giovedì 24 marzo 2011

Federali-Sera. 24 marzo 2011. Questa è la terra di don Camillo e Peppone, del diavolo e dell'acqua santa intrecciati con benevolenza. 600 milioni a Cosmo-Skymed II generation. 450 milioni indirizzati a sviluppare la ricerca scientifica e tecnologica dedicata al mare e a tutte le sue problematiche. 250 milioni a Super B factory. 39 milioni alla formazione dell'Ambito nucleare. 80 al progetto Ignitor. 12 alla Fabbrica del futuro. 23 alla Nanomax. InterOmics 25 milioni. Epigenomica 30 milioni. Altrettanti ne andranno infine ai beni culturali per potenziare l'appeal turistico dello Stivale.

Pago domani:
Il conto salato dei default.
Portogallo: tassi bond a massimi da 1999 balzo rendimenti per i titoli a due anni. Spagna: Moody's taglia rating banche. decisione segue downgrade paese.

Lista segreta:
I conti del Raìs: la lista segreta.
Tensioni diplomatiche Italia-Francia. Annientate difese aeree di Gheddafi.
Yemen, l’opposizione prepara un "venerdì della collera" contro Saleh.

Problemi di status:
Aostee. Due francesi arrestati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Rovereto. I profughi dell'Africa ospitati a Rovereto.
Udin. La Lega vuole un no deciso all’accoglienza dei profughi.
Milano. Profughi, la corsa per un posto-letto
Treviso. «Profughi in due città venete»
Genova. Profughi in Liguria? Possibile l’arrivo di alcuni «delinquenti».
Roma. Non sono profughi, hanno soldi e abiti griffati.
Padova. Profughi dalla Libia, Zanonato: «La caserma Romagnoli non è adatta».
Mediterraneo: oltre la crisi, guardare alle potenzialità di sviluppo e integrazione.

Battaglie per l'identità:
Modena. La Lega Nord non scorda Mameli.
Venezia. La battaglia per l'identità. «Il veneto come lingua ci costerebbe troppo»
Roma. Via libera del Cipe a 1,8 miliardi per 14 progetti
La benzina reintegra i tagli della cultura.
Su Parmalat l'Italia prende tempo


Il conto salato dei default. Roberto Perotti. Default È la situazione in cui un ente (pubblico o privato) che emette un titolo non è in grado di rimborsare i debiti secondo il calendario concordato con i creditori e di rispettare le scadenze previste.  Il default può essere formale o sostanziale. Nel primo caso l'emittente non rispetta gli indici di copertura per cui il prestito può subire una modifica.
Il default sostanziale si verifica quando l'emittente non è in grado di saldare le rate alle scadenze fissate. La retorica europeista è un vezzo fastidioso della nostra cultura; quando viene propinata con i soldi altrui diventa insopportabile. Tanti cittadini italiani si scottarono con il default argentino, ma non ricordo di aver sentito politici, economisti o giornalisti chiedere comprensione per quel paese; al contrario, vi fu una sorprendente durezza verso un paese alle prese con una recessione gravissima. Non così quando parliamo di Germania e Grecia. Cosa è cambiato? Che non si sta parlando di soldi nostri, ma di contribuenti stranieri. E diventa più facile essere generosi.
Oggi e domani i capi di stato e di governo dell'Unione Europea si riuniscono per sancire alcune decisioni prese nelle ultime settimane: un aumento di disponibilità per i fondi di salvataggio dei paesi sovrani; il Patto per l'euro, che "suggerisce" alcune politiche per evitare il ripetersi di casi come Grecia e Portogallo; e alcune regole più stringenti per le politiche di bilancio.
Ci sono tre costanti nei commenti italiani a questi sviluppi: non ci sono mai abbastanza soldi per i salvataggi; non c'è mai abbastanza coordinamento delle politiche economiche; e ci sono troppe regole capestro imposte da pochi paesi grandi, prepotenti e miopi. Tutte tre queste critiche denotano una incomprensione di fondo dei vincoli politici prevalenti nei paesi europei.
L'idea che il default sovrano vada evitato a tutti i costi è nefasta, e serve solo a preparare nuovi default in futuro. Ma anche ammesso che la si voglia attuare, è necessario che qualcuno metta i soldi. Comunque si voglia denominare lo schema, qualsiasi salvataggio è un trasferimento dai paesi in salute, cioè da Germania, Francia, Olanda, Finlandia e pochi altri, ai paesi in difficoltà. È così strano che i contribuenti dei primi siano meno che entusiasti? È straordinario vedere tanti commentatori stupirsi che i politici tedeschi e finlandesi siano riluttanti a fare infuriare i propri elettori e ad allargare i cordoni della borsa. Si dice che così facendo però politici ed elettori denotano miopia. Ma veramente è nel loro interesse salvare un paese come la Grecia? La vera miopia è dei commentatori nostrani, che si ostinano a ignorare i vincoli politici - peraltro perfettamente legittimi e ragionevoli - degli altri paesi. L'unica battaglia che è impossibile vincere per chiunque è quella contro gli interessi di 62 milioni di elettori tedeschi: nessun profluvio di retorica potrà mai prevalere contro di loro.
La retorica europeista da anni afferma anche che non c'è abbastanza coordinamento delle politiche economiche. Eppure il patto per l'euro e le regole sulle politiche di bilancio non sono altro che tentativi di imporre un coordinamento alle politiche salariali, di impiego pubblico, pensionistiche, e di bilancio, con un duplice obiettivo: evitare le perdite di competitività e i disavanzi fuori controllo che sono in parte la causa delle difficoltà di Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda.
Improvvisamente però questo non è più il coordinamento che tutti volevano, ma un insieme di regole nocive volute dalla Germania per imporre la deflazione al resto d'Europa. Certamente queste norme non risolverebbero tutti i problemi, in particolare la fragilità persistente del settore bancario. E il dibattito è in ogni caso puramente accademico, perché tutte queste misure non sono accompagnate da alcuna sanzione reale per i trasgressori. Sia ben chiaro: è un bene che sia così, perché questi tentativi di imporre regole comuni non hanno mai funzionato e non funzioneranno mai; al momento buono qualsiasi governo infrangerà una regola se è nel suo interesse farlo, e nessuno manderà i carri armati per punirlo. Ma le reazioni indicano quale è il problema di fondo. Se un paese vuole perseguire politiche di bilancio e salariali allegre, pagherà con un disavanzo commerciale a meno che anche gli altri paesi non facciano altrettanto. Se invece riesce ad adottare politiche salariali e di bilancio prudenti, può farlo anche se gli altri paesi non lo seguono, anzi ha molto da guadagnare a fare l'apripista solitario: Germania docet.
