sabato 11 febbraio 2012

News_sera_11.2.12. La Clessidra della Fiera dell’Est - Carlo Bastasin: C'è una dittatura dell'emergenza, ma in realtà la clessidra greca dovrà essere girata ancora molte volte. Atene rimarrà sotto la tenda ad ossigeno per anni. Sulla base dei conti attuali, nel 2020 il debito pubblico non arriverà al 120%, ma al 135%.---Alessandro Merli: La crisi greca e la recessione dell'area euro rischiano di avere pesanti ripercussioni su Europa centrale e Balcani, sostiene il presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, Thomas Mirow.---A Wall Street il premier trascorre circa due ore e vede gli operatori di borsa. I mercati ci chiedono di continuare quello che abbiamo cominciato» commenta subito dopo. E si dice sicuro di aver convinto gli investitori.

Monti: «Italia fuori dell'euro? Fiction»
Produzione ferma nel 2011
Multe latte, Bruxelles apre un'indagine sull'Italia
Grecia. La dittatura dell'emergenza
«La crisi dimezza la crescita a Est»
Bozen, oltrepadania. Scoperti dalla Finanza 166 evasori totali
Belluno, oltrepadania. La protesta dell’esule istriano «Rinuncio alla cittadinanza»




Monti: «Italia fuori dell'euro? Fiction»
New York, il premier incontra la comunità finanziaria:
«I mercati? Credo di aver convinto gli investitori»
MILANO - «Non credo ci sarà un default della Grecia» né una sua uscita dall'euro. Così il premier Mario Monti, da New York, a proposito dell'aggravarsi della crisi ad Atene. Il presidente del Consiglio italiano esclude anche qualsiasi legame della Grecia con l'Italia e liquida come una «thrilling fiction» l'ipotesi che il nostro Paese possa finire fuori dalla zona euro.
LA VISITA NEGLI USA - Monti è stato a New York per incontrare la comunità finanziaria e il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon. «Torno in Italia più determinato che mai a proseguire l'azione sulle riforme economiche» conclude nel corso della conferenza stampa alla rappresentanza italiana, al termine della visita di due giorni che definisce «intensa e istruttiva in ogni incontro».
MERCATI - A Wall Street il premier trascorre circa due ore e vede gli operatori di borsa. I mercati ci chiedono di «continuare quello che abbiamo cominciato» commenta subito dopo. E si dice sicuro di aver «convinto gli investitori». «L'atteggiamento positivo verso la serietà dell'Italia nell'affrontare i problemi - spiega Monti - può spingere gli investitori internazionali a tornare sui titoli italiani». Il presidente del Consiglio riferisce inoltre di aver riscontrato «molto interesse per l'Italia e il mercato italiano».
BILANCIO - Monti garantisce anche sulla salute dei conti pubblici italiani: «Eravamo in una condizione d'emergenza. Quello che abbiamo ottenuto finora sono misure che riportano il budget a un equilibrio che arriverà entro il 2013, cioè due anni prima di molti Stati appartenenti all'Unione europea». «I tassi d'interesse che in questo momento sono troppo alti stanno scendendo e scenderanno ancora - aggiunge inoltre - dando un "bonus" che potrà essere usato per stimolare la crescita». Monti ricorda quindi le misure di liberalizzazione e di semplificazione, pur sottolineando che manca ancora la riforma del mercato del lavoro: «Vorremmo arrivare a una conclusione entro marzo per renderlo più flessibile, moderno e meno discriminatorio, rispetto ai giovani e a chi sta fuori».
BANCHE - Dai microfoni di Cnbc, Monti sottolinea infine che «le banche nei Paesi che sono altamente indebitati sono più vulnerabili, ma le banche italiane sono state meno colpite di altre» dagli effetti della crisi. Circa il declassamento da parte di Standard & Poor's di 34 istituti italiani, il premier commenta: «È in gran parte un effetto atteso di precedenti decisioni».

