domenica 23 giugno 2013

A Bari stavamo meglio quando stavamo peggio

di Alberto Selvaggi
So che avrò dalla mia molte bocche concordi, larghe quanto la verità. Almeno tra i nati negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta; tra quelli dell’era precedente all’omologazione informatica.
Andavamo al Canalone, Cozze, Torre a Mare, a San Francesco d’estate in auto prive di cinture di sicurezza, non c’erano che il sole e il senso di festa e tutti, pur senza airbag, siamo ancora qui a ricordarlo. Balzavamo dietro ai treruote, mezzi mitologici quanto i Motom e le Vespa 50, o sui camion pericolanti col marchio Lupetto e scorrazzavamo stringendo in curva, e nessuno per questo è schiattato.

Per tutta Bari non circolavano autobus urlanti devastati dai vandali, bensì tram tartaglianti e filovie silenziose come balene placide che ogni tanto perdevano l’allaccio delle antenne in alto sui cavi. Non c’erano autisti pestati a sangue bensì discoli senza biglietto presi a pedate. Uscivamo da cinema e locali appestati da Nazionali, Marlboro e Saxone di pura biada, e manco uno s’è buscato il cancro. C’erano cessi aperti in città, gratuiti o col viatico di mezza lira bucata, e non venivi obbligato a genufletterti davanti al barista o a fingere l’acquisto di «un’acqua minerale piccola» per poi domandare, «posso andare nel bagno?». «È rotto, mi spiace».


 Non c’erano strisce blu costrittive con le quali il Comune estirpa denaro a chiunque si fermi ovunque in auto. Si parcheggiava senza problemi, il centro di sera era un paradiso di posti vacanti e anche se le gomme tracimavano sul marciapiede, fino agli anni Ottanta e oltre nessun vigile passava con il centimetro a misurare la multa da comminare. Tutti in scooter impennavano anche se non si apprestavano a scippare. Le assicurazioni non ti imponevano rinnovi semestrali da rapina seriale. E delle inutili targhe, di patentini e bolli lo Stato se ne fregava. Nessuno era costretto a infilare la testa in un casco a cuocere sotto i 40 gradi: si filava con i capelli nel vento e tanti, tanti sono qui a ricordarlo. Come abbiamo fatto a sopravvivere?

 C’erano le prostitute nei tuguri di via Celso Ulpiani, i mostri femminilizzati nelle stamberghe del Lungomare, Agnese all’Estramurale, alla Moscia la nave scuola «Italia dei binari», dopo la chiusura dei casini promossa da Lina Merlin, senatrice afflitta da deficit mentale. E nessuna divisa si presentava in quei paraggi: «Il gabinetto ha lo scarico sopraelevato di 6,5 centimetri oltre la norma, sono 1200 euro di multa e chiusura immediata».

 Avevamo la pizza ingravidata di strutto, piallata dalle palme lignee del cortagno Gigino, unico, vero re del Castello Svevo, altro che Federico II, non c’erano l’Europa (che significa «Feccia») e il cretinismo dello sfruttamento industriale igienico-sanitario che quella foraggia, eppure neanche un barese è crepato o s’è ricoverato dopo avere ingerito tonnellate della migliore pizza del mondo affogata nel grasso di bestia oggi vietato.

 E allora, o ignoto internauta che mi hai inviato un bellissimo elenco su «La grande domanda: come hai fatto a sopravvivere?», ispirandomi questa versione baresizzata, continuiamo: bevevamo acqua dai tubi dei giardini, mangiavamo panzerotti fritti nell’olio d’auto, sgagliozze birra e frittelle e nessuno è finito in allergologia o in orizzontale. Cozze, un po’ di colera nell’ei fu ‘Nderre a la lanze: e vai. Tutti giocavamo in strada, prendevamo stampate, assestavamo tuzzate e i genitori non seguivano i nostri spostamenti da piazza Umberto ai giardini Garibaldi sul monitor dell’iPhone del cavolo. Nessuno era rintracciabile via cellulare mentre urinava sui lecci di corso Cavour o quando rubava alla Standa sotto gli occhi delle commesse, non delle telecamere. Nessuno aveva gli occhi dopati dal digitale, eppure non s’è immalinconito, non è finito in psicoterapia per anni, è cresciuto felice, ha creato palazzi, politica, comitive giganti con un semplice accordo verbale, o col telefono fisso in casi rari.

 Pensate che c’erano i preti e c’era la Chiesa con gli oratori come educativo comparto. E a Bari vecchia senza movida c’era la mala. Ogni tanto sparavano, ma non crivellavano certo tre ragazzi tra la gente con i kalashnikov, o padri con neonati in braccio. Non c’erano torme di stranieri incrudeliti e sbandati ma il barbone ciucco «Sartana», tra corso Benedetto Croce e via Piave, o tra piazza Giulio Cesare e le scale del Preziosissimo Sangue, culla delle studentesse sessualmente avanzate. E tra i borghi antico e nuovo, davanti allo Scacchi non si aggiravano baby-gang che puntano pistole alle tempie dei coetanei, bensì incombeva la leggenda metropolitana di «lupomane», licantropo folle che trascinava catene spettrali.

 Pensate che c’era la scuola, con dentro gli alunni e gli insegnanti, e nessun genitore picchiava il prof se aveva rimproverato l’alunno con un «hai copiato», nessuno gli faceva causa per una bacchettata, e anzi a casa l’asino le buscava pesanti. E non c’erano ignobili presidi che per garantirsi iscritti in massa si costituivano parte civile contro il docente «reo di aver turbato l’equilibrio psichico del ragazzo».

 Giocando «ci tagliavamo, perdevamo un dente e nessuno faceva denuncia perché non era colpa di nessuno. Mangiavamo pane e burro, bibite zuccherate e non avevamo problemi di sovrappeso. Condividevamo una bibita in quattro dalla stessa bottiglia e nessuno moriva». Non avevamo Playstation, Nintendo, il web, le chat: avevamo invece tanti amici. Giocavamo a verrùzze (trottola), cinque pietre, bilie, tappi, iùn mond’ la lune, pisticchio, strifone, staccio, al pallone col Super Santos, «e gli scartati dalle squadre non andavano dallo psicologo per il trauma». Perché eravamo liberi, liberi di gioire nella libera Bari.


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