lunedì 17 gennaio 2011

Fenomenologia di Vendola, del sig. Roberto Cotroneo

Nichi, l’acqua calda della sinistra
17 gennaio 2011 di Roberto Cotroneo – Il Secolo XIX


CHI HA INCONTRATO anche una sola volta di persona Nichi Vendola intuisce che in lui ci sono due anime: una fortemente emozionale, dunque calda, appassionata, politica e intelligente, e l’altra fortemente idealista, nel senso hegeliano del termine: tesi, antitesi e sintesi. Un’anima che da Hegel passa a Marx per finire con Lenin, Rosmini e Mao, soprattutto. La sua parte fredda, quella vera, quella che lo tiene in piedi e gli permette di vincere due volte in Puglia e di ambire, con quali possibilità non si sa, alla corsa per la guida della futura opposizione a Berlusconi.

Se dico questo è perché solo leggendo Vendola in questa doppia chiave si evitano sarcasmi facili e luoghi comuni su di lui, e al tempo stesso non si cade nella sua trappola emozionale.

Il 13 gennaio scorso, per la cronaca, è uscito un libro di Nichi Vendola intitolato “C’è un’Italia migliore”. Circa 170 pagine, a soli 10 euro, edito da Fandango Libri.

In questa fenomenologia di Vendola si può partire da un dettaglio. L’editore: Fandango. Come tutti sanno, la Fandango è una casa di produzione cinematografica che ha avviato da poco anche una parte editoriale. Autore di riferimento della Fandango è Alessandro Baricco.
E Baricco è un mondo, come lo è Vendola, come lo è il sistema Feltrinelli. Per la prima volta Nichi Vendola pubblica un suo libro da un editore vero, un editore che conta. Tutti i suoi libri precedenti, e sono molti, inclusi alcuni volumi di poesie, sono usciti presso editori regionali o locali, dignitosi, stimabili, ma certo non autorevoli. È importante. È il nostro punto iniziale. Ci serve per capire cosa sia la sinistra emozionale, perché spaventa l’establishment di sinistra, perché entusiasma i popoli della sinistra, e perché non è affatto detto che entrambe le cose siano un buon segnale per il futuro.

Il secondo elemento da chiarire, prima di analizzare il libro di Vendola, è la sua formazione culturale. Vendola è laureato in lettere con una tesi su Pier Paolo Pasolini, ed è allievo di don Tonino Bello. Dirigente della Fgci, e dirigente nazionale del Partito Comunista. Tecnicamente, si potrebbe dire, un catto-comunista. Ma anche questo significa - soprattutto oggi - molto poco. Se nel futuro Vendola rischia di diventare il nuovo leader dell’opposizione è perché è stato capace di superare quella che è stata la sua formazione politica e culturale, tipicamente anni Settanta, e ha intuito che i popoli della sinistra hanno elaborato e covato una nuova forma di populismo affluente perfettamente complementare a certo berlusconismo, dal punto di vista culturale, anche se ovviamente lontanissimo dal punto di vista etico e morale.

Quando la destra impreca contro i vari Fazio, il povero Roberto Saviano, autore coraggioso ma ormai prigioniero di un cliché che non gli rende giustizia, e impreca sulle comicità un po’ dissolte e di parte delle Dandini, sulle ironie dei comici di sinistra, Corrado e Sabina Guzzanti in primis, sulla Littizzetto, e persino su Lella Costa, riapparsa a “Zelig” un paio di sere fa, e naturalmente su Vauro e poi su Michele Santoro, non comprende che è un sistema, un paradigma culturale che si tiene assieme perfettamente, che riguarda più o meno un terzo della popolazione adulta italiana, che ha dei modelli culturali di riferimento, dei luoghi comuni precisi.

Ma, anziché puntare il dito contro questo mondo culturale, dovrebbe dormire sonni tranquilli, perché, parafrasando la vecchia battuta di Moretti, «con questi qui non vinceranno mai». E questo, sia chiaro, senza togliere nulla all’intelligenza giornalistica di Santoro, al talento di Corrado e Sabina, alla bravura televisiva di Fazio, e alla simpatia della Littizzetto. Che, per inciso, non fanno politica. E non intendono farla. Ma fanno cultura, ed è molto peggio, per certi versi.

La politica la fa Vendola. E lui vince. In Puglia, si intende. Vendola è stato un po’ bravo e un po’ fortunato, nel passato. Ha avuto un concorrente inevitabilmente perdente come Fitto, ha potuto fare una campagna elettorale in una regione emozionante ed emozionata, che ha recepito esattamente il suo pensiero e la sua idea del mondo e della politica.