Produzione ferma nel 2011
Luca Orlando
 MILANO
 Male dicembre, peggio gennaio. Il combinato disposto dei dati Istat e del Centro studi di Confindustria per la produzione industriale delinea un quadro preoccupante, con crescenti difficoltà per quasi tutti i settori dell'economia. Confindustria stima per il primo mese del 2012 un calo della produzione industriale dell'1,8% rispetto a dicembre, portando al 20,2% la distanza dal picco precrisi di aprile 2008, mentre gli indicatori qualitativi anticipano ulteriori difficoltà per i prossimi mesi. In gennaio la componente ordini dell'indice PMI manifatturiero è rimasta in territorio recessivo per l'ottavo mese consecutivo. Gli ordini al l'export, in particolare, sono visti in calo per il sesto mese consecutivo, seppure ad un ritmo meno ampio.
 A dicembre, certifica l'Istat, la produzione si è ridotta su base tendenziale dell'1,7%, mentre cresce dell'1,4% rispetto al mese precedente. Il risultato di dicembre azzera così il bilancio dell'intero 2011, dove ad un primo semestre positivo è seguita una seconda parte del l'anno in decisa frenata.
 Crescita zero dunque, anche se con ampie differenze settoriali. Su base annua il risultato migliore è per i fabbricanti di macchinari e attrezzature, con un aumento del l'8,6%, confermato da un ottimo +7,1 dell'ultimo mese dello scorso anno. Robot, macchine per il packaging, per le piastrelle e per il tessile sono esempi di categorie che sono riuscite a tamponare la crisi grazie alla forte propensione internazionale, in molti casi vicina al 90% dei ricavi aziendali. Il rallentamento della zona euro, appesantita dalla crisi dei debiti sovrani esplosa tra agosto e settembre, è stato almeno in parte compensato dalla corsa dei Bric's, con economie che crescono a tassi tra il 7 e il 10 per cento.
 Bene nel 2011 anche la metallurgia, grazie al traino della meccanica e dell'auto tedesca, mentre per il settore farmaceutico il balzo produttivo di dicembre (+10,1%) riesce a riportare in terreno positivo la performance annuale.
 Risultati poco brillanti anche per il comparto alimentare, tra i settori anticiclici per eccellenza.
 Secondo l'ufficio studi di Federalimentare, «sulla base dei primi dati disaggregati resi oggi disponibili dall'Istat, la variazione sui dodici mesi 2011/ 2010 sui dati grezzi evidenzia un calo della produzione alimentare pari al -1,7%, flessione che a parità di giornate lavorative sui dodici mesi si contrae al -1,1%, dato decisamente negativo anche in considerazione delle serie storiche della produzione industriale degli ultimi 40 anni». Il 2011 segna poi, evidenzia Federalimentare, «un altro primato negativo: il settore alimentare conosce per la prima volta la flessione peggiore rispetto al totale dell'industria».
 Se l'alimentare riesce comunque a contenere i danni, non altrettanto accade per il tessile e l'abbigliamento, giù di quasi l'11% a dicembre.
 A dicembre 2011, nel confronto con lo stesso mese del 2010, l'elettronica, dopo alcuni mesi di variazioni negative, ha registrato un nuovo rimbalzo positivo della produzione industriale (+7,2%). L'elettrotecnica si è mantenuta al contrario in territorio negativo, mostrando una flessione del 9,3% (-1,2% la corrispondente variazione nella media del manifatturiero nazionale).
 «Nel corso del 2011 – spiega il presidente di Confindustria Anie Claudio Andrea Gemme – il ritmo di recupero dalla crisi ha perso vitalità, risentendo di uno scenario macroeconomico più critico. Le maggiori criticità restano legate alla domanda interna. Frena da tempo il percorso di sviluppo delle imprese Anie il mancato processo di infrastrutturazione del Paese. Il grado di obsolescenza delle reti più strategiche impone un cambio di rotta, per sostenere la competitività nazionale. In questo 2012 che si preannuncia difficile, gli investimenti in infrastrutture, nella componente delle nuove opere e della manutenzione di quelle esistenti, potrebbero essere lo strumento chiave anticiclico per favorire il rilancio della crescita economica del Paese».