Il continuo richiamo al coordinamento delle politiche economiche si rivela quindi per quello che è: una foglia di fico per costringere anche le formiche a comportarsi da cicale. Quando sono invece le formiche che cercano di impedire alle cicale di scialacquare troppo, e di rivolgersi poi ogni inverno alle formiche, ecco allora che il coordinamento diviene un'insopportabile imposizione dei più forti e prepotenti.
Ignorare pervicacemente i vincoli politici interni dei paesi virtuosi per spingerli a sottoscrivere politiche di dubbia utilità non paga, anzi alla lunga è controproducente: alla fine scatenerà soltanto una reazione irata dei contribuenti di quei paesi, che impedirà anche quel poco (o quel tanto) che finora hanno acconsentito ad attuare.
Portogallo: tassi bond a massimi da 1999 balzo rendimenti per i titoli a due anni. (ANSA) - ROMA, 24 MAR - Balzo dei rendimenti dei titoli di Stato del Portogallo: sulla scadenza 2 anni, il tasso di rendimento e' salito ai massimi dal 1999 raggiungendo il 6,87% con un rialzo di 27 punti base.
Spagna: Moody's taglia rating banche. decisione segue downgrade paese. 24 marzo, 08:33. (ANSA) - ROMA, 24 MAR - Dopo il taglio del rating sul debito della Spagna Moody's decide di ridurre anche il voto al sistema bancario spagnolo. L'agenzia di valutazione ha infatti abbassato il giudizio sulla solidita' di trenta istituti di credito del paese iberico.
I conti del Raìs: la lista segreta. Cento miliardi di dollari della Banca centrale distribuiti tra Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Esiste presso il Consiglio di sicurezza dell'Onu una notifica che intende risparmiare ai libici il destino toccato, fra gli altri, ai cittadini di Panama, della Nigeria o di Haiti. Una costante tiene insieme questi popoli così diversi: al termine di paurose dittature, hanno perso il filo di certi conti bancari in precedenza controllati dal regime. In quei casi erano fondi depredati da tiranni come Sani Abacha, Manuel Noriega o François Duvalier. Stavolta in gioco c'è il patrimonio della Banca di Libia: oltre cento miliardi di dollari da tutelare perché restino ai libici se e quando Muammar Gheddafi non sarà più il leader di quel che resta della Jamahiria.
La lista è depositata al Palazzo di Vetro da prima che il Consiglio di sicurezza desse il via ai bombardamenti. Da tempo era chiaro che i dettagli in quel pezzo di carta un giorno potrebbero tornare utili: in futuro nessuno in Libia o fuori potrà dire che le cose stavano diversamente, che quei soldi non sono libici, o non sono mai esistiti. Si tratta di una precauzione non da poco. Non lo è, perché ciò che emerge dal documento è il profilo di uno Stato finanziariamente molto più robusto di quanto gli analisti immaginassero fino a qui. Che la Libyan Investment Authority (Lia) gestisse circa 60 miliardi di dollari in investimenti esteri era in effetti ormai chiaro. Ciò che non si sapeva, è che quella somma non costituisce neppure la metà delle riserve ufficiali di Tripoli. Molto più di quanto detiene la Lia resta nei conti che la Banca di Libia, l'istituto centrale del Paese, ha distribuito presso decine di importanti banche private occidentali.
Il patrimonio della Banca di Libia ammonta in totale a 102,9 miliardi di dollari. Di questi 2,4 sono depositati presso il Fondo monetario internazionale a copertura quota libica nell'organismo di Washington. Altri 17 miliardi di dollari sono poi denaro in teoria del fondo sovrano, la Lia, ma depositato presso conti a nome della banca centrale. Il resto del patrimonio, circa 85 miliardi di dollari, appartiene poi tutto direttamente all'istituto centrale. Da un paio di settimane queste somme in realtà sono congelate per legge sia in Europa che negli Stati Uniti, benché in teoria ancora in febbraio su certi conti potrebbero esserci stati movimenti. Ma si tratta comunque di un patrimonio determinante nella battaglia per la Libia: su quella ricchezza un futuro governo che dovesse emergere dopo Gheddafi potrà fondare la rinascita del Paese, magari grazie a un grosso programma di welfare e nuove infrastrutture (che molte imprese occidentali faranno la fila per costruire).
Secondo osservatori del sistema finanziario la Banca di Libia negli anni sembra aver gestito con accortezza le proprie riserve, senza concentrare il rischio in alcun Paese. Così in Italia risultano depositati in totale 9,86 miliardi di dollari, di cui 4,7 miliardi in titoli e investimenti di portafoglio, con il resto concentrato in strumenti monetari (ossia, in denaro liquido). Gli istituti presso i quali la Banca di Libia avrebbe aperto delle posizioni sono principalmente Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre alla Banca d'Italia. A queste somme vanno aggiunte poi le partecipazioni libiche in Unicredit, Finmeccanica o Eni, anch'esse congelate da un paio di settimane.
Benché l'Italia sia il principale partner commerciale della Libia, sul piano finanziario Tripoli ha puntato ancora di più sulla City di Londra. In Gran Bretagna risultano concentrati 14,4 miliardi di dollari della banca centrale, anche qui distribuiti in tutti i principali istituti: i conti sono aperti presso Hsbc, Barclays, Lloyd e anche presso la Bank of England. Anche in Francia l'esposizione è sostanziale e superiore a quella accumulata in Italia. E anche in questo caso emerge un'attenta distribuzione delle riserve fra le varie grandi banche del Paese: fra queste la Banque de France, Bnp Paribas, Société Générale e Crédit Agricole.
Non risultano invece posizioni in Svizzera, probabilmente perché smobilizzate dopo che Hannibal Gheddafi, figlio del Raìs, venne arrestato nel 2008 in un hotel di Ginevra per aver malmenato la moglie. La banca centrale di Tripoli non ha invece avuto dubbi nell'aprire un conto in banca negli Stati Uniti: si trova presso la Bank of New York Mellon, istituto specializzato in attività di deposito per investitori di tutto il mondo.
