lunedì 17 gennaio 2011

Notizie Federali della Sera, 17 gennaio 2011

Sezione nord est dei soldi, comunque ed in qualsiasi modo:
1. Stranieri in piazza a Pordenone: la Provincia respinge l’accusa di razzismo.
2. Venezia. Comune-Regione, scontro sul ticket.
3. Tivù venete, crollano gli ascolti. Presto in onda spot anti-governo.
4. Marca Trevigiana. Comuni senza soldi, è rivolta.
5. Venezia. Il Comune setaccia 2.200 assunzioni.

Sezione Sud dei commenti, che credi quello che dico io, che poi non so cos’e’:
6. Basilicata. La boria di oggi e l'umiltà di ieri. La paura della stampa.
7. Il porto di Gioia Tauro travolto dalla crisi.

Sezione incredibile ed impossibile, al Sud ovviamente:
8. Campobasso. In arrivo un altro porto turistico: lo farà la Camera di Commercio.


1. Stranieri in piazza a Pordenone: la Provincia respinge l’accusa di razzismo. Bufera dopo le accuse. Il corteo e il sit-in degli extracomunitari, previsti per il 5 febbraio, hanno provocato la reazione di Ciriani. di Enri Lisetto. PORDENONE. L’Italia sta diventando un paese razzista, che sfrutta gli stranieri e poi li vuol mandare via, senza lavoro e contributi versati? I contenuti emersi durante l’a ssemblea dell’Associazione degli immigrati, sabato a Torre, non sono piaciuti al presidente della Provincia, Alessandro Ciriani, il quale auspica che non si tenga la manifestazione del 5 febbraio se dovessero essere ribaditi in piazza. Perché, aggiunge, sarebbe offensivo nei confronti di coloro che, di generazione in generazione, hanno faticato e sudato per fare beneficiare di vere eccellenze questo territorio, italiani e stranieri. La polemica s’i nfiamma, proprio nella giornata mondiale delle migrazioni celebrata dalla Chiesa cattolica.
«E’ tempo di agire, l’Italia sta diventando un Paese razzista», avevano detto gli extracomunitari sabato in assemblea. «Prima incassate i nostri contributi, poi ci rispedite a casa», avevano aggiunto auspicando l’abolizione della Bossi-Fini e del test di italiano che proprio oggi comincerà ad essere somministrato a coloro che richiederanno il permesso di soggiorno. «Lavoriamo sodo e quando non serviamo più gli italiani vogliono mandarci via», avevano aggiunto. Parole pesanti, alle quali replica il “primo cittadino” della provincia di Pordenone.
Alessandro Ciriani fa una premessa: «Quell’assemblea non rappresenta il sentimento di gran parte degli immigrati che vivono nel nostro territorio». Da biasimare, caso mai, sono quelli che «intercettano una minima parte di immigrazione per trasformarla in lavoro».
Non nasconde, il presidente della Provincia, che «l’immigrazione sia un tema spinoso. La convivenza nella società può essere difficile, passare dalle parole ai fatti è senza dubbio complicato: ma senza leggi gli immigrati starebbero peggio».
“Sfruttati” sul lavoro e rispediti a casa senza contributi? «Beh, anche a me non li riscattano se lavoro cinque anni. E’ una questione di legislazione previdenziale nazionale, non di razzismo». Secondo il presidente della Provincia «si sta buttando benzina sul fuoco anziché affrontare in maniera seria la materia dell’immigrazione». Ciriani mette in guardia: «Chi getta benzina sul fuoco o banalizza la questione commette un grave errore». Così come «sarà un grave errore» la manifestazione annunciata dall’A ssociazione degli immigrati per il 5 febbraio: «Mi auguro che saranno i soliti pochi, come in passato».
Infine il sentimento nazionale e familiare. Gli italiani, i pordenonesi razzisti e sfruttatori? No, questa no: «Intanto è una questione di sensibilità e delicatezza pronunciare tali affermazioni nonché offensivo. Se anche gli stranieri – che non restano qui a pane e acqua –, come gli italiani, possono accedere a scuole, ospedali, servizi che in tutto il Paese ci invidiano come eccellenze – attacca il presidente della Provincia –, è grazie ai nostri genitori, ai nostri nonni, che hanno lavorato con fatica e sudore per consentirci il benessere odierno, a disposizione di tutti. Tanti hanno fatto progredire col sudore il nostro territorio, c’è una rete solidale e assistenziale che fa invidia a tutti, altro che razzisti».