 Il quadro poco brillante di dicembre e gennaio difficilmente potrà migliorare in questo mese, dove le precipitazioni nevose e il gelo hanno creato disagi e problemi rilevanti anche alle attività produttive. La necessità di contenere i costi dell'energia ha spinto inoltre quasi duemila aziende ad aderire ai cosiddetti contratti di "interrompibilità" nelle forniture di gas, e proprio in questi giorni numerosi impianti sono stati chiusi proprio per rispettare gli accordi siglati.

Multe latte, Bruxelles apre un'indagine sull'Italia
Alessio Romeo
 ROMA
 La Commissione europea ha avviato ieri una procedura d'indagine formale contro l'Italia sulla proroga del pagamento delle multe latte. Si tratta di un ulteriore passo (è stato preceduto da una richiesta di chiarimenti che non è stata ritenuta soddisfacente) verso la procedura d'infrazione vera e propria. Bruxelles in particolare contesta la proroga di sei mesi concessa dalla legge n. 110/ 2011, che ha posticipato al 30 giugno il pagamento della rata dei prelievi sul latte in scadenza a fine 2010. La rateizzazione dei pagamenti era stata accordata all'Italia nel 2003, quando l'allora ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, tenne in scacco l'Ecofin a Bruxelles (dove si vota all'unanimità) pur di ottenere un piano che consentisse agli allevatori di mettersi in regola con il pagamento delle multe comunitarie per il mancato rispetto delle quote produttive.
 La proroga del pagamento era stata poi concessa dal Governo Berlusconi dopo un duro scontro tra l'ex ministro delle Politiche agricole, Giancarlo Galan, con la Lega (con annessa minaccia di dimissioni di Galan, poi rientrata), da sempre al fianco degli allevatori splafonatori. Quelli interessati alla rateizzazione del 2003 sono circa 15mila, ma solo pochi di loro hanno beneficiato della dilazione di pagamento. E su quest'aspetto si baserà verosimilmente la strategia del Governo per evitare l'apertura dell'infrazione, stretto tra l'impegno al rispetto della legalità comunitaria e la difficile situazione economica degli allevatori.
 «Cercheremo di convincere la Commissione europea – ha fatto sapere ieri il ministro delle Politiche agricole, Mario Catania – che la norma in questione non ha avuto alcun apprezzabile impatto e non comporta una sostanziale violazione delle regole previste dalla rateizzazione del 2003».
 Secondo la Commissione Ue però la proroga non poteva essere concessa in quanto la decisione dell'Ecofin del 2003 prevedeva che i produttori restituissero allo Stato italiano i mancati prelievi mediante rate annuali di uguale importo. L'Italia ha ora un mese di tempo per dimostrare che la proroga non viola le norme comunitarie sugli aiuti di Stato. Non a caso, solo due giorni fa, il leader della Lega, Umberto Bossi, si era rivolto al premier Mario Monti per chiedergli un impegno a risolvere la delicata partita delle quote latte.
 A chiedere invece il rispetto delle regole comuntarie, senza sconti per gli splafonatori, sono tutte le associazioni agricole italiane. A partire dalla Coldiretti, secondo la quale «non c'era alcuna valida motivazione per un'ulteriore proroga del pagamento delle multe che di fatto ha danneggiato gli allevatori che hanno creduto nello Stato e si sono messi in regola affrontando duri sacrifici economici». L'associazione agricola ricorda anche di essersi duramente opposta alla proroga, «che ha danneggiato gli interessi degli allevatori italiani che hanno rispettato le regole e che negli anni, proprio per questo motivo, hanno acquistato o affittato quote per un valore complessivo di 2,42 miliardi di euro».