Spesso i giornalisti, di fronte a queste cose, partono a capofitto. Com’è questo libro “C’è un’Italia migliore” di Nichi Vendola? Risposta facile: fuffa. Troppo facile. Se c’è un vizio di giornali e giornalisti è semplificare, perdere di credibilità per il gusto di una battuta e per la tentazione di potersi divertire andando a esaminare debolezze culturali, strafalcioni, retoriche fini a se stesse, citazioni strampalate. E rigirando il coltello nella piaga, mettendo in evidenza, parola per parola, inconsistenze di vario tipo. Ma questo è giornalismo di ieri, si spera.

Quello di oggi dice altro: nonostante strafalcioni, ingenuità, affermazioni lunari, nonostante frasi emozionanti che si addicono meglio agli stati di Facebook che a un saggio sul futuro dell’Italia, questo libro funzionerà, piacerà ai popoli della sinistra, che siano viola, rossi o arancioni. E piacendo a quel popolo, queste tesi porteranno Vendola lontano, e allontaneranno il popolo della sinistra dal farsi possibile e seria classe dirigente in un mondo che non ha solo l’esigenza di «agire insieme», che non deve soltanto «riportare i bambini a contatto con l’agricoltura», che non ha soltanto «bisogno di nuove professionalità urbane», che non cerca «un nuovo modo di essere dei nostri governi urbani».

Potrebbe essere suggestivo parlare di «tasso di ingiustizia del futuro», e sorprendente prendere atto della «naturale predisposizione dell’essere umano all’empatia», ed emozionante invitare i tavoli ministeriali a tenere conto del «Prodotto Nazionale Sapere» da aggiungersi al Pil.

E può essere facile sostituire la parola “Patria” con la parola “Matria”: «simbolo di un capovolgimento di pensiero sul ruolo femminile». E proprio sul pensiero della differenza tra maschile e femminile augurarsi di poter fare «un lavoro profondo sull’immaginario collettivo» (il nostro, ovvio) perché cambi il modo di percepire e mercificare la donna. Come non si può non condividere tutto questo guardando quanto accade in Italia in questi ultimi anni? Ma una «sessualità diversa, partecipativa, agita e non subita, dove ci sia spazio per il desiderio, l’ironia, l’invenzione» è un po’ di più, o forse un bel po’ di meno, di un progetto politico. E se gli uomini «non possono non rinunciare a intraprendere un lungo cammino “archeologico” alla ricerca delle origini del potere maschile, scovando le profonde amputazioni ed elusioni su cui regge», non si può rinunciare a chiedersi se la cultura di sinistra, nel nostro Paese, non sia finita per essere questo: un potpourri di saggi datati, di autori letti male e in fretta, di musica mescolata, di studi sospesi e ripresi, di buona fede, entusiasmo e onestà delle idee, certo, indubbiamente, ma che dovrebbero portare a un’Italia del futuro e invece non portano da nessuna parte.

Ho smesso di contare nel libro quante volte Vendola usa le parole “nuovo” e “futuro”. È del tutto ovvio che lo faccia. Ma ho notato più volte che è proprio nell’uso delle parole, nell’uso emozionale delle parole, che il governatore della Puglia cade veramente. Vendola ha sostituito la scuola politica delle Frattocchie con un modo di leggere il mondo tra poesia e social network. Scrivere che la vera sfida è «riconnettere il meglio del nostro passato col meglio del nostro futuro» colpisce molto.

Ma il problema è con quali cervelli avviare le connessioni, e poi decidere qual è la parte migliore del nostro passato (e quanto è lungo il passato da prendere in esame) e come fare a selezionare - di già - il meglio di un futuro che ancora non c’è, che ancora non si vede. Frasi come queste, che nel libro sono continue, e generosamente abbondanti, fanno pensare a certi spot dove si cita “Romeo and Juliet” di Shakespeare per convincerci a comprare un’auto sportiva. Anche l’auto, non solo certa politica, «è della stessa materia di cui sono fatti i sogni».

E purtroppo la politica si è accorta, dopo che se ne erano accorti i pubblicitari, che convincere gli elettori è una pura operazione di marketing. Il marketing berlusconiano sappiamo che cos’è e il marketing di Vendola è fatto di cultura, suggestioni e un sentire comune, ovvero di ben altre cose. Ma è comunque marketing, ed è retorica pura. E Roland Barthes avvertiva che la retorica è un metalinguaggio, ovvero un discorso sul discorso. Ma Vendola, Barthes non lo cita, e forse non lo ha letto.

Ovviamente il libro parla anche delle fabbriche di Nichi, e nella parola “fabbrica” c’è la sua vecchia formazione leninista, con un po’ di olivettismo à la page e persino un pizzico di provocazione alla Oliviero Toscani barra Benetton. La fabbrica è «una scelta costruita sulla scommessa di un sistema a intelligenza distribuita». E francamente, con tutto il rispetto per Vendola e la sua passione politica, questa è davvero incomprensibile. Come è incomprensibile «il giardinaggio sociale», e suona anche un po’ astuto e poco trasparente il riutilizzo di stilemi poetici che hanno assai poco a che fare con la progettualità politica.