2. Venezia. Comune-Regione, scontro sul ticket. Orsoni: la tassa di scopo ci risarcisce. Il sindaco: tutti godono della nostra immagine ma i tributi vanno solo a palazzo Balbi. Specificità cancellata, operatori turistici contro Finozzi. VENEZIA - Che non ci siano altre città al mondo come Venezia pare una banalità. Canali, calli, pedoni, 60 mila abitanti 19 milioni di turisti. E’ facile capire perchè le parole dell’assessore regionale al Turismo Marino Finozzi («non è previsto nella nuova bozza di legge sul turismo il riconoscimento della specificità veneziana e prevediamo una tassa di scopo regionale e non comunale»), hanno provocato un mezzo terremoto nella laguna che si occupa di turismo. Primo a salire sulle barricate il sindaco Giorgio Orsoni, che da mesi fa pressing sul governo perchè anche a Venezia sia riconosciuta la stessa tassa di scopo di cui gode Roma e che certo non gradisce l’ipotesi di una tassa incassata da palazzo Balbi e redistribuita. «L’assessore regionale evidentemente non considera che la grande massa di turisti che arriva e transita a Venezia è un’indubbia ricchezza ma anche un onere per la città - dice il primo cittadino - La tassa di scopo non può che essere legata alla necessità di risarcire questi aggravi a cui va incontro esclusivamente Venezia».
A Verona, la seconda città per arrivi e presenze del Veneto, smaltire i rifiuti non costa tanto quanto a Venezia e nemmeno la manutenzione degli edifici storici. Non a caso questa specificità è stata uno dei pilastri della Legge speciale. Orsoni non boccia senza appello la proposta regionale, maa una condizione: «Le tasse che vengono prelevate dalle attività imprenditoriali del Veneto ci siano attribuite pro quota visto che dello sfruttamento dell’immagine di Venezia nel mondo queste aziende godono abbondantemente senza riconoscere nulla». Di quanto il Veneto riconosca poco, nella legge, la forza trainante di Venezia parla anche l’assessore al turismo Roberto Panciera: «In questo momento si sta facendo un po' di confusione tra la legge del turismo regionale e la legge speciale in cui per carenza di fondi è stata inserita la questione turistica - dice l'assessore - dopo di che nella bozza non si tiene conto che l'area metropolitana veneziana produce il 60 percento del reddito veneto della filiera».
Non è solo questione di tassa di scopo. Il mondo del turismo è preoccupato delle conseguenze della cancellazione della specificità veneziana. Il presidente di Confturismo regionale Nicola Sartorello, che aveva promosso la proposta di legge del 2008 targata Luca Zaia tanto contestata per via dell’albergo diffuso che si diceva avrebbe moltiplicato gli hotel in Laguna, storce in naso alle parole di Finozzi. «L’assessore ha preparato una legge quadro, più snella che passa da 200 a 50 articoli - spiega - ma non possiamo ammettere alcune marcia indietro sul riconoscimento della specificità di Venezia ». Il consigliere regionale ed ex assessore veneziano al Commercio Giuseppe Bortolussi promette di dare battaglia a Palazzo Ferro Fini. «Devo ancora studiare la bozza - dice -ma le anticipazioni non sono delle migliori ». Quasi tre anni fa, da assessori, Bortoluzzi partecipò alle riunioni sulla legge 33 e oggi ammette: «E’ difficile far capire che Venezia è una realtà a sé stante, chi non la conosce pensa che il turismo porti solo ricchezza». Senza il riconoscimento formale che l’ex Serenissima ha bisogno di un capitolo a parte rispetto all’insieme di norme che regolano le strutture ricettive e la gestione dei flussi, «Venezia rischia non essere più una vera città», dice Bortolussi. «Agiremo con Federalberghi regionale per farci ascoltare», dice il direttore di Ava Claudio Scarpa. L’Ava su una cosa ha già le idee chiare: «Più che la tassa di scopo, meglio la tassa di ingresso per tutti come pensata dal ministro Brunetta nella Legge speciale». La tassa di scopo ricadrebbe sugli ospiti degli hotel, l’altra «è più equa». Non soddisfatto infine della bozza Massimo Salviato, vicepresidente degli albergatori. Per lui il cosiddetto hotel diffuso (depandance entro 200 metri dall’hotel) è dannoso per la residenza. «Finora è mancato il confronto sulla legge», dice. Gloria Bertasi. 17 gennaio 2011
3. Tivù venete, crollano gli ascolti. Presto in onda spot anti-governo. Dopo l’avvio emittenti locali preoccupate per le difficoltà tecniche, la pirateria e le sfavorevoli novità legislative. Editori verso lo scontro: «Ci vogliono strozzare». VENEZIA — Ascolti in picchiata, tra problemi tecnici di trasmissione e ricezione per le bizze dei decoder. Un governo considerato nemico che le attacca con un fuoco di fila: taglia fondi; sottrae frequenze praticamente senza risarcimento; vieta il nuovo e lucroso business dell’affitto dei canali agli operatori nazionali; aumenta vertiginosamente la tassa di concessione. Altro che nuova «età dell’oro» l’avvento del digitale terrestre. Le televisioni locali venete vivono come un incubo la rivoluzione tecnologica che, invece, per i telespettatori che riescono a vederla - almeno per ora - è una manna dal cielo, moltiplicando l’offerta gratuita di news, film, sport, fiction, telefilm, cartoni animati, programmi culturali e di intrattenimento. E contro l’esecutivo Berlusconi le tv venete sono pronte a reagire, insieme ai colleghi nazionali, con video-spot durissimi proprio «made in Veneto» e, se necessario, anche marciando sulle residenze del premier Berlusconi (nonché patron di Mediaset accusata di essere dietro gli attacchi) a Palazzo Grazioli e Arcore. Lo spettro è di finire come le emittenti della Sardegna dove, a due anni dal passaggio al digitale (nell’ottobre 2008), il mese scorso la Regione ha dovuto aprire un tavolo sullo stato di crisi del settore - fa notare la Frt (Federazione delle radio e televisioni private) - «amplificato dalla novità tecnologica».