 Sulla stessa lunghezza d'onda Confagricoltura, che sottolinea «la necessità di assicurare l'applicazione delle norme nel rispetto dei sacrifici sopportati da chi ha applicato le leggi e di chi, comunque, ha pagato le multe».
 «Quella delle quote latte è una storia che deve finire presto – rincara la dose la Confederazione italiana agricoltori (Cia) –. In questi anni si sono tutelati gli splafonatori, il cui operato ha causato soltanto danni. Mentre si sono ignorate completamente le esigenze dei tantissimi agricoltori onesti che stanno vivendo una fase di grande crisi».
 Ancora più duro, infine, il commento di Fedagri-Confcooperative: «Dall'Europa arriva un segnale forte per una rigorosa applicazione della normativa sulle quote latte finalizzata a porre fine a privilegi e impunità finora concessi in Italia ad una sparuta minoranza di irriducibili produttori inadempienti, che da sempre abbiamo denunciato».
 La produzione in esubero di un manipolo di allevatori italiani fa parte integrante del sistema delle quote latte fin dalla sua introduzione nel lontanto 1984 per calmierare la produzione europea e garantire prezzi migliori agli allevatori. Un sistema, però, che all'Italia, da allora, è costato oltre 4 miliardi di multe per il mancato rispetto dei contingenti produttivi. Multe, è bene ricordarlo, già pagate dall'Italia, perché il meccansimo prevede che in caso di inadempienze sia lo Stato membro a saldare Bruxelles, salvo poi rifarsi sugli allevatori non in regola. Che finora hanno beneficiato di ben due piani di rateizzazione: il primo concordato appunto nel 2003 e il secondo nel 2009 con Luca Zaia alla guida del ministero. Con l'impegno di pagare tutte le multe pregresse ottenendo in cambio quote produttive supplementari. L'ultimo atto risale all'estate scorsa quando Saverio Romano ha bloccato i recuperi forzosi di Equitalia.
 La fine del sistema delle quote è già stata fissata dall'ultima riforma della Politica agricola comune al 2015. Per fortuna.

LE TAPPE
1984
 Per fermare i continui surplus di latte la Ue decide di introdurre dei contingenti produttivi basati sulle quantità commercializzate, con multe salate per chi sfora
 1989
 L'applicazione della riforma in Italia risulta subito difficile: Bruxelles prima consente l'attribuzione delle quote alle associazioni, ma poi impone la ripartizione ai singoli produttori
 1992
 La Ue contesta i dati italiani sull'attribuzione delle quote e chiede multe per oltre 6mila miliardi di lire
 1997
 Dopo un accordo Italia-Ue scoppia la protesta degli allevatori che rifiutano di pagare le multe e bloccano l'aeroporto Linate. Nascono i Cobas del latte
 2003
 Al termine di un duro negoziato l'Ecofin autorizza l'Italia a rateizzare i pagamenti per gli allevatori in 14 anni senza interessi
 2008
 L'ultima riforma della Pac assegna all'Italia un aumento immediato della quota produttiva (pari al 5% del totale); viene decisa la fine delle quote dall'aprile del 2015

Grecia. La dittatura dell'emergenza
 Carlo Bastasin
 In un susseguirsi di ultimatum, la Grecia vive dentro una specie di clessidra. In un clima di grave concitazione, scandito ora dopo ora da scontri di piazza e dimissioni nel governo, il Parlamento di Atene dovrebbe votare domenica sera il pacchetto di austerità. Mercoledì, salvo incidenti, l'Eurogruppo formalizzerà il nuovo pacchetto di aiuti senza il quale la Grecia fallirebbe.