Resta poi la parte oggi forse più rilevante del patrimonio della banca centrale, quella in oro. Le riserve in lingotti arrivano almeno a 143 tonnellate, pari a circa 6,5 miliardi di dollari ai valori attuali, e sono fondamentali in questa guerra perché restano la sola porzione del tesoro oggi davvero nelle mani di Gheddafi. Quell'oro non è stipato nelle banche svizzere o in quelle inglesi: è nei caveau sotto i palazzi di Tripoli. Il colonnello può ancora farlo vendere in Chad o in Niger per finanziare la guerra e stipendiare i mercenari. Ma agli uomini di finanza che lo hanno incontrato, Gheddafi non è mai parso così interessato al denaro: solo quanto basta per bombardare i propri cittadini pur di non cedere loro un solo dollaro. Federico Fubini
Tensioni diplomatiche Italia-Francia. Annientate difese aeree di Gheddafi. Giovedì 24 Marzo 2011 08:06 Redazione desk. TRIPOLI –  Il sì ufficiale della coalizione dei "volenterosi" al coinvolgimento della Nato non basta ad appianare le divergenze e a definire una strategia comune. Per stessa ammissione di Obama, una decisione chiara sul comando delle operazioni in Libia arriverà solo nei prossimi giorni. Forse tra 48 o 72 ore, dicono gli osservatori internazionali. Nonostante il prezioso lavoro di ricucitura portato avanti dal presidente americano c’è infatti ancora incertezza sulla natura del coinvolgimento dell’Alleanza, mentre la Francia sembra ancora intenzionata a rivendicare un ruolo di primo piano rispetto ai partner internazionali nell’attuazione della risoluzione 1973 dell’Onu. Se ieri in mattinata un portavoce del governo transalpino dichiarava che la Nato avrà «un ruolo tecnico nelle operazioni in Libia», più tardi è lo stesso ministro degli Esteri Alain Juppé a precisare che in ogno caso l’Alleanza non eserciterà il «pilotaggio politico» della missione e che si limiterà ad intervenire come «strumento di pianificazione e di condotta operativa» nell’applicazione di una no-fly zone aerea. Ragionamento che terrebbe quindi ancora in piedi l’ipotesi, avanzata dagli stessi francesi lunedì scorso, di costituire una sorta di «cabina di regia» politica che includerebbe la Nato insieme agli altri protagonisti.  Una decisione importate ha invece riguardato da vicino l’Italia, alla quale è stato assegnato il comando della componente marittima della missione. Il nostro Paese (con tre navi e un sottomarino) avrà la diretta responsabilità  operativa dell’embargo sul trasporto di armi e mercenari, missione entrata nel vivo già ieri con il dispiegamento di uomini e mezzi. Come ha spiegato in una conferenza stampa a Bruxelles il generale della Nato Pierre St-Amand, italiana è la nave ammiraglia, condotta dal comandante dell’intera operazione navale Nato, il contrammiraglio Rinaldo Veri, mentre delle dieci fregate che partecipano all’operazione, una è italiana, una canadese, una spagnola, una inglese, una greca, una americana e quattro turche. Tre sottomarini: uno italiano, uno spagnolo e uno turco ai quali andranno ad affiancarsi due navi ausiliarie, una italiana e una turca. Il compito di assicurare l’embargo non è semplice. I servizi d’intelligence hanno segnalato alla Nato di disporre di prove che testimonierebbero che il traffico d’armi e l’afflusso di mercenari verso la Libia di Gheddafi in realtà non si è mai interrotto, nonostante il divieto imposto dal consiglio di sicurezza dell’Onu. «La Nato è pronta ad agire se e quando sarà richiesto», ha detto la portavoce della Nato, Oana Lungescu. «I piani sono pronti, ma perché siano lanciati serve il consenso di tutti i 28 partner e le discussioni sono ancora in corso», ha aggiunto. E mentre a Bruxelles si tentava di sciogliere qualche nodo in più, continuavano gli scontri in Libia. Due raid aerei delle forze della coalizione non sono serviti a scoraggiare i fedelissimi di Gheddafi. Miliziani e mercenari hanno continuato a bombardare la città di Misurata, occupando uno degli ospedali e piazzando cecchini sul tetto per impedire il ricovero dei feriti e dei ribelli e ostacolare la fuga dei civili. Bombardamenti delle forze del colonnello anche a Zenten, nell’ovest della Libia e ad Ajdabiya (a 160 chilometri da Bengasi), dove, come hanno riferito degli abitanti, 20 carri armati hanno frenato l’avanzata dei ribelli posizionati a nove chilometri di distanza dall’entrata orientale della città. Nuovo allerta umanitario delle Nazione Unite: «La situazione dei civili dentro e intorno ad Ajdabiya, Misurata e altre località dove continuano i combattimenti rimane di grave preoccupazione - dice in una nota l’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) -. Ci sono notizie non confermate di ulteriori 80mila profughi interni alla Libia», oltre agli oltre 335mila che sono già fuggiti fuori dal paese dall’inizio della crisi. Secondo l’ufficio dell’Onu «le esigenze mediche in Libia sono in aumento a causa dei recenti combattimenti e sono aggravate dalla carenza di personale medico». Scarsissimi acqua, carburante ed elettricità. Se sul terreno continuano gli scontri, in compenso le 97 missioni effettuate dalla coalizione nelle ultime 24 ore hanno praticamente annientato ogni difesa aerea del raìs. «La loro forza aerea non esiste più come forza combattente», ha detto l’Air Vice Marshal della Raf Greg Bagwell a Gioia del Colle dove sono di base i caccia britannici: «Il loro sistema di difesa integrata e le reti di comando e controllo sono così gravemente degradate che possiamo operare con relativa impunità sulla Libia». Come sempre contraddittori i numeri dei bollettini delle vittime.
Yemen, l’opposizione prepara un "venerdì della collera" contro Saleh. La polizia di Dubai sequestra 16mila fucili diretti nel nord dello Yemen. Roma, 24 mar (Il Velino) - Sale la tensione nello Yemen. L’opposizione ha respinto sia l’approvazione dello stato d’emergenza da parte del Parlamento, sia la proposta del presidente Ali Abdallah Saleh di anticipare la fine del suo mandato. I dimostranti stanno organizzando un nuovo “venerdì della collera” per chiedere con più decisione le dimissioni immediate di Saleh, anche con una marcia davanti al palazzo presidenziale. Da Londra intanto, spiega la Bbc, il Foreign Office ha chiesto a una parte del suo staff diplomatico accreditato a Sana’a di rientrare, suggerendo allo stesso tempo ai cittadini britannici di non recarsi nello Yemen. Da Dubai, intanto, rimbalza la notizia del sequestro di 16mila fucili da parte della polizia. Le armi, ha spiegato il generale Dahi Khalfan, “erano dirette nel nord dello Yemen – riferisce 20minutes.fr – controllato dalla ribellione sciita”. (dam) 24 mar 2011 10:36
Aostee. Due francesi arrestati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Cercavano di far entrare in Francia cinque tunisini irregolari. 24/03/2011. AOSTA. Sono stati accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina due cittadini francesi arrestati ieri mattina dalla polizia di frontiera al traforo del Monte Bianco. Si tratta di Karim Khobi di 29 anni e Chokri Boufnina, 33 anni, fermati alla guida di un furgone mentre tentavano di far giungere in Francia cinque cittadini tunisini risultati irregolari. Nei confronti dei nordafricani è stato emesso un decreto di espulsione.