Nell’isola gli ascolti sono calati ed è precipitata la raccolta pubblicitaria, mettendo a rischio l’esistenza delle tv e di migliaia di posti di lavoro. Partiamo dai numeri, quelli dell’Auditel, l’istituto indipendente che rileva gli ascolti. Il dicembre scorso, confrontato col mese precedente, è una Caporetto per tutte le emittenti venete. La più seguita, «7 Gold-Telepadova», ha un calo degli spettatori del 55,33 per cento. A consolare il gruppo di appartenenza la performance di «7 News», unica tv che guadagna audience (+8,10%). Tra chi perde meno ci sono la neonata emittente del gruppo Panto, «Free Tv» (-6,05%, a differenza dell’ammiraglia «Antenna Tre» che scende del 41,63%) e «Televenezia » (-22,39%). In mezzo segni negativi a go-go: Tva Vicenza -45,85%; Telearena -42,92%; Teleregione -42,63%; Rete Veneta -42,56%; Telenuovo -33,53%; Telechiara 24,72%. Dati da brividi che, per Valter Galante, amministratore delegato di «7 Gold-Telepadova» hanno un unico colpevole: il passaggio al digitale, con gli annessi problemi tecnici e logistici. «Non si poteva scegliere periodo peggiore per lo «switch off» - spiega Galante - Spegnere il segnale analogico a fine novembre al Nord, con le piogge e nevicate, ha messo in difficoltà la preparazione dei ripetitori in montagna e il potenziamento delle antenne, non sempre all’altezza, sui tetti degli utenti. Per non parlare delle tarature delle apparecchiature, in corso fino a qualche giorno fa, a causa della comunicazione delle frequenze fatta all’ultimo momento dal ministero dello Sviluppo economico. E poi tanti hanno "perso" le loro solite tv perché qualche emittente ha occupato canali non suoi».
Una «pirateria» che ha colpito pesantemente Tva Vicenza. «Venerdì abbiamo segnalato al ministero che un’altra emittente veneta ha occupato la nostra frequenza - annuncia il direttore generale Claudio Cegalin che, tra l’altro giustifica il calo di audience di Tva col ritorno all’ordinario dopo i picchi delle dirette sull’alluvione di Ognissanti - Se la cosa non smette faremo denuncia al Tribunale civile». Ma quello che preoccupa Galante è, a suo dire, vede un disegno del governo Berlusconi e del ministro Paolo Romani per eliminare le tv locali. «Come si può definire altrimenti un esecutivo - chiosa - che ti impone per legge di investire in ricerca, innovazione e sviluppo promettendoti in cambio un mercato più libero e determinate possibilità di business. E che poi cambia le carte in tavola?». Galante, aderente a Frt, si riferisce a partite sottotraccia che valgono miliardi di euro. «Noi editori veneti aderenti all’Frt siamo imbufaliti per gli scippi del governo Berlusconi che sta favorendo Mediaset e gli altri grandi gruppi tv come Rai e La 7-Telecom—affonda Thomas Panto, editore di "Antenna Tre"—a me, per esempio, porteranno via un canale (di quelli compresi tra il 61 e il 69, ndr) per metterlo all’asta tra gli operatori della telefonia mobile, al prezzo totale previsto di 2,4 miliardi di euro, quindi quasi 267 milioni di euro a canale. Invece ame e ad altre circa 150 emittenti ci indennizzeranno con 240 milioni complessivi. Per non parlare di 6 canali "regalati" alle reti nazionali. Per protestare manderemo in onda in tutta Italia spot duri contro il governo che ho ideato proprio io». Aggiunge Luigi Vinco, editore di Telenuovo: «E nessun aiuto finanziario ci è arrivato dalla Regione a differenza di altre parti d’Italia». Soldi preziosi potevano arrivare dall’affitto dei canali, moltiplicati dal digitale, a fornitori di contenuti che vogliono avere copertura nazionale come, ad esempio, il canale di cartoni «K2» o lo sportivo «Supertennis» e, dal 2012, il gigante Sky. «Invece il ministro Romani dello Sviluppo economico, con l’Autorità sulle telecomunicazioni, ce lo vogliono impedire - precisa Gianni Vindigni, editore di Televenezia e pure lui dell’Frt - imponendoci di veicolare solo contenuti locali. Un’assurdità illegale che rischia di farci mancare i ricavi necessari a sopravvivere ». L’ultimo «regalo» governativo alle piccole tivù viene raccontato da Filippo Jannacopulos, editore di Rete Veneta. «Siccome saremmo diventati operatori di telecomunicazioni la tassa di concessione media è passata da 17 mila euro l’anno a 300 mila - conclude - peccato che poi ci impediscono di fare veramente quell’attività». Gianni Sciancalepore. 17 gennaio 2011