 C'è una dittatura dell'emergenza, ma in realtà la clessidra greca dovrà essere girata ancora molte volte. Atene rimarrà sotto la tenda ad ossigeno per anni. Sulla base dei conti attuali, nel 2020 il debito pubblico non arriverà al 120%, ma al 135%. L'ultima analisi consegnata dal premier Lucas Papademos al Fondo monetario riporta che il Pil greco calerà quest'anno del 4-5%, anziché del tre. I partner europei chiedono ai partiti greci di impegnarsi formalmente a rispettare le condizioni anche dopo le elezioni generali di aprile. Dei tre maggiori partiti l'unico che si sottrae è quello che ha meno possibilità di governare. Il quadro in fondo è sia chiaro, sia incognito: la Grecia accetterà le condizioni che ne limitano la sovranità politica in cambio di un salvataggio privo di alternative che durerà dieci anni.
 Saranno dunque strane elezioni in aprile per quelli che il quotidiano di Atene "Kathimerini" definisce «politici da dracma». Stiamo parlando certo di politici che hanno nascosto le carte e che hanno usato la minaccia di default sul tavolo dei negoziati come un'arma di ricatto verso i partner. Ma parliamo in realtà soprattutto di milioni di cittadini greci impoveriti che hanno paura del futuro.
 Per rispetto delle democrazie bisogna saper uscire dalle categorie generali e guardare ai fatti. Quando la troika (Fondo monetario e istituzioni europee) prescrisse per la prima volta una riforma del lavoro alla Grecia nel 2010, la procedura fu la seguente: la riforma venne scritta tra Washington e Bruxelles, quindi fu portata alla sede ateniese di uno studio legale internazionale in modo che fosse scritta nei termini compatibili con la legge greca. Infine il testo, così com'era, venne consegnato al Governo - allora guidato da Georges Papandreou - in modo che non potesse più essere modificato dal Parlamento. I politici greci nascosero la realtà agli elettori, mentre la dialettica in Europa liquidava il problema del consenso come un danno collaterale. Si scopre oggi che le riforme del primo pacchetto di aiuti alla Grecia non sono ancora state realizzate interamente. Ci si può davvero sorprendere?
Noi italiani siamo confortati dal recupero di credibilità ottenuto grazie a Mario Monti, ma se nello scorso novembre il Paese fosse invece precipitato nel burrone greco - e con minori responsabilità - come avremmo reagito a una riforma del mercato del lavoro imposta in termini simili? Tra la pressione dei mercati, delle agenzie di rating e dei partner, le difficoltà dietro al negoziato greco richiederebbero più comprensione.
 In un confronto interno al partito della cancelliera tedesca, un ambito democratico il cui peso specifico è oggi molto più rilevante dell'intero Parlamento greco, Angela Merkel ha spiegato ieri che un default sarà evitato perchè le conseguenze sarebbero troppo gravi. La strategia scelta da Berlino è la stessa da due anni: si interviene per aiutare l'euro e non il singolo Paese; si interviene inoltre lasciando in atto la pressione politica o dei mercati e infine si subordina tutto alla logica, espressa ieri dalla cancelliera, di "minimizzare i costi" per la Germania. Finora cercando di minimizzarli, i costi non hanno smesso di ingigantirsi, anche per la Germania.
 Poche giornate come quella di ieri esprimono le contraddizioni che la crisi nell'euroarea ha aperto nel cuore delle nostre democrazie. Gli scontri per le strade di Atene mentre il Governo fa il massimo sforzo per salvare l'unità nazionale greca, fanno da controcanto alla sintonia tra Barack Obama e Mario Monti graffiata dal giudizio dell'agenzia di rating Standard & Poor's sulle banche e sulle prospettive economiche italiane. Sono contraddizioni che fanno parte delle nostre democrazie dove consenso popolare e mercati finanziari non stanno convivendo pacificamente. A ben vedere la sfida che l'Europa deve cominciare ad affrontare è più profonda di una crisi finanziaria. Va al cuore del suo progetto politico. E non potrà essere affrontata pensando solo a minimizzare i danni.

«La crisi dimezza la crescita a Est»
Alessandro Merli
 ROMA
 La crisi greca e la recessione dell'area euro rischiano di avere pesanti ripercussioni su Europa centrale e Balcani, sostiene il presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, Thomas Mirow.