Rovereto. I profughi dell'Africa ospitati a Rovereto. 24/03/2011 08:44. ROVERETO - «In caso di afflusso massiccio siamo pronti ad ospitare un gruppo di profughi nell'area della Protezione civile a Marco di Rovereto. Abbiamo posto al massimo per un centinaio di persone e per un periodo di tempo limitato». Lorenzo Dellai mette le mani avanti rispetto alle richieste del governo di ospitare anche in Trentino parte dei disperati che ogni giorno tentano la sorte su vecchi barconi per attraversare il Mediterraneo e cercare un futuro migliore in Italia e in Europa.  «Ancora settimane fa - precisa Dellai - abbiamo dato disponibilità, ma si tratterebbe comunque di una sistemazione temporanea. Le persone potrebbero venir ospitare per due, massimo tre mesi, perché l'area non è adatta a soggiorni di lungo periodo». Poi bisognerà che il governo trovi eventualmente altre soluzioni. Il Trentino, dunque, è pronto a fare la propria parte ma a condizioni ben precise. Sull'altro fronte aperto, quello relativo all'ospitalità dei rifugiati politici, la Provincia per ora non ha avviato alcuna iniziativa concreto. Rispetto a quanto riferito dall'assessore Lia Giovanazzi Beltrami dopo l'incontro a Roma di martedì con i rappresentanti di tutte le regioni, Dellai ha poco da aggiungere. Quella dei cinquecento rifugiati politici che potrebbero arrivare in Trentino è soltanto una previsione di massima sulla base della stima complessiva fatta dal governo di circa 50 mila persone che potrebbero richiedere asilo politico.
Udin. La Lega vuole un no deciso all’accoglienza dei profughi. di Anna Buttazzoni. E Tondo ripete che prima del Friuli Venezia Giulia altre regioni dovranno dimostrare disponibilità. UDINE. Lui, il presidente Fvg Renzo Tondo, ripete che prima del Friuli Venezia Giulia altre regioni dovranno dimostrare disponibilità nell'accoglienza ai profughi. Gli altri, i leghisti, vogliono che il "no" del governatore agli arrivi sia blindato e per raggiungere questo obiettivo hanno presentato una mozione in Consiglio, che verrà discussa in Aula tra martedì e giovedì. Martedì a Roma un incontro tra il ministro dell'Interno Roberto Maroni e i governatori - per il Friuli Vg era presente il vice presidente Luca Ciriani - ha messo in evidenza i numeri. Il ministero ha fatto sapere che nei prossimi due mesi sono attesi 50 mila profughi dal Nord Africa e ha chiesto la disponibilità delle Regioni ad accoglierli, fissando dei criteri. Per Maroni, quindi, potrebbero essere trasferiti in ciascuna regione mille immigrati ogni milione di abitanti. Con dei distinguo per quei territori che già hanno una forte pressione migratoria, come le regioni del sud, o quelle che ospitano già struttura come i Cie e i Cara, che è il caso del Friuli Venezia Giulia, a Gradisca d'Isonzo.
«Sull'accoglienza dei profughi dalla Libia faremo la nostra parte - conferma Tondo -, ma mi pare giusto che prima anche altre regioni dimostrino nei fatti la loro concreta capacità di accoglienza. La nostra disponibilità davanti ai problemi prospettati dal ministro Maroni è già un dato di fatto e non ha bisogno di essere dimostrata. Balletti di cifre non servono e non aiutano. Il ministro Maroni ha dato dei criteri precisi nei quali parla di mille profughi ogni milione di abitanti, tenendo conto delle Regioni che hanno già strutture come i Cie e i Cara». Da qui il governatore riparte per spiegare che il Friuli Vg ha già dato. «Come regione abbiamo già offerto ospitalità in un recente passato e sul nostro territorio, non senza problemi, ci sono un Centro di identificazione e un Centro di accoglienza giunti alla saturazione. Siamo regione al confine dello Stato italiano e questo - conclude Tondo - , da tempo, comporta oneri nel nostro territorio per il contrasto all'immigrazione clandestina in piena collaborazione con il ministero degli Interni».
La Lega vuole un no più netto e robusto che arrivi dall'approvazione della mozione depositata. «Va spiegato al governo - afferma il capogruppo della Lega in Consiglio Danilo Narduzzi - che un parametro come quello degli abitanti è corretto, ma non basta. Su tutto deve prevalere un altro elemento, quello dell'incidenza già esistente degli immigrati in un determinato territorio, perché nel decidere numeri e destinazioni non è possibile prescindere dall'impatto di stranieri in una certa regione. Il Friuli Vg ha già un Cie al collasso e questo va ripetuto al governo».
E sull'emergenza in Nord Africa interviene anche l'Anci - associazione nazionale Comuni italiani - del Friuli Vg. «Qualora la Regione decidesse di accogliere le richieste del governo sull'ospitalità ai profughi - ha deciso l'Anci - i sindaci non potranno non fare la propria parte, ma solo su un piano coordinato dalla Regione e che preveda anche le necessarie risorse».
Milano. Profughi, la corsa per un posto-letto «Finiamo tra tossicomani e clochard». Emergenza Nordafrica: su cinquecento, solo 300 riservati ai rifugiati. «Per noi niente casa né lavoro». MILANO - Una timida signora romena coi baffetti vende sigarette sfuse a venti centesimi; un ucraino con stivali da cowboy un cellulare Motorola a 15 euro. Kidane Tesfay dice d'aver finito stamattina i soldi in fotocopie. Ha una cartelletta rossa piena di fogli. Il suo curriculum moltiplicato cento volte. Passerà il pomeriggio a distribuirlo. In Eritrea aveva un'impresa edile. Ha 22 anni. È arrivato nel 2007. Casa sua-Libia-Lampedusa-Milano. «Per il viaggio ho pagato duemila euro. Da me, un medico prende 30 euro al mese». Sono le 13. Esce dalla mensa per poveri dei Cappuccini. Corso Concordia. Tra pranzo e cena, ogni giorno, passano duemila persone. Il 30 per cento, ci informano, sono rifugiati politici. Anche Kidane è un rifugiato politico. «In Italia, a Milano, garantiscono un'accoglienza per sei, otto mesi. Poi basta. Ti arrangi. Devi trovarti abitazione, un impiego. Come fai? Chi ti assume? Con questa crisi... Lo sai invece in Europa quali opportunità ci sono?». Olanda, Inghilterra. Austria, Belgio. La Scandinavia. L'Europa, ai rifugiati, dà appartamenti; aiuta chi ha interrotto gli studi universitari a riprenderli; offre sconti per far la spesa; obbliga a frequentare i corsi di lingua. Un mondo severo: vietato sgarrare. Un altro mondo, appunto. «A Milano», dicono dal consorzio della Caritas Farsi prossimo, «sembrerà strano ma siamo all'avanguardia». Possibile? «In totale ci sono cinquecento posti letto a disposizione». La maggioranza è gestita dal consorzio. In realtà i posti veri, destinati ai rifugiati, sono circa trecento. I restanti vengono ricavati nei dormitori, dove confluiscono senza distinzione rom all'ennesimo sgombero, italiani separati, eterni clochard. Col 31 marzo, data di chiusura della cosiddetta emergenza-freddo, i dormitori saranno svuotati. Resterà un letto per i «casi gravi». Cioè chi, prevede questa sorta di classifica, proprio non ha di dove dormire. «E noi», sorride un tunisino, sempre nella mensa dei Cappuccini, «finiremo ai giardini pubblici».
