L'UNIONE SARDA - Economia: In Sardegna
apprendistato frenato dalle nuove norme
Tasse, confesercenti: 103 mld aumenti da
2001, +3,4% pressione fiscale
Grecia: Berlino, 'haircut' debito
inimmaginabile. Domani no decisioni
Crisi: Bundesbank, economia tedesca puo'
continuare a indebolirsi
Grecia: Bundesbank, Bce non puo' essere
coinvolta in nuovi aiuti
Voogt: «Ecco perché Rotterdam non fa più
rotta su Taranto»
Il manager del
porto olandese: «In Italia le strutture non sono autonome,
comanda la politica. C’è il caso Ilva»
Su 137 paesi che
nel mondo hanno competenze marittime, l’Italia si colloca all’80esimo posto. Su
22 Paesi dell’Unione europea con le stesse caratteristiche è al 19° posto,
davanti soltanto a Bulgaria Polonia e Romania. E nel Mediterraneo, nel cui centro
la Penisola dovrebbe funzionare come una sorta di molo? È al 14 ° posto, meglio
sono posizionati non solo Francia, Spagna e Malta — prime in classifica — ma
anche (scendendo) Slovenia, Cipro, Tunisia, Israele, Libano, Marocco, Egitto,
Turchia, Grecia, Croazia. Dopo l’Italia c’è la Siria. Classifiche definite da
qualche nemico del Belpaese? Assolutamente no, la firma è della Banca mondiale.
Ma perché la lunghissima Italia, la penisola dai quattro mari e dalle miriadi
di porti è ritenuta non competitiva? Perché ha una legislazione obsoleta,
perché non si investe a sufficienza, perché le autorità portuali sono scelte
con il bilancino della politica e non in base a criteri meritocratici. Comunque
alla Camera è iniziata la discussione sulla riforma della portualità e per
avere suggerimenti la commissione Trasporti presieduta da Mario Valducci ha
chiamato Ronald Voogt, senior manager del porto di Rotterdam, il primo scalo
d’Europa, un traguardo raggiunto solo una manciata d’anni fa. Infatti fino al
2004 era una struttura, di proprietà comunale, votata alla progressiva
marginalizzazione. Quindi la svolta, la trasformazione in società per azioni:
la proprietà è rimasta pubblica (70% del Comune, 30% dello Stato), ma la
gestione è diventata privata, esercitata attraverso un comitato esecutivo e un
comitato di vigilanza. Dal 2004 il margine operativo lordo è cresciuto del 3%
ogni anno e ora Rottardam fa concorrenza all’altro colosso del nord, il porto
di Amburgo. Ed è con il porto olandese che quello di Taranto avrebbe potuto
sottoscrivere una partenership, ma — come spiega Voogt — l’accordo è saltato.
Rotterdam vuole «esserci», nel Sud dell’Europa, ma la trattativa è ormai in
corso con il porto rumeno di Costanza.
Perché questa
scelta?
«Per motivi
giuridici, ma non solo. Quando ad aprile abbiamo sottoscritto il protocollo
d’intesa con Taranto abbiamo specificato che avremmo valutato se procedere con
il finanziamento dell’operazione. Ora stiamo valutando altre soluzioni».
E quali sono i
motivi che vi fanno preferire accordi con altri porti?
«Va detto in
premessa che non siamo una società molto grande e quindi dobbiamo essere
attenti alle scelte che facciamo. È stata una scelta strategica, di qui a
trent’anni, investire 2,9 miliardi per il nostro porto che si sviluppa su
un’area di 2 mila ettari. Non a caso, a proposito del mancato accordo con
Taranto, penso alla molto limitata autonomia del porto italiano,
all’impossibilità per la portualità italiana di adoperare strumenti
imprenditoriali e commerciali. E del resto non è un caso che siano i politici a
scegliere i dirigenti portuali. Questi sono dati che, associati alla mancanza
di un soggetto giuridico di riferimento, ci hanno sconsigliato di impegnarci
con gli italiani».