4. Marca Trevigiana. Comuni senza soldi, è rivolta. Dopo lo sciopero dei municipi spunta l'idea della protesta collettiva. Se ne fa portavoce Vigilio Pavan, un passato di sindaco tra il 1994 e il 2003 a Paese, oggi presidente dell'Associazione comuni della Marca trevigiana: «La situazione dei conti nei Comuni non è mai stata così grave. Bisogna assolutamente fare qualcosa e far capire al ministro Tremonti che, in questo modo, non si può più andare avanti. Proporrò ai sindaci di decidere tutti insieme una protesta simbolica: la non approvazione dei conti consuntivi, che non prevede sanzioni né disagi per i cittadini ma solo la nomina di un commissario ad acta che provvede ad approvare i bilanci. Ma per fare questo serve un consenso ampio e bipartisan». E' questo l'aspetto che preoccupa Vigilio Pavan, che deve tener conto degli equilibri: «Io ascolto tutti i sindaci: di destra, di sinistra e della Lega. E tutti mi riportano una situazione allarmante. C'è un grave rischio: non tanto quello della chiusura dei municipi ma una situazione di totale inattività che rischia di essere ancora più grave, se pensiamo, perchè si bloccano infrastrutture, servizi essenziali, progetti». Vigilio Pavan ammette di non aver mai visto prima una situazione così grave: «I Comuni sono gli enti più tartassati da quasi vent'anni a questa parte. L'ultimo tentativo dei fondi perequativi risale al governo Dini. Da allora in poi, con qualsiasi governo, i fondi destinati alle municipalità sono progressivamente diminuiti nonostante un considerevole aumento delle responsabilità e delle competenze». Pavan avverte un disagio complessivo: «Tutti i sindaci, compresi quelli della Lega, soffrono: si fidano ciecamente di Tremonti, ma credo che il ministro davvero non sappia come funziona un municipio». L'idea, dunque, che spunta è una «disubbidienza civile» che non abbia conseguenze sanzionatorie né comporti disagi per i cittadini: queste sono le due condizioni che Vigilio Pavan vuole suggerire ai sindaci. Presto una riunione dovrebbe mettere attorno a un tavolo i principali comuni per stabilire le adesioni e le modalità dell'iniziativa di protesta, destinata a far rumore. L'associazione dei comuni trevigiani, inoltre, sta lavorando su più piani. Tra questi, l'idea di un escamotage per eludere il patto di stabilità: la costituzione delle unioni dei comuni ai fini della realizzazione di nuove opere pubbliche. «Ci stiamo lavorando dopo quello che abbiamo visto fare in altre regioni. Se un comune ha bisogno di un'opera pubblica importante ma è soggetto al vincolo del patto, basta creare un'unione di comuni allo scopo di realizzare l'opera pubblica. Le unioni sono per legge escluse dal calcolo del patto di stabilità». Più strategicamente, l'associazione che riunisce tutti i comuni trevigiani sta mettendo in campo anche dei progetti specifici per l'accorpamento di servizi e degli uffici: «Non credo all'abolizione dei comuni e al loro accorpamento, è una misura troppo impopolare. L'unica maniera per cercare di andare avanti e realizzare alcune infrastrutture necessarie per i territori - ammette Pavan - guardiamo all'esempio dell'Unione del Camposampierese, che da molti anni produce servizi e realizza opere pubbliche con grande efficienza e reciproca soddisfazione».