Scappano da guerre, persecuzioni, vendette. Nell'aprile 2009 l'allora 24 enne Abdullah aveva raccontato: «Vengo dall'Afghanistan. Mi stavo laureando in Medicina. Arrivarono i talebani. Ci spararono. Fuggimmo. Io da una parte, mamma e papà dall'altra». Non si sono più ritrovati. Abdullah stava nell'accampamento baraccopoli nato allo Scalo Romana. Con otto amici. Li han cacciati. Stanno ripulendo, ora. Aria di riqualificazione. Spazi. Binari. Chissà che ci faranno.
Le richieste di asilo politico sono poche centinaia. Quattro, cinque, seicento all'anno, in città. Ogni giorno per ogni rifugiato accolto, il governo dà ai Comuni tra 55 e 70 euro. I politici, sarà per la campagna elettorale, sono tutti presi da dichiarazioni su una presunta invasione di profughi non supportata da nessun numero. Ieri la Moratti ha detto che «Milano ha già dato» e lo sfidante Pisapia si è appellato al «welfare ambrosiano». Nel mentre il governatore Formigoni ha garantito che la Lombardia farà il suo «sollecitando l'Unione europea perché distribuisca equamente il dovere di accoglienza umanitaria».
In via Novara, via Giorgi, viale Fulvio Testi, via Fratelli Gorlini. Queste le strutture per i rifugiati, come si legge sulla pagina Internet del Comune con indirizzi, indicazioni, telefoni. È disponibile una traduzione in tre lingue. Naturalmente, è un dettaglio, non c'è l'arabo, parlato dalla maggior parte dei rifugiati. Andrea Galli
Treviso. «Profughi in due città venete».Gobbo, segretario del Carroccio: «Una nostra e una di sinistra». Padova e Feltre in cima alla lista. Zanonato: «Scelta della Lega». TREVISO—L'arrivo dei profughi mette in allarme il Veneto prima ancora che l'ipotesi prenda consistenza e direzione. La politica ha già usato abbondantemente le sue armi verbali ma ora il partito più ostile sembra pian piano ammorbidire i toni: la Lega, complice il piano formulato dal suo ministro Roberto Maroni, ha già fatto la sua timida apertura attraverso le dichiarazioni del governatore Zaia (seppur con ficcante distinguo) e ieri è toccato al segretario veneto Gian Paolo Gobbo «accettare» l'inserimento di due siti veneti nella lista. I nomi più gettonati sono sempre gli stessi. Padova e Feltre, dice, sono «soluzioni possibili, ci sono dei ragionamenti in atto». Altre no, non ce ne sono. «Sono due siti bipartisan, uno del Pd e uno della Lega». C'è nelle sue frasi un tono che molto ha dell'intesa con Maroni con il quale probabilmente ha parlato della cosa: «Dove si può, saranno accolti».
Non a Treviso però, la città in cui è sindaco. «Impossibile che vengano qui da noi, non abbiamo spazi o strutture adatte, la caserma Salsa di cui si è parlato non è mai stata inserita nella lista del ministero » dice con rassicurante certezza. Rassicurante per i suoi cittadini, certezza per il filo diretto che il segretario ha con i vertici del partito. E prende forma quanto trapelava nelle prime indiscrezioni capitoline: l'ex caserma Romagnoli di Padova, e la Zannettelli di Feltre. Poi ci sono la Croce Rossa di Jesolo e la colonia di Bibione. «Bisogna fare delle distinzioni - sottolinea Gobbo, in linea con le dichiarazioni del governatore Zaia -. Donne e bambini che fuggono dalla guerra saranno accolti, ma c'è una parte di clandestini che vediamo oggi a Lampedusa che non dovrà entrare. Lì sbarcano uomini giovani in salute alla ricerca di lavoro, e qui per loro non ce n'è. Ma non sta a me dire chi e cosa entrerà, l'ha già stabilito il ministro dell'interno». E tanto basti. Il sindaco di Padova però scuote la testa. Flavio Zanonato se la prende con chi tende a banalizzare la vicenda. Che, alla fine, si tradurrebbe in un presunto «sostegno» alla Lega Nord. «Non si può continuare a raccontare alla gente — scandisce Zanonato — che da una parte c’è la sinistra che vuole portare i profughi nel nostro territorio e dall’altra invece c’è la destra che difende i padovani e i veneti e rispedisce al mittente qualsiasi eventuale richiesta di disponibilità ad accogliere temporaneamente alcune persone. Le cose non stanno così».
L'attacco del sindaco Pd è veemente e punta dritto al Carroccio. «Come Anci (l’associazione nazionale dei comuni italiani di cui Zanonato è vicepresidente, ndr), d’accordo con il ministero dell’Interno, abbiamo messo in piedi da diversi anni il progetto Sprar, cioè sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, un programma che offre ospitalità alle persone in fuga dalla guerra civile attuando percorsi di integrazione sociale e lavorativa». I padovani e i consiglieri leghisti del quartiere di Chiesanuova in cui sorge la caserma Romagnoli sono in fermento. «Al momento, in Veneto e tanto meno a Padova, nessun profugo è in arrivo - tiene a precisare - affermare il contrario serve soltanto alla Lega per fare propaganda, facendo leva sulla paura ed ergendosi a paladina della sicurezza dei cittadini». Parole nette pure sull’ipotesi di destinare l’ex caserma Romagnoli all’accoglienza provvisoria dei profughi nordafricani: «Nulla di tutto ciò - dice Zanonato -. Anche perché non è di mia competenza, bensì del ministero della Difesa. Quindi, dello Stato. Cioè della Lega». Ed evidenzia l'ambiguità fra le recenti dichiarazioni. «Se mai dovesse arrivare qualcuno, la decisione verrebbe presa dalla Lega. La stessa Lega che, a livello nazionale, fa parte della cricca romana ed accetta i peggiori compromessi e che invece, a livello locale, si scaglia e raccoglie le firme contro le scelte che prende il suo ministro». Silvia Madiotto
Genova. Profughi in Liguria? Possibile l’arrivo di alcuni «delinquenti». 24 marzo 2011 Beppe Risso. Lorena Rambaudi. Genova - «Il ministro Maroni avrebbe potuto decidere personalmente i siti da destinare all’accoglienza dei profughi, ma ha preferito che sul territorio ci fossero piani condivisi. Alla luce di questo, noi non obbligheremo nessuno ad accogliere la quota di profughi che verrà assegnata alla Liguria. Ovviamente, se nessuno metterà a disposizione le sue strutture, saremo costretti a intervenire»: sono parole di Lorena Rambaudi, assessore regionale alle Politiche sociali, intervenuta questa mattina su Radio19 nella trasmissione Due ore del Secolo.