 La Bers, fondata vent'anni fa per promuovere la transizione dei Paesi ex comunisti all'economia di mercato, e a cui il G-20 ha affidato ora anche il sostegno alla "primavera araba", prevede che le economie dell'Europa centrale e sudorientale più integrate con l'Eurozona accuseranno una crescita dimezzata nel 2012 rispetto all'anno scorso. Mirow, in un'intervista al Sole 24 Ore dopo incontri nei giorni scorsi con il presidente del Consiglio, Mario Monti, e i vertici della Banca d'Italia, spiega che la preoccupazione maggiore viene dalla trasmissione delle difficoltà dell'Eurozona attraverso il canale finanziario, ma elogia il ruolo delle banche italiane nella regione.
 «I Paesi vicini della Grecia sono ovviamente i più colpiti - afferma il banchiere - anche per la presenza delle banche greche. Ma, più in generale, ci sono chiare indicazioni dai dati della Banca dei regolamenti internazionali che stiamo assistendo a una contrazione dei prestiti. È in atto un processo di deleveraging da parte delle controllate delle banche occidentali, che non può essere attribuito solo alla crisi dell'area euro, ma anche alle pressioni derivanti dalle nuove regole per le banche».
 Questo processo, secondo il presidente della Bers, non può essere evitato, ma va gestito in modo da ridurne l'impatto, per esempio con un miglior coordinamento fra le autorità di vigilanza. La Bers ha poi dato vita, insieme ad altre istituzioni, come Fmi e Banca mondiale, a una riedizione dell'iniziativa di Vienna, che, dopo la crisi finanziaria post-Lehman, evitò una stretta brutale al credito. «Oggi è più difficile - sostiene - perché anche le istituzioni internazionali hanno minori risorse e sono a loro volta nel mirino delle agenzie di rating. Per questo è cruciale il coinvolgimento del settore privato. A questo proposito, devo dire che abbiamo un eccellente rapporto con le grandi banche italiane presenti nella regione e che esse hanno riaffermato il loro impegno anche in tempi di crisi».
 UniCredit e Intesa Sanpaolo hanno avuto un ruolo importante in diversi programmi di finanziamento della banca, mentre le imprese italiane sono una delle principali fonti di investimenti diretti nei Paesi dell'Europa centro-orientale, dove hanno realizzato progetti per 13,4 miliardi di euro, per oltre la metà finanziati dalla Bers. L'impatto della crisi europea sull'economia reale nell'area di operazioni della banca è l'altro elemento preoccupante. «L'Europa occidentale è il partner naturale di questi Paesi - dice Mirow - Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca, ad esempio, esportano in modo preponderante nell'Eurozona. Per fortuna, ci sono differenze tra Paesi e tra settori. Le imprese che lavorano con l'industria dell'auto tedesca se la stanno cavando meglio. Poi ci sono i produttori, come la Russia, di materie prime, i cui prezzi restano alti e comunque sono meno influenzati da quello che succede nell'Eurozona».
 La crisi nell'area ha anche raffreddato gli entusiasmi dei Paesi che stavano considerando l'ingresso nella moneta unica. «C'è una maggior consapevolezza, soprattutto con il caso Grecia - afferma il presidente della Bers - da parte dell'Eurozona di dover risolvere i suoi problemi prima di pensare a un ulteriore allargamento e da parte dei candidati della necessità di essere pronti prima di adottare l'euro. Per gli ultimi arrivati, come Slovenia, Slovacchia e Estonia, penso tuttora che entrare sia stata la cosa giusta, ma che il giudizio andrà dato su un arco di tempo più lungo».
 Ex sottosegretario tedesco alle Finanze, Mirow è convinto che la strada dell'austerità fiscale, così fortemente voluta dalla Germania, «non ha alternative, anche per la pressione dei mercati. Ma è assolutamente necessario combinarla con misure per il rilancio della crescita, a partire da maggior flessibilità per il mercato del lavoro». Le ultime decisioni europee sul fiscal compact e le operazioni a lungo termine della Bce sono «mosse incoraggianti, che migliorano la fiducia degli investitori». Ma non si azzarda a prevedere che la crisi dell'Eurozona abbia già superato il punto di svolta.