5. Venezia. Il Comune setaccia 2.200 assunzioni. Numeri oltre le attese: si parte dalle relazioni familiari con politici. Pavan, appello ai 95 sindaci: non approvate i consuntivi 2010. VENEZIA. Duemilaeduecento, nome più nome meno. Tanti gli assunti dalle aziende pubbliche negli ultimi 5 anni: albero genealogico alla mano, sono criteri e titoli che hanno portato alla loro assunzione che il Comune sta passando al setaccio per fugare - o confermare - le accuse di «parentopoli» lanciate dal sindacato Ubs a partire da Actv. Non uno sparuto gruppetto, ma un esercito di uomini e donne, la cui consistenza numerica ha stupito gli stessi addetti ai lavori: Actv e Veritas per prime, ma anche Casinò, Vela Ames (che ha rilevato il personale precario delle scuole comunali), Asm, Pmv, Fondazione Musei (che ha registrato il passaggio di eprsonale dalle fila del Comune), Insula-Edilvenezia sono fonti di occupazione - e certamente pressione - in città, considerando che complessivamente danno lavoro a 10 mila persone.
«Ci aspettavamo circa 3-400 nomi, invece ce ne siamo ritrovati quasi 2200», commenta stupito il direttore generale del Comune, Marco Agostini, che con il capo di gabinetto del sindaco Romano Morra, coordina i controlli di trasparenza sulle assunzioni nelle aziende pubbliche, decisi dal sindaco Orsoni su tutte le aziende dopo le accuse del sindacato autonomo su presunti favoritismi, «è evidente che a questo punto ci serviranno 15-20 giorni per le verifiche, ma questa settimana - ritengo mercoledì - incontreremo anche tutte le rappresentanze sindacali che vorranno farsi avanti».
La prima verifica è - in apparenza - grossolanamente empirica e punta a verificare le relazioni con assessori o consiglieri comunali: memoria di ferro per tutti gli uomini e le donne elette nelle ultime legislature a Ca' Farsetti, Agostini coordina i controlli. Poi si passerà alle relazioni parentali con le famiglie di amministratori e dirigenti delle aziende pubbliche. Non si scenderà alle categorie più basse: «Francamente non mi interessa se un capufficio Actv ha un figlio marinaio», commenta Agostini, «è la trasparenza dei criteri di assunzione e il rispetto di un codice etico nelle assuznioni che vanno verificate: serve trasparenza e, alla fine, bisognerà addivenire alla stesura di un codice di trasparenza valido per tutte le aziende del Comune, eprché seguano nelle assunzioni le stesse procedure e perché la trasparenza sia massima anche nella ricerca di nuovi assunti. Gli annunci per la ricerca di nuovo personale non possono essere pubblicizzati solo per pochi giorni nel sito aziendale».
Al momento, «relazioni pericolose» con amministratori comunali non ne sono saltate fuori: ufficiosamente, al momento sono saltati fuori solo i nomi dei due figli di un consigliere comunale, assunti in Veritas (ma - parentela a parte - restano ancora da accertare le circostanze dell'assunzione). «Non siamo al Casinò di 20 anni fa», commenta ancora il direttore generale, «qui tuttalpiù si tratta di garantire più pubblicità alle selezioni del personale».
6. Basilicata. La boria di oggi e l'umiltà di ieri. La paura della stampa. 17/01/2011. di MAURO ARMANDO TITA. PERCHÉ tanti sondaggi, tante denunce e tanti approfondimenti sono rivolti al costume politico lucano in queste ultime settimane? Perchè vi è un estremismo verbale non più digerito dai politici? Forse... i patti che noi abbiamo definito negli anni scorsi "luciferini" sono saltati. Vito non balla più... con le streghe e Vincenzo non balla più... con i lupi. Il carico di responsabilità grava sempre più sulla stampa locale. Noi siamo perplessi di fronte alle immediate e celeri risposte date da politici di alto rango ... dopo anni di letargo. Che cosa si cela dietro queste reazioni dopo anni di silenzio assordante? Sembra che classe politica e classe dirigenziale lucana , avvertano il bisogno irrefrenabile , fisiologico e quasi patogeno, di accattivarsi la simpatia dei mass media e dei lettori, sempre più numerosi . mass media sono diventati una sorta di "unica" cerniera tra elettorato e partiti. Tutti sono consapevoli del ruolo che la stampa ha acquisito nella nostra regione. I partiti hanno perso il senso della società comune. Le loro sedi periferiche sono terribilmente vuote. Si fa fatica ad aprire , perfino, le sezioni del grande Pd L'abulìa e lo scetticismo sono ormai diventati modus operandi giornalieri. I giovani sono tanto lontani dal mondo politico da non avvertire più il bisogno di unirsi, dialogare e denunciare. Per tanti decenni abbiamo vissuto in comunione tanti bei momenti preelettorali. Eravamo convinti che il nostro entusiasmo, le nostre canzoni, le nostre emozioni potessero influenzare i tanti elettori indecisi. Il responso delle urne era il più delle volte un "concentrato di sorprese". Basterebbe citare uno dei momenti più belli della politica lucana. Le elezioni amministrative del 1975. Un anno stupendo. Intere aree per la prima volta , dopo cinque lustri di incontrastato dominio democristiano, soccombevano di fronte all'armata di sinistra e progressista. Intere aree cambiavano casacca e colore. Va citata, a tal proposito , l'area del "rosso "Vulture. Tanti ragazze e ragazzi, con scarsa esperienza politica e amministrativa diventavano addirittura "sindachesse" e sindaci. Il popolo di sinistra di quel tempo era bello , reattivo e creativo. Forse, tutto ciò rappresenta un passato nostalgico e, per qualcuno, "noioso". Il solo ricordo "angustia" i tanti politici odierni. Sembra archeologia politica. Si è definitivamente perso il senso della partecipazione e del dialogo. Il nostro Quotidiano, al contrario, è diventato una sorta di agora'. Si dà sempre più voce alla gente comune, quella che l'etica della comunicazione la riconosce nella coerenza e non nei comportamenti ambigui e ondivaghi. La gente comune comincia a comprendere il tradimento , comincia a capire che il Marchese del Grillo si è stabilmente accampato nelle stanze dei bottoni. Il "filtro" costituzionale dei partiti è diventato puro optional. Il disoccupato, l'umile pensionato, l'emarginato si sopporta con fatica. Piace contornarsi di belle ragazze, fare sfoggio di auto di grossa cilindrata. Dove sono finiti i Motorini Ape dei nostri vecchi contadini lucani, rigidamente chiusi ermeticamente con "ferro filato", pronti a supportare le nostre campagne elettorali.? Dove sono finite le vecchie "sgangherate" seicento con altoparlanti Voxon.? Nessuno, in "quell'universo politico" avvertiva il bisogno di esternare sciarpe di cashemire e barche. Si avvertiva il senso del pudore di fronte a tante ingiustizie sociali. C'era molta umiltà e poca boria. La politica quella con la P maiuscola amava le persone semplici. Il politico di turno amava fare qualche salto nei bar e nelle "cantine", quasi , a voler suggellare la sua umile provenienza. Qualche volte si eccedeva con le forme e le performances estemporanee degli "ubriachi di turno". L'ubriaco faceva parte integrante dei nostri comizi. L'ubriaco non era violento . L'ubriaco ripeteva continuamente i "passaggi" più significativi del discorso politico . Molte volte gli argomenti coglievano nel segno. Il più delle volte l'argomento ripetuto dall'ubriaco di turno veniva ripreso e "condito" dal comizio del politico. Tutto faceva parte del "copione". La gente si divertiva e si appassionava, si ribellava e si emozionava. C'era pathos e passione civile. C'era tanta disponibilità e tanta armonia. Agli snob , ai " finti sordomuti furbi" e ai "privilegiati", vissuti negli agi della borghesia lucana, si riservava uno spazio marginale. Gli abbracci erano sinceri. Non c'era il vasa vasa di oggi. C'era il sorriso e il "guardarsi negli occhi". Oggi è vietato pure guardarsi negli occhi. Tanta è l'ignavia e la tracotanza dei politici, sicuri di farcela, grazie ad una legge di stampo "bokassiano". Oggi è bandita la sincerità. Porta a Porta con Vespa a Roma, e, il Quotidiano di Leporace a Potenza, sono diventati i soli e unici "intelocutori filtro" tra paese reale e paese legale. La passione e la cruda denuncia convince più di qualche lettore ed elettore lucano a "presenziare" al dibattito in corso. Sembra una soluzione "salvifica" ma, è ancora estremamente riduttiva. Non si può e non si deve , in alcun modo, delegare un giornale a rappresentare e denunciare le giuste e sacrosante istanze, di un popolo lucano , sempre più povero . Un popolo che non riesce ad uscire dai soliti "tabulati" di stampo e sapore antico e , soprattutto, di sgradevole e desueta politica assistenziale non può essere annoverato come popolo democratico ed europeo. Ancora oggi assistiamo ad una strana rincorsa alla promessa facile e a un traformismo politico del tutto "incompreso". La celerità di queste nuove formazioni politiche non potranno ,certamente, entusiasmare il vecchio popolo democratico lucano. In questo contesto freddo , distaccato e ipocrita, è diventato impossibile creare minime forme di socializzazione e di vera passione. Manca del tutto la "cultura del buon esempio". Sembra un paradosso che vi siano politici intelligenti e preparati , pronti a riproporsi dopo dieci mandati e a rimettere in campo mogli e parenti e figli (tanto disarmati quanto impreparati), con un disincanto totale, politici pronti ad alimentare gazzarre il giorno prima e rientrare nei ranghi il giorno dopo. Cari politici del letargo , vi siete mai chiesti , come vengono recepiti da un popolo sano, questi vostri strani comportamenti e queste ingiustificate ,assurde performances? Se cresce l'antipolitica è, soprattutto, il frutto di questa vostra "sordità" "stucchevole". Se, al contrario, è ancora presente un popolo bue, pronto ad accettare questo vergognoso familismo amorale nella politica e nelle professioni, questo vergognoso rientro nei ranghi, questo celerissimo trasformismo politico di maniera, vorrà dire che, il buon Quotidiano e noi uomini di buona volontà, abbiamo sbagliato tutto . E' tutto da rifare( Bartali insegna). Del resto lo abbiamo constatato tante volte nel passato, ...speriamo di essere smentiti ...almeno oggi , grazie a tanti estremismi verbali e tanta poca etica della comunicazione. Prendo atto con piacere che molti opinionisti di rango concordono con me sulla disfatta dell'ambigua politica industriale lucana dei Poli di Sviluppo , incompiuti e dismessi.