La Rambaudi ha confermato l’iter che deciderà l’accoglienza: «Stiamo aspettando il piano del ministero con gli obiettivi numerici regionali, dopodiché interverremo tempestivamente. Non si dà per scontato che questo flusso così elevato rimanga in Italia o nei paesi europei. Non escludo che una quota si fermerà, ma per il momento non stiamo affrontando questo tema: credo che sia importante andare per gradi e incominciare a fare un’accoglienza che sia tale».
Sulla possibilità che tra gli stranieri che richiederanno asilo politico ci possano essere anche criminali, ventilata da molti, l’assessore non esclude che «se all’interno di questo flusso ci saranno persone che delinquono, questo sta nella gamma di una popolazione. Mi ricordo, però, l’emergenza albanese del 1991: la maggior parte si è inserita nel tessuto savonese».
Roma. Non sono profughi, hanno soldi e abiti griffati. Roma, 24-03-2011. Luca Zaia, governatore leghista del Veneto, in due diverse interviste al Giornale ed al Quotidiano nazionale, appoggia la strategia del ministro Roberto Maroni che vuole smistare nelle regioni gli stranieri sbarcati a Lampedusa. Ma mette i paletti sulle distinzioni da fare tra profughi e clandestini: "Di sicuro, quelli che arrivano con le scarpe da ginnastica firmate, il giubbottino all'occidentale e il telefonino in mano non è gente che chiede asilo politico. Gli italiani sono indignati da questo spettacolo.
Lampedusa non è invasa da rifugiati politici o disperati, ma da tunisini che fuggono da un territorio nel quale è ripresa la vita normale e sono state riaperte le aziende: lo dico perché laggiù lavorano tante imprese venete". E aggiunge: "I barconi dell'emergenza umanitaria li abbiamo visti tutti in passato, erano carichi di gente di ogni tipo, donne, vecchi, bambini.
Oggi sbarcano soltanto ragazzi di 25-35 anni senza famiglia che appaiono in carne, ben messi e non così sprovveduti. Qualche barcone così posso anche capirlo; questi invece sono tutti maschi che sborsano duemila euro agli scafisti per fare la traversata". E sul Veneto dice: "Faremo la nostra parte.
Noi appoggiamo il piano abbozzato dal ministro con tutte le regioni, ma si tratterà di dare asilo politico. La cifra di 50mila profughi è virtuale, e al momento è pari a zero. E poi occorreranno opportuni correttivi. Il Veneto ha già un`importante pressione demografica straniera, siamo la terza regione in Italia con circa 700mila immigrati di cui almeno 30-40mila disoccupati a causa della crisi. Abbiamo avuto l`alluvione, che ha coinvolto 370 comuni veneti su 580". Anche al Quotidiano nazionale il governatore esprime le sue perplessità: "Mi sembra strano arrivino profughi politici dalla Tunisia. Laggiù la vita è tornata alla normalità. C`è un'evidente ripresa delle attività imprenditoriali. E quindi se arrivano da lì significa che sono clandestini. Che vanno portati nei Cie e poi espulsi".
Padova. Profughi dalla Libia, Zanonato: «La caserma Romagnoli non è adatta». PADOVA. «E' piccola, ma anche un contesto inopportuno: i profughi di guerra che mantengono libertà di movimento». Così il sindaco Flavio Zanonato "boccia" la caserma Romagnoli di Chiesanuova. In compenso, non molla la presa sulla Lega Nord. Anzi, dopo il summit di martedì a Roma, rilancia la sfida sulla sostanza.
«Sui profughi della Libia decide proprio la Lega che è al governo. Aspettiamo il piano che il ministro Maroni si è impegnato a stilare, dopo aver annunciato lui l'arrivo di 50 mila profughi. La Lega a Roma decide nel governo Berlusconi con cui fa compromessi. La Lega a Padova fa la dura e pura con una propaganda indegna. Un partito serio non si comporta certo così...» scandisce Zanonato.
Il sindaco (che è anche uomo dell'Anci, l'associazione dei Comuni) resta istituzionalmente votato a rapporti corretti. Con Maroni, come il prefetto Sodano. E al ministro ha fatto vedere i manifesti leghisti dedicati alla caserma Romagnoli per alimentare attacchi a sindaco e prefetto. Ma a Roma, come a palazzo Moroni, Zanonato insiste sugli impegni concreti cui non fa velo la propaganda: «Come Anci, abbiamo rinnovato la collaborazione con i "micro-progetti" Sistema protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. Vede impegnati circa 200 Comuni e 16 Province. Così si ospitano già circa 3 mila persone. Tutt'altro che clandestini. A Maroni abbiamo chiesto di garantire finanziamenti a progetti che porterebbero a 4.125 il numero degli ospitati».
Poi c'è la questione della Libia da affrontare, su richiesta del Viminale. «Ad oggi non ci sono richieste - sottolinea il sindaco - solo la propaganda politica della Lega Nord». La caserma Romagnoli? «Non si presta ad ospitare i profughi: intanto per le dimensioni perché è troppo piccola e inserita in un contesto che non darebbe la giusta libertà di movimento. I profughi non possono essere rinchiusi in un Cie come i clandestini. Meglio sarebbe, quindi, una struttura di tipo alberghiero. La Sicilia, già attivata, ha individuato proprio una soluzione di questo tipo». Conclude il sindaco: «Prima aspettiamo le decisioni di Maroni. Sempre che si stoppi la propaganda innescata dalla Lega...».