Lei, in quanto
manager anziano di Rotterdam, pone una grande attenzione alle sorti di Ilva,
che per lo scalo jonico è, ovviamente, il cliente più importante. Quanto pesa
nella vostra decisione l’incertezza sul futuro dell’acciaieria più grande
d’Europa?
«Molto, per noi
la situazione di Ilva non è molto chiara e se aggiungiamo questo elemento a
quello relativo all’autonomia del porto diventano più cogenti le motivazioni
delle nostre scelte. Infatti, se chiudesse Ilva, si determinerebbe lo scenario
peggiore per un operatore, per un investitore: ma come si fa a gestire un porto
senza avere certezze su una questione di tale importanza? Non ho mai visto una
situazione del genere».
Con quali scali
pensate invece di stringere legami di partnership?
«Stiamo valutando
le opportunità con un porto brasiliano e un porto della Malesia».
E nel
Mediterraneo avete individuato soluzioni alternative a Taranto?
«Sì, siamo in
trattativa con il porto rumeno di Costanza».
Rosanna
Lampugnani
L'UNIONE SARDA - Economia: In Sardegna
apprendistato frenato dalle nuove norme
19.11.2012
Sono al di sotto
delle aspettative le nuove regole contenute nel Testo unico per
l'apprendistato. Marco Fenza, presidente del Consiglio dei consulenti del
lavoro della provincia di Cagliari sgombra il campo dalle possibili ambiguità:
«Siamo favorevoli allo strumento dell'apprendistato che nel tempo ha permesso a
moltissimi giovani di formarsi e di entrare nel mondo del lavoro. Ma la
complessità delle norme rischia di frenare soprattutto le piccole e medie
imprese, vero tessuto produttivo dell'Isola». Da una ricerca, resa nota dal
Consiglio nazionale, emerge che l'82% delle aziende non considera più semplici
le nuove regole per l'apprendistato professionalizzante.
LA SARDEGNA
Occorre ricordare che delle tre forme di apprendistato previste (più una
pensata per i lavoratori in mobilità), l'apprendistato professionalizzante, o
di mestiere per il conseguimento di una qualifica professionale, è l'unica
operativa in Sardegna. Si dovrà attendere ancora per l'apprendistato per la
qualifica e per il diploma professionale e per quello di alta formazione e
ricerca. Fenza spiega che, per le piccole aziende, le difficoltà sono legate
all'estrema attenzione riservata agli aspetti non solo sostanziali ma anche
formali della formazione: «Il mancato rispetto della forma può portare alla
perdita dei benefici contributivi». A complicare le cose il divieto di
interrompere senza giusta causa il rapporto con l'apprendista durante il
periodo della formazione, pena la perdita dei vantaggi ottenuti all'attivazione
del contratto: «La norma dovrebbe tutelare i lavoratori, in realtà
l'imprenditore rischia di essere sanzionato anche nel caso sia lo stesso
apprendista a interrompere il rapporto».
I DUBBI Il datore
di lavoro può scegliere invece di non confermare il rapporto di lavoro con
l'apprendista alla fine della formazione. Ma, in questo caso, dovrà versare un
contributo per finanziare l'Assicurazione sociale per l'impiego con una somma
che parte da circa 1600 euro. Anche lo sgravio contributivo del 100% ai datori
di lavoro che assumono apprendisti in aziende con meno di 10 unità, può
trasformarsi in un boomerang: l'applicazione di questo beneficio prevede per le
aziende l'obbligo di regolarità contributiva, non sempre possibile in tempi di
crisi. Molte piccole imprese, infatti, hanno difficoltà a essere puntuali
proprio nei pagamenti delle contribuzioni. Altre criticità riguardano la
retribuzione degli apprendisti che oggi possono essere inquadrati con due
livelli retributivi inferiori a quelli definiti per la qualifica professionale
da conseguire: «Nelle piccole aziende la nuova norma si può tradurre in una
differenza minima di trattamento e provocare malumori tra i lavoratori
qualificati che magari si trovano a insegnare il mestiere a persone che
prendono solo qualche decina di euro in meno rispetto a loro».