7. Il porto di Gioia Tauro travolto dalla crisi. 17/01/2011. di ENZO ARCURI. Chi lo avrebbe mai detto, anche il mito del più grande porto del Mediterraneo rischia di frantumarsi sugli scogli di una crisi che non è soltanto economica. Gioia Tauro non è più l'ancora alla quale per anni la Calabria ha tentato di aggrappare le speranze di un futuro finalmente diverso, la prospettiva di un percorso virtuoso verso traguardi di crescita e di sviluppo. Il porto, che menti illuminate ed un potere politico responsabile avevano tenacemente voluto negli anni 70 all'interno di un progetto organico di rilancio dell'economia regionale e che, per molteplici ragioni e per una lunga sequenza di vicende ostili e negative, era poi diventato l'unica sola opera realizzata, si era imposto, per i suoi fondali, dopo anni di denigrazioni e facili ironie, all'attenzione della più importante compagnia marittima del mondo. Sono arrivate le grandi gru, in porto hanno attraccato i giganti del trasporto marittimo, milioni di containers sono stati trasferiti sulle navi più piccole o caricati sui convogli ferroviari, i lavoratori del porto sono diventati un piccolo esercito, più di mille giovani hanno trovato occupazione nei servizi portuali. Era iniziato il grande sogno di Gioia Tauro, il simbolo di una regione che tentava di voltare pagina. Purtroppo quello costruito attorno a Gioia Tauro è rimasto soltanto un sogno. Non soltanto perché adesso si parla di crisi, perché altri grandi porti nel frattempo si sono attrezzati nel Mediterraneo e fanno la concorrenza al porto calabrese con costi decisamente inferiori, perché è in corso una dura competizione fra i colossi del trasporto marittimo, guidati da svedesi e tedeschi, per il controllo della società di gestione. Gioia Tauro è rimasto un sogno perché attorno al porto c'è il deserto, perché in tutti questi anni si è fatto molto poco per rendere lo stesso porto competitivo adeguandone i collegamenti con il resto del territorio regionale e nazionale, perché nessun investimento serio per insediamenti produttivi nel frattempo è stato programmato e realizzato. E' stato costruito l'unico inceneritore della regione (che qualcuno vorrebbe raddoppiare) e si è pensato ad un rigassificatore, un impianto per la trasformazione del gas che a Gioia Tauro arriverebbe via mare. Per il resto nulla, un bel niente, a dispetto di tante idee puntualmente naufragate. Si dice che a scoraggiare gli investimenti sia stata e sia la presenza massiccia della ndrangheta che in questa area ha radici antiche e che controlla militarmente il territorio, una malapianta che, nonostante i molti colpi inferti dalla magistratura e dalle forze dell'ordine, è risultato finora estremamente complicato e problematico estirpare. Probabilmente è una causa ma non è la sola. Come si dice è il contesto complessivo che impedisce alla Calabria di essere competitiva ai fini degli investimenti produttivi. Ci sono responsabilità a vari livelli e comunque tutte riconducibili alle classi dirigenti, in primo luogo quella politica, come da tempo viene denunciato senza che succeda mai qualcosa che consenta di invertire un trend decisamente negativo. E qui cade a fagiolo l'analisi della diplomazia statunitense in Italia. Si tratta di un rapporto inviato a Washington dal console americano a Napoli Truhn dopo un viaggio compiuto nelle cinque province calabresi nel novembre del 2008. Questo rapporto è finito fra i file svelati da Wikileaks e ripreso dai giornali nei giorni scorsi. Il giudizio del diplomatico statunitense è severo ed impietoso. Sostiene il console americano - e questa sua opinione fa testo negli uffici della segreteria di stato degli USA - che la Calabria sopravvive perché fa parte dell'Italia, cioè è assistita dal governo nazionale, che la regione è sotto il dominio della ndrangheta, che in Calabria non c'è una società civile, nel senso che manca una coscienza civica dei cittadini, che c'è una classe politica inefficiente, in larga parte fatalista, che non crede nella capacità della regione di “contrastare o fermare la caduta dell'economia regionale” e di “uscire dal capestro della ’ndrangheta”. Non è certamente un bel sentire, è un'analisi rigorosa che deve indurre a riflessioni amare su colpe e negligenze, un pessimo biglietto da visita che non incoraggia certamente buoni propositi e non aiuta . Il diplomatico salva soltanto l'Università della Calabria e S. Giovanni in Fiore, la città dell'abate Gioacchino, le cui profezie sono state citate dal presidente Obama durante la campagna elettorale. Un'annotazione cult che ha sorpreso e ha naturalmente inorgoglito la città silana che non ha perso tempo ed ha invitato Obama a visitare i luoghi di Gioacchino. Un invito che, nonostante il fascino che certamente l'abate esercita sul presidente americano, probabilmente non avrà seguito. Specialmente se, incuriosito, Obama vorrà sapere di più della Calabria e gli faranno leggere il rapporto del suo console a Napoli.