Mediterraneo: oltre la crisi, guardare alle potenzialità di sviluppo e integrazione. Negli ultimi cinque anni il Pil della regione è cresciuto del 22,4%, il doppio della media dell’economia mondiale (11,5%). Ma restano ampi i divari sociali ed economici interni. Roma, 24 marzo 2011 – Processi di sviluppo, formazione di un ceto medio, crescita dei consumi, ruolo dei giovani: sono alcuni fattori strutturali che possono contribuire a spiegare la conflittualità che si è innescata nei Paesi del Mediterraneo. La regione, intesa come l’arco dei Paesi della riva sud, dal Marocco alla Turchia, conta una popolazione complessiva di oltre 284 milioni di abitanti (il 4,2% della popolazione mondiale), con un peso demografico simile a quello degli Stati Uniti e superiore a quello della grande Russia e del popoloso Giappone. Il Pil cumulato della regione ammonta oggi a 1.444 miliardi di dollari (il 2,5% del Pil mondiale), quasi un terzo di quello della Cina, ma maggiore del prodotto complessivo dell’India. I sistemi economici dell’area si sono rivelati più dinamici di quelli occidentali: nel quinquennio 2004-2009 il Pil cumulato della regione è cresciuto in termini reali del 22,4% (il doppio della crescita media dell’economia mondiale: +11,5%), a fronte di ritmi più contenuti registrati in altre aree del pianeta: +5,0% l’economia statunitense, +4,4% l’economia europea, -0,3% quella giapponese. Ma i divari infraregionali sono ancora rilevanti. Solo in Israele, Libia e Turchia i valori del reddito pro-capite sono superiori alla media mondiale, mentre Marocco, Egitto, Palestina e Siria presentano un valore inferiore a 3.000 dollari annui per abitante. Il rapporto tra la maggiore ricchezza pro-capite registrata nella regione (in Israele) e quella minore (in Palestina) è pari a 20,6. I divari sono netti nel confronto nord-sud: mediamente la ricchezza di un francese è pari a 34 volte quella di un palestinese, quella di un italiano è pari a 17 volte quella di un egiziano e a 13 volte quella di un marocchino.
Ma la regione del Mediterraneo costituisce già oggi un ampio mercato di consumo, che si compone di oltre 284 milioni di persone, con una spesa per i consumi delle famiglie superiore a 918 miliardi di dollari all’anno (quasi due terzi del Pil regionale). Le dimensioni di tale bacino di consumo sono destinate ad espandersi per effetto delle accentuate dinamiche demografiche, segnando il passaggio dai consumi d’élite ai consumi di massa. I consumi sono cresciuti mediamente del 38,3% in termini reali tra il 2000 e il 2009, con variazioni che oscillano tra il +17,3% del Libano e il +86,6% della Giordania, mentre in Italia aumentavano solo del 3,7%, e presentano ulteriori potenzialità di incremento legate all’ampia componente giovane della popolazione, permeabile e reattiva ai nuovi modelli di consumo. E nell’ultimo decennio, tra il 2001 e il 2009, il flusso degli investimenti esteri nell’area è aumentato da poco più di 21 miliardi a oltre 35 miliardi di dollari, nonostante la crisi finanziaria internazionale, segno tangibile dei processi di deregulation avviati in quei Paesi e del progressivo scongelamento del controllo verticistico sull’economia.
Il dossier più scottante dell’area riguarda l’occupazione e la elevata presenza di giovani, che costituiscono un fattore di pressione su un mercato del lavoro fragile. In Medio Oriente e Nord Africa il 31% della popolazione ha meno di 14 anni (si passa dal 27% dell’Algeria al 30% della Libia, al 32% dell’Egitto, al 35% della Siria), in contrapposizione a un continente europeo che invecchia progressivamente. Il bacino di lavoratori è pari a 98,5 milioni di persone, e la componente giovane e istruita viene fortemente penalizzata (il tasso di disoccupazione giovanile è al 27%).
C’è per noi la necessità di guardare a nuovi mercati, dopo la crisi economico-finanziaria, per favorire la ripresa del nostro export, presidiando di più e meglio quelle aree finora rimaste ai margini del processo di riposizionamento delle imprese del made in Italy. Nell’ambito delle relazioni con i Paesi del Mediterraneo, l’Italia occupa una posizione rilevante, come partner commerciale privilegiato di diversi Stati. La quota delle esportazioni italiane extra-Ue dirette verso i Paesi del Mediterraneo raggiunge il 14,8% (18,2 miliardi di euro nel 2009) e la corrispondente quota delle importazioni provenienti dai Paesi del Mediterraneo è pari al 12,5% (15,8 miliardi di euro). Della Libia siamo il primo Paese fornitore, con una quota che nel 2009 è stata pari al 17,4% delle importazioni libiche totali, prima di Cina (10%), Turchia e Germania (9%). Siamo anche il principale mercato di sbocco per le esportazioni libiche (circa il 20%), prima di Germania (8%), Cina (7%), Tunisia (6%), Francia e Turchia (5%). L’Italia, inoltre, è il terzo Paese investitore tra quelli europei, escludendo gli investimenti legati al petrolio, ed è il quinto a livello mondiale. La nostra posizione come principale partner economico della Libia è confermata dalla presenza stabile nel Paese di più di cento imprese italiane, prevalentemente collegate al settore petrolifero e alle infrastrutture, oltre che ai settori della meccanica. Per la Tunisia siamo il secondo Paese fornitore, terzo per l’Algeria, quarto per l’Egitto e la Siria.
E il Mediterraneo lo abbiamo già «in casa», anche se, considerando i flussi migratori provenienti dalla riva sud stratificatisi in tanti anni, gli immigrati provenienti dall’area restano una quota minoritaria. Nel 2010 quelli regolarmente residenti in Italia (soprattutto marocchini, tunisini ed egiziani), dove lavorano e fanno impresa, erano più di 675.000, ovvero il 15,9% del numero totale di stranieri che vivono entro i nostri confini. Questi sono alcuni dei risultati della ricerca «Il Mediterraneo diventa adulto» realizzata dal Censis nell’ambito dell’iniziativa annuale «Un giorno per Martinoli. Guardando al futuro». La ricerca è stata presentata oggi a Roma, presso la Sala dei Presidenti del Senato, da Giuseppe De Rita e Giuseppe Roma, Presidente e Direttore Generale del Censis, e discussa da Marta Dassù, Direttore Generale dell’Aspen Institute Italia, Gianni De Michelis, Presidente dell’Ipalmo, Carlo Jean, Presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica, Giampiero Massolo, Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri, Giuseppe Sacco, dell’Università Roma Tre.
Modena. La Lega Nord non scorda Mameli. A Modena gli uomini del Carroccio cantano l'Inno d'Italia. di Giorgio Ponziano. È la via emiliana della Leganord. Una regione dai ricorsi storici: negli anni 50 aveva vissuto la via emiliana del Pci. Un confronto che non regge?