I VANTAGGI Tra i
vantaggi introdotti con il Testo unico c'è invece la riduzione del monte ore di
formazione esterna all'azienda. «Le imprese», conclude Fenza, «devono avere
l'interesse a investire sui giovani, poiché dovranno dar loro le
professionalità necessarie sia per la crescita personale sia per quella
dell'azienda che deve essere sempre più competitiva. C'è ancora molto da fare
per dare slancio a questa importante tipologia contrattuale e renderla
vantaggiosa per i lavoratori e per le imprese, oggi scoraggiate dalla troppa
burocrazia. L'auspicio è che nell'incertezza del lavoro e dell'economia reale
ci sia almeno la certezza normativa e delle disposizioni che regolano il
sistema».
Tasse, confesercenti: 103 mld aumenti da
2001, +3,4% pressione fiscale
L’allarme
dell’associazione: l’onere maggiore su famiglie e imprese, sottratti 400 mld in
12 anni. Serve una “svolta urgente”: No a Imu e aumenti Iva; detassare
tredicesime e rilanciare consume
Roma - Oltre 103
miliardi di aumenti netti d’imposta fra il 2001 e il 2012. In media, quasi nove
miliardi in più per ciascuno dei dodici anni trascorsi dall’inizio del terzo
millennio. È questo il più significativo risultato che emerge da un’analisi -
diffusa oggi da Confesercenti - delle manovre di finanza pubblica succedutesi
nel nostro paese dalla fine del 2000, basata su dati ufficiali. Un risultato
che spiega altri due fenomeni. Il primo è un aumento di 204 miliardi del
gettito complessivo registrato nello stesso periodo (dai 495 del 2000 ai 699
attesi per il 2012). Le maggiori entrate dovute alle manovre, dunque,
rappresentano oltre la metà dell’aumento complessivo. Una crescita guidata
dall’accentuata dinamica dei contributi sociali (+48 per cento), mentre le
imposte dirette sono cresciute del +41 per cento e l’imposizione indiretta del
35 per cento. L’aumento di gettito risulta significativo anche in termini reali
(oltre il dieci per cento), nonostante la caduta del Pil di quasi tre punti
nello stesso arco temporale. Il secondo fattore è l’aumento della pressione
fiscale di 3,4 punti (dal 41,3 per cento del 2000), che porta a quasi cinque
punti il divario rispetto al resto d’Europa. Nel 2012 la pressione fiscale
toccherà il 44,7 per cento, +2,2 punti (circa 35 miliardi) rispetto al 2011,
con un aggravio di 1.450 euro per famiglia. Numeri che ci collocano al terzo
posto (dopo Danimarca e Svezia) tra i 27 dell’Ue. Secondo Confesercenti, se il
nostro livello di prelievo fosse uguale a quello medio europeo, ogni famiglia
italiana disporrebbe di un reddito aggiuntivo di 3.400 euro. Sempre secondo le
stime del governo, nel 2013 la pressione fiscale aumenterà ancora, portandosi
al 45,3 per cento. Altri nove miliardi in più; ulteriori 380 euro a carico di
ciascuna famiglia italiana. E altre sorprese possono venire dal versante delle
imposte locali.