8. Campobasso. In arrivo un altro porto turistico: lo farà la Camera di Commercio. La Camera di Commercio di Campobasso è interessata alla costruzione di un nuovo porto turistico a Termoli, proprio accanto alla struttura Marina di San Pietro, che non ha compiuto ancora un anno. L’ente ha chiesto in concessione l’area demaniale di fronte all’Istituto Zooprofilattico. Previsti 120 posti barca e 242 per le auto. Ma Termoli ha bisogno di un altro porto turistico? E quello di Campomarino, che non è mai decollato che fine farà?
Sembra incredibile, ma è vero. A Termoli qualcuno sta pensando di costruire un nuovo porto turistico. In realtà non è un semplice pensiero. Ci sono tutte le intenzioni, visto che qualcosa di concreto già c’è, segno che da tempo si sta lavorando al progetto. Sul Bollettino Ufficiale della Regione Molise è stato infatti pubblicato un avviso per l’avvio del procedimento di una nuova concessione demaniale per costruire un’altra area per la nautica da diporto. C’è già il nome: si chiamerà ‘Assomarina’. E c’è già pure il committente: la Camera di Commercio di Campobasso. Dunque non un privato, un imprenditore che investe i propri capitali, ma un ente pubblico che dunque gestisce soldi dei contribuenti e che ora ha puntato gli occhi sul porto di Termoli e sugli affari che arrivano dal mare. E dietro la Camera di Commercio c’è anche l’Assonautica. Da cui evidentemente si è preso spunto per dare il nome alla struttura.
Il nuovo scalo sorgerà vicino ai prefabbricati dell’Istituto Zooprofilattico, insomma subito dopo il porto turistico Marina di San Pietro che non ha compiuto ancora un anno di vita. Stando alla richiesta avanzata alla Regione si estenderà su quasi 40mila metri quadrati, 39.771 per l’esattezza con 120 posti barca e 242 per le auto. Lo specchio acqueo sarà invece di 44.624 metri quadrati. Un progetto più piccolo rispetto a quello che è già realtà della Marina di San Pietro, realizzato dalla Marinucci Yacthing Club, dove su 300 posti barca in via di completamento al momento ne sono stati aperti 130.
L’avviso dell’avvio del procedimento resterà pubblicato fino al 16 marzo oltre che sul Burm e sul sito della Regione, anche all’Albo dell’assessorato regionale ai Lavori Pubblici e all’albo pretorio del Comune di Termoli. Chi è interessato può visionare la documentazione che riguarda la richiesta di nuova concessione demaniale presso la sede del Servizio Trasporti su Gomma e Opere Marittime – Ufficio Lavori Marittimi e Concessioni Marittime in Via Cavalieri di Vittorio Veneto a Termoli, ma possono essere presentate anche domande concorrenti. Ma in così poco tempo chi potrà mettere su una nuova cordata di imprenditori o enti interessati alla costruzione di un porto turistico? Forse nessuno.
Al di là del progetto e della lecita richiesta per una nuova concessione viene però da chiedersi: “Che ci fa Termoli con due porti turistici?”. Soprattutto se a nord, a Montenero e San Salvo ce ne sono altri due. E se a sud c’è la grande opera incompiuta del porticciolo di Campomarino, con tutti i suoi problemi ancora irrisolti e dove la Regione finora ha già speso milioni di euro senza che la struttura decollasse. Che fine farà Campomarino se ora il pubblico investirà nella nuova struttura di Termoli? E soprattutto il Molise ha davvero bisogno di tutti questi porti turistici? (MI) (Pubblicato il 17/01/2011)

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