto più insidioso perché legittimato dalla democratica pratica elettorale, coperto da una alleanza con settori moderati, e articolato intorno a un programma economico coerente. A tutto questo va aggiunto un Medioriente che in quegli anni è molto in bilico, già attraversato da guerre e da quella febbre della nazionalizzazione del petrolio che porterà poi alla crisi petrolifera del 1973 causata dalla interruzione dell’approvvigionamento di petrolio proveniente dalle nazioni appartenenti all’Opec.
Le riforme cui Allende mette mano alacremente sono effettivamente impressionanti per audacia ed estensione. A partire dalle «prime quaranta misure di base», fra cui la refezione scolastica per tutti gli alunni della scuola di base, il mezzo litro di latte gratuito al giorno a ogni bambino al di sotto dei 14 anni e alle madri in attesa; l’istituzione di asili nido e scuole d’infanzia per 80 mila bambini, la distribuzione gratuita dei libri di testo nella scuola dell’obbligo; l’aumento delle borse di studio (le iscrizioni al primo anno di università aumentano subito dell’80%); l’apertura di consultori e di nuovi ospedali; un programma di edilizia popolare, l’alfabetizzazione degli adulti, l’estensione a tutti della pensione di vecchiaia, l’innalzamento dei minimi salariali e pensionistici, l’adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi.
Poi ci sono le riforme vere destinate ad intaccare la struttura economica del Paese. Tra il dicembre del 1970 e il gennaio del 1971 il governo prepara in Parlamento la nazionalizzazione del rame, del salnitro, del carbone e del ferro; istituisce l’Area de propiedad social (Aps), la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese statali. Accelera la riforma agraria. E procede all’acquisizione allo Stato delle banche cilene (di cui il 3% monopolizza il 45% dei depositi, il 55% dei profitti e il 44% dei prestiti) e di quelle straniere - fra cui le filiali delle americane First National City Bank e Bank of America - con l’accordo delle banche medesime. Nel 1971 viene nazionalizzata anche la Compañía de Teléfono y Telégrafo, proprietà della multinazionale nordamericana Itt.
Il primo impatto è straordinario:l’utilizzo degli impianti risale dal 75 al 95%, la disoccupazione scende in due anni dal 9 a meno del 4%, la crescita del Pil raggiunge nel 1971 il 7,7%. La ricaduta è altrettanto straordinaria. Le reazioni interne ed estere a questo programma, che di fatto intacca interessi fondamentali delle multinazionali, fra cui innanzitutto quelli del rame, portano a paure, poi a complotti, spostamento di capitali all’estero, speculazioni e manovre politiche. La visita di tre settimane di Fidel Castro nel novembre del 1971, parte di un lungo tour nelle capitali dell’America Latina e in Unione Sovietica, mette probabilmente un chiodo definitivo sulla bara del progetto del socialismo pacifico. Kissinger e Nixon faranno di tutto per accelerare il fallimento di questo governo ed è storia nota, narrata peraltro da tutte le carte declassificate della Cia, pubblicate oggi sul sito ufficiale della Cia stessa.
I camionisti – torniamo a loro – diventano la parte emersa di questo quadro di tensioni. Persino la loro repressione è difficile per Allende perché a quel punto il governo non si fida già di esercito e polizia. E un altro elemento va aggiunto al quadro di «destabilizzazione»: allo sciopero dei trasporti e «dei padroni», come verrà chiamata dalla sinistra tutta la mobilitazione di vari settori che si aggiungono ai camionisti: medici, farmacisti, avvocati, commercianti all’ingrosso e dettaglianti, la sinistra reagisce nei fatti dividendosi. Le organizzazioni di base della sinistra, dei lavoratori, i gruppi più militanti, si mobilitano per annullare le conseguenze dello sciopero che blocca il Cile, e nei fatti cercano di imporre ad Allende di passare a una fase più radicale del suo governo. L’insieme di queste tensioni porta presto il Paese a quello che il Presidente stesso definì «l’orlo della Guerra Civile».
Come finì, si sa. Questa ricostruzione serve oggi solo a far mente locale su di noi. Nulla di quella drammatica era è anche solo pallidamente rispecchiata dalla realtà in cui ci troviamo. Diverse le condizioni sociali, ma anche le condizioni internazionali, e i progetti. Noi viviamo oggi in un mondo molto ricco e molto disfunzionale, e i progetti di riforma che abbiamo davanti sono, almeno per ora, ritocchi se comparati alle sofferenze che questo stesso nostro mondo ha già vissuto. Il che non significa che non sia necessario decidere, discuterne, e anche ribellarsi. Ma le parole e i parallelismi hanno un loro perverso modo di funzionare: se evocati, anche se sono solo fantasmi, hanno a volte il potere di tornare reali.
Nessun commento:
Posta un commento