Confesercenti rileva che “il prelievo
aggiuntivo che si è determinato in ciascuno dei dodici anni di manovre registra
un andamento decisamente crescente a partire dal 2004” e stima che tali manovre
“abbiano consentito all’operatore pubblico di sottrarre oltre 400 miliardi di
risorse a famiglie e imprese”. A tali maggiori entrate nette “è imputabile il
78,3 per cento della riduzione dell’indebitamento netto, a fronte del 21,7 per
cento derivante dai tagli alla spesa pubblica”. In particolare, la manovra 2012
“da sola, spiega 1/3 delle maggiori entrate decise in dodici anni e quasi il 40
per cento della riduzione dell’indebitamento netto”. Secondo l’associazione “il
peso più significativo (poco più di 45 miliardi nei dodici anni) si è riversato
sui quasi 24 milioni di famiglie” e “subito dopo si collocano le Pmi (circa 2,6
milioni di unità)” con “poco più di 30 miliardi di aumenti netti d’imposta”.
“L’accanimento fiscale ha prodotto un aumento gigantesco di gettito che ha
impoverito pesantemente famiglie e imprese. Non è accettabile che nelle manovre
il fisco abbia pesato per il 70 per cento, mentre i tagli alla spesa pubblica
solo per il 30 per cento” osserva Confesercenti, che chiede di “sbarrare al più
presto la strada che porta a nuove tasse, mentre va spalancata quella che
conduce alla riduzione della spesa pubblica. La pressione fiscale è
insostenibile ed è diventata il maggior ostacolo alla ripresa della crescita
economica. Distrugge imprese e posti di lavoro, senza peraltro essere in grado
di fermare l’avanzata del mostro rappresentato dal debito pubblico”.
Confesercenti chiede “un’urgente svolta. Nell’immediato va corretto l’errore
degli aumenti dell’Iva, sia pure ridimensionati, e va scongiurata una nuova
mazzata come l’Imu, che si scaricherebbe su imprese e famiglie. È invece
necessaria la detassazione delle tredicesime per evitare il preannunciato
tracollo dei consumi, e in questa direzione andrebbero impegnate tutte le
risorse disponibili”. Ai partiti Confesercenti chiede di impegnarsi su “scelte
in grado di far calare la pressione fiscale già nel 2013”. E “anche l’attuale
governo non può stare a guardare: convochi quanto prima le parti sociali per un
confronto concreto sulla riforma fiscale che ridia fiato alle imprese e famiglie
e con esse agli investimenti ed al lavoro, oggi in forte sofferenza”. (ilVelino/AGV)
(red/ban) 19
Novembre 2012 11:28
Grecia: Berlino, 'haircut' debito
inimmaginabile. Domani no decisioni
19 Novembre 2012
- 13:21
(ASCA-AFP) - Berlino, 19 nov - Un taglio dei
crediti maturati dai governi dell'Eurozona nei confronti della Grecia resta una
propettiva ''inimmaginabile''. Lo ha dichiarato il portavoce del ministero
delle Finanze tedesco, Marianne Kothe, nel corso di una conferenza stampa a
Berlino, negando che domani i Diciasette possano prendere nel merito una
decisione.
''Non puo' accadere per ragioni puramente
tecniche e procedurali e perche' anche il Bundestag dovrebbe essere coinvolto'',
ha spiegato Kothe.
rba/sam/ss
Crisi: Bundesbank, economia tedesca puo'
continuare a indebolirsi
19 Novembre 2012
- 12:48
(ASCA) - Roma, 19 nov - L'economia tedesca
rischia di ''continuare a indebolirsi entro la fine dell'anno'' a causa
dell'incertezza causata dalla crisi del debito sovrano europeo. Lo scrive la
Bundesbank nel suo bollettino mensile.
rba/sam/rl
Grecia: Bundesbank, Bce non puo' essere
coinvolta in nuovi aiuti
19 Novembre 2012
- 12:45
(ASCA) - Roma, 19 nov - La Banca centrale
europea ''non puo' essere coinvolta'' nel finanziare il nuovo pacchetto di
aiuti internazionali in favore della Grecia, che al contrario rientra
''chiaramente nelle responsabilita''' dei singoli governi. Lo dichiara la
Bundesbank nel suo bollettino mensile, secondo quanto scrive il quotidiano
ellenico Kathimerini.
rba/sam/rl
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