Bozen, oltrepadania. Scoperti dalla Finanza 166 evasori totali
Nel 2011 in Alto Adige non dichiarati al fisco 350 milioni di euro, Iva elusa per 120
Susanna Petrone
BOLZANO. Scoperti 166 evasori totali e 21 evasori paratotali con il recupero di 350 milioni di euro: questo il bilancio della Guardia di finanza, che nel 2011 ha effettuato quasi 7 mila verifiche. Complessivamente sono stati scoperti 515 milioni di euro non dichiarati e violazioni Iva per 120 milioni. Sono 136 le persone denunciate.  Ci sono 350 milioni di euro che gli altoatesini hanno nascosto al fisco e ben 515 milioni di euro di recupero a tassazione: l'importo comprende sia i ricavi che il contribuente non ha dichiarato tra i redditi, sia i maggiori costi che lo stesso contribuente ha indebitamente esposto per abbattere il reddito e, quindi, pagare meno imposte.  Complessivamente, dunque, la Guardia di finanza di Bolzano, coordinata dal generale Francesco Attardi, ha scoperto 166 evasori totali e 21 evasori paratotali. Sono stati effettuati quasi 7 mila controlli. In oltre 1.100 casi la Finanza ha scoperto violazioni (si tratta del 16,1 per cento degli interventi). Questo il bilancio del rapporto annuale della Guardia di finanza.  Durante i controlli, sono stati eseguiti due servizi particolari per quanto riguarda la voce «tutela entrate»: si tratta delle operazioni «Waage» e «Laurinstiftung», condotte rispettivamente dai comparti «frodi all'Iva» e «evasione fiscale internazionale». Il servizio «Waage» riguarda le complesse indagini di una ramificata struttura criminale, che operava nel settore edile. La Finanza ha scoperto che l'azienda era dedita all'evasione contributiva, assistenziale e previdenziale, attraverso l'interposizione di soggetti di comodo e l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.  Grazie al lavoro degli investigatori, sono state denunciate ben 203 persone per frode fiscale ed intermediazione abusiva del collocamento della manodopera. Sono stati effettuati sequestri preventivi - finalizzati alla confisca per equivalente - per circa due milioni di euro. Complessivamente, la Finanza ha scoperto 313 lavoratori in nero. Inoltre, dai controlli è emerso l'emissione e l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti per circa cento milioni di euro e un ammontare di Iva dovuta per oltre quaranta milioni di euro.  Il secondo servizio della Guardia di finanza riguarda la verifica fiscale nei confronti della fondazione «Laurin» con sede in Liechtenstein ma - di fatto, secondo gli inquirenti - operante in Alto Adige nel settore dell'intermediazione finanziaria.  Gli accertamenti degli esperti hanno permesso di scoprire l'evasione di basi imponibili sottratte a tassazione per oltre quaranta milioni di euro e di denunciare alla Procura otto persone.  La Guardia di finanza ha inoltre effettuato servizi per quanto riguarda la tutela delle uscite o controllo della spesa pubblica (prestazioni sociali agevolate, danni erariali, frodi comunitarie) e servizi extratributari (contrasto al traffico di stupefacenti, tabacchi lavorati esteri, contraffazione nonché l'attività di soccorso in montagna).  Soddisfatto il generale Francesco Attardi del lavoro svolto dal colonnello Giovanni Avitabile, comandante provinciale della Finanza: «Nel corso del 2011 - ha spiegato Attardi - abbiamo continuato ad esercitare una forte azione di contrasto all'evasione fiscale, in linea con quanto è stato fatto negli anni precedenti, ma in un clima diverso, di percezione molto più positiva da parte dell'opinione pubblica». Negli ultimi mesi, infatti, è aumentata la collaborazione da parte della popolazione, che ha iniziato a denunciare commercianti che non emettevano lo scontrino fiscale. 