Allora «l’esilio del disincanto», il «cammino inesauribile», lo «sfratto della speranza», la possibilità, un giorno, che «al termine di questa lunga notte possiamo di nuovo innamorarci della luce, possiamo ritrovare l’alba di rapporti nuovi», per non dire, e questo obiettivamente si poteva davvero evitare, «lanciare il cuore oltre l’ostacolo».

Un ragionamento a parte meritano le citazioni che aprono ogni capitolo del libro. Sono estemporanee, ci dicono cosa Nichi ascoltava, leggeva e vedeva nel momento in cui elaborava quelle pagine. Per intenderci, eccone un esempio: «Ascoltando “Soldi soldi soldi” di Betty Curtis, 1962. Leggendo “La grande trasformazione” di Karl Polanyi, Einaudi, Torino, 1974. Vedendo “Wall Street” di Oliver Stone, 1987». O ancora: «Ascoltando “Working Class Hero” di John Lennon, John Lennon/Plastic Ono Band, Apple Records, 1970. Leggendo “Il tallone di ferro” di Jack London, Feltrinelli, 2000. Vedendo “Precious” di Lee Daniels, 2009». Gerard Genette, in “Seuils”, sapeva bene quanto i paratesti alle volte contino più dei testi. Ma in questo caso c’è un gusto della citazione emozionale che porta a un vero e proprio svuotamento di significato, e dunque serve a poco: luoghi di riconoscimento, humus comune fatto di nomi, di fotografie, di suggestioni (come le foto degli scrittori e degli intellettuali che potete vedere nelle librerie Feltrinelli). Una forma meno ruvida, e meno severa, e più mondana e piaciona, del citazionismo nei film di Nanni Moretti.

Alla fine un po’ di sgomento ti prende. Alla fine l’elenco dei temi seri affrontati da Vendola in questo libro è identico a quello dei luoghi comuni a cui sono collegati. Condivisibili i problemi. Eppure misteriose le soluzioni. Ma anche questo è figlio di un marketing culturale perverso. Anche questo va in direzione di una politica che non è più la “Bella politica” che fu di Veltroni, ma è diventata “Eyjafjallajökull – Eruzioni di buona politica”. Dove al tradizionale “bello” veltroniano si è sostituito il concetto di “eruzione”. Fuoco e lapilli che precedono purtroppo un futuro di lava fredda e indurita dal tempo. È quella stessa freddezza che - a tratti - Vendola riesce a comunicare, la sua parte razionale, un suo strano modo di vedere il mondo.

Temo che i suoi critici più radicali non si lasceranno sfuggire l’occasione di poter citare la pagina 103 del saggio. Quando Vendola scrive, e mi si perdoni la lunga citazione, ma ne vale la pena: «la Cina merita uno sguardo meno stereotipato e banale. Si tratta di un universo tumultuoso e in rapido fermento: non ci si può fermare a chiedere il pure irrinunciabile rispetto dei diritti umani solo quando fa comodo ai nostri interessi commerciali, nascondendo spesso un peloso istinto protezionistico. Nella Repubblica Popolare Cinese o il regno di mezzo (Zhõngguó) - come si autodefinisce rivendicando il fatto di essere stata per secoli il centro della civilizzazione - i cambiamenti sono partiti dal quelle stesse “fabbriche globali” che guardiamo con paura ma a cui, nell’ultimo anno, la grande ondata di scioperi operai ha portato un deciso aumento dei salari e delle condizioni di lavoro, seppure ovviamente ancora lontana dagli standard europei». Qui sarebbe semplice fare dell’ironia. I salari cinesi sono tremendi e le condizioni di lavoro nelle fabbriche agghiaccianti. Ma stiamo parlando di un Paese totalitario e liberticida, che non si connette (parola cara a Vendola) con nulla, nemmeno con Google, pena decenni di carcere duro.

C’è poca poesia da quelle parti, poca aggregazione e una brutalità che non ha paragoni in buona parte del mondo. E questo Vendola lo sa assai bene. Ma se al termine di questo articolo ho ripreso questo lungo passo del libro è perché da questa pagina, come da altre, si capisce che il modello di rivoluzione culturale vendoliana, il modello delle “fabbriche di Nichi” assomiglia troppo a quello che i cinesi ricordano tragicamente come il “wénhuà dà gémìng”, la grande rivoluzione culturale proletaria. E non si lamenti, Vendola, se tutte le buone intuizioni che si trovano in questo libro finiranno in mano ai suoi detrattori, di destra, come di sinistra, che lo definiranno un nuovo “libretto rosso”, anche se dalla copertina verde. Non si lamenti: perché se l’è cercata.

 

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