Belluno, oltrepadania. La protesta dell’esule istriano «Rinuncio alla cittadinanza»
Il bellunese Ghiglianovich chiede sia tolta la medaglia a Tito. «Visto che non posso combattere contro lo Stato divento apolide»
BELLUNO— «Voglio che lo Stato revochi la medaglia a Tito. Ma visto che non posso combattere contro lo Stato, mi rimane un’ultima risorsa: rinuncerò alla cittadinanza italiana e diventerò apolide». L’ha detto il presidente dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd), Giovanni Ghiglianovich alla commemorazione del Giorno del Ricordo a Belluno. Josip Broz, più noto come il maresciallo Tito (a capo della Jugoslavia dalla fine della seconda Guerra mondiale sino alla sua morte nel 1980) è infatti tra i cavalieri di Gran Croce della Repubblica Italiana, decorato per giunta di Gran Cordone da Giuseppe Saragat nel 1969. Eppure il Maresciallo si macchiò di colpe gravi: espressione del regime comunista juguslavo dal 1943 eliminò, per motivi ideologici, molti italiani, con rappresaglie, processi sommari, infoibamenti e altri atti di violenza. Nel 2011 l’Unione degli Istriani ha chiesto la revoca dell’onorificenza. Nei giorni scorsi Ghiglianovich, che vive a Belluno da quando dovette abbandonare l’Istria, ha presentato una petizione al Prefetto di Belluno affinché porti le istanze del Comitato bellunese agli Organi generali: «La legge prevede la perdita dell’onorificenza all’insignito che se ne renda indegno», si legge nel documento. Il presidente dell’Anvgd, Giovanni Ghiglianovich ieri ha lanciato la sua provocazione: rinuncia alla cittadinanza italiana se a Tito non verrà tolta l’onorificenza. Lo ha detto «con lo strazio nel cuore» davanti al Prefetto di Belluno, Maria Laura Simonetti, alla rappresentante della Provincia Emanuela Mila e al sindaco del capoluogo, Antonio Prade. L’intervento, avvenuto sotto la via intitolata alle «Vittime delle Foibe» di Belluno è cominciato con la lettura del Salmo 88: «Mi hai gettato nella fossa profonda, in caverne tenebrose, in abissi, fra i morti il mio ultimo giaciglio». Poi ha trattato la vicenda legata all’esodo istriano per punti. «Il 10 febbraio 1947: la conferenza di Parigi: Alcide De Gasperi ha barattato una terra italiana da millenni, con l’Alto Adige che non lo era - ha esordito Ghiglianovich -. A 30 anni dalla fine della Guerra il presidente del Consiglio Mariano Rumor firma a Oslo la cessione dell’ultimo lembo di terra istriana. Altri 50 mila profughi». Il discorso di Ghiglianovich ha un lungo elenco di circostanze. «L’Inps eroga pensioni agli infoibatori e toglie agli esuli una maggiorazione di 20 euro perché non dovuta. Un nostro presidente, Sandro Pertini, va a Belgrado alle esequie e a baciare la bara di Tito e la bandiera juguslava», ha detto con voce rotta. La lista prosegue: «Non sono mai stati trovati i soldi per compensare i nostri beni abbandonati, che lo Stato ha barattato con i danni di guerra dovuti come nazione sconfitta. Lo Stato ricorre in Cassazione per non concederci una casa popolare e quando soccombe saltano su "i presidentini regionali" a chiuderci le porte in faccia per aprirle agli immigrati di oggi. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi concede proprio la medaglia d’oro alla mia città madre, Zara, distrutta, ma tutto si blocca su richiesta dell’ambasciatore croato a Roma...». Per questo, e altro ancora, non vuole più essere un cittadino italiano.
Federica Fant
11 febbraio 2012

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