Certo i tempi e le vicende cambiano ma non è forse il candidato leghista del centrodestra a sindaco di Bologna, il consigliere regionale Manes Bernardini, a dire a gran voce che la vecchia base comunista si sta convertendo alla Lega e a riprova cita il fatto che i suoi genitori lo hanno cresciuto a falce e martello, entrambi comunisti-dipendenti e diffusori dell'Unità.
Come i comunisti d'una volta, i leghisti emiliani hanno incominciato a percorrere una propria strada, con qualche distinguo non di poco conto rispetto agli ultrà della Padania.
E a Modena è infine avvenuto l'episodio più eclatante: i leghisti, in piedi, in consiglio comunale, la mano sul cuore, a cantare a squarciagola l'inno di Mameli, con tanto di commozione finale.
La Lega targata Modena è patriottica, e non gliene importa dei rimbrotti del leader Umberto Bossi.
Questa è la terra di don Camillo e Peppone, del diavolo e dell'acqua santa intrecciati con benevolenza, figurarsi se i leghisti non fanno di testa propria, pure sventolando il tricolore se lo ritengono giusto. Più partito di governo che di lotta, forse. Ma che ha già fruttato al Carroccio l'espugnazione di una delle roccaforti rosse, feudo Pci-Pd dal dopoguerra, ininterrottamente fino alle ultime amministrative quando i leghisti hanno sbaragliato l'alleanza tra i cattolici (la Margherita, sulla scia della sinistra Dc, qui aveva molti proseliti,) e la sinistra.
C'è da aggiungere che i consiglieri comunali leghisti modenesi, capitanati dal capogruppo Nicola Rossi, si sono presentati tutti preparati: hanno cantato l'inno nazionale senza errori e in perfetta sincronia con le note degli strumenti musicali, suonati per l'occasione dagli studenti dell'istituto musicale Vecchi e Tonelli.
Il bello è che è proprio un consigliere leghista, Stefano Barberini, a rimbrottare i pidiessini che, a suo dire, hanno faticato a cantare tutto l'inno: «I consiglieri Pd non sanno neanche l'inno. Che senso ha cantare la prima strofa e basta?, dice. Il capogruppo dei democratici ha consegnato il foglio con le parole, ma solo le prime strofe, e i rappresentanti del Pd si sono fermati lì, non hanno saputo andare avanti».
La città è coperta da tante bandiere tricolori in questi giorni di festeggiamenti del centocinquantenario, la gente partecipa alle iniziative, c'è entusiasmo. E i leghisti, attenti agli umori, si sono adeguati: «Anche Bossi avrebbe fatto così se fosse stato qui», assicurano allo stato maggiore del Carroccio».
La performance dei leghisti è stata apprezzata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il modenese Carlo Giovanardi, presente alla cerimonia, con coccarda. Accanto a lui la consigliera Pdl Olga Vecchi: collana verde, camicia bianca e giacca rossa.
E Giovanardi s'è portato dietro i leghisti anche nell'applaudire Carlo Galli, docente di Storia delle dottrine politiche all'università di Bologna, che nella prolusione ha affermato con chiarezza: «L'Italia senza unità sarebbe stata solo un'espressione geografica, un puzzle di frammenti arretrati, una replica, più bella quanto a beni culturali, dei Balcani. La frammentazione di cui oggi ci lamentiamo sarebbe al confronto poca cosa. La valorizzazione delle nostre realtà locali non passa attraverso le chiusure municipali ma attraverso lo spirito civico nazionale, attraverso il leale riconoscerci nella Costituzione, nel suo progetto di unità democratica complessa e partecipata».
E i leghisti giù ad applaudire e stringergli la mano.
Del resto pure nel sito Internet del Comune di Sassuolo, quello strappato alla sinistra, svetta nell'home page un grande tricolore con tanto di notizie sulle iniziative legate all'anniversario.
Intendiamoci, non tutti i peones emiliani di Bossi hanno salutato con tanto calore il tricolore e l'unità d'Italia. Ma le contestazioni sono state piuttosto soft: tutt'al più niente coccarda, l'ingresso in ritardo in aula nel consiglio regionale a Bologna. Dice il consigliere regionale emiliano Mauro Manfredini: «Il nostro movimento ha dato libertà di scelta su come comportarsi. Per noi è sbagliato far cadere le celebrazioni in questa giornata, quando ancora l'unità non era del tutto compiuta. Ma ognuno fa come vuole».
Una linea ammiccante che ha avuto il suo exploit a Modena, terra unitaria di motori, del cavallino rampante e anche di fratelli d'Italia.
E che sembra fare proseliti. A Livorno il consigliere comunale leghista Carlo Ghiozzi ha partecipato all'alzabandiera, scandendo convintamente il testo di Mameli. «L'ho fatto da buon giocatore di rugby», dice Ghiozzi, che è anche presidente di due società rugbystiche. La Nazionale di rugby è la squadra azzurra che da prima ha cantato l'inno prima delle gare: forse il rugby può unire anche i leghisti che non si sentono riconosciuti pienamente dall'inno.

Venezia. La battaglia per l'identità. «Il veneto come lingua ci costerebbe troppo»
Intellettuali e politici divisi sulla proposta di legge regionale dopo il sì bipartisan in consiglio. Già Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua rifletteva: «Tanto sono le lingue belle e buone più o meno l'una dell'altra, quanto elle più o meno hanno illustri e onorati scrittori». Ma si deve a Ferdinand de Saussure una riflessione attuale contenuta nel suo Corso di linguistica: «Nulla entra nella lingua senza essere stato provato nella parola, e tutti i fenomeni evolutivi hanno radice nella sfera dell'individuo». Dunque, davanti a qualsiasi lingua (antica, nuova, derivata) prassi e metodi di comunicazione vanno sempre rapporti agli individui e alla società. Il dibattito si fa intrigante se si vuole trasformare un dialetto in lingua. Scenario stimolante ma non per questo meno problematico nel Veneto di oggi. Il consiglio regionale ha un sogno: far riconoscere al veneto dal Parlamento, dunque a Roma, i crismi della lingua, riscattandola dal rango di dialetto. È l'obiettivo di una proposta di legge trasversale trasmessa alla capitale (votata da Mariangelo Foggiato dell'Unione Nordest a Pietrangelo Pettenò della Federazione di sinistra) che ha un obiettivo: tutelare il veneto ufficialmente in quanto lingua minoritaria usata nel territorio, accanto all'albanese, al franco-provenzale, al sardo, al friulano. Se la politica si divide tra favorevoli e contrari, tra gli intellettuali prevale soprattutto lo scetticismo, soprattutto a causa delle ricadute «concrete» sulla società di un dialetto trasformato in lingua, per legge. La politica, intanto.
Per l'avanguardia degli autonomisti Mariangelo Foggiato (Unione Nordest) che ha proposto la legge, è già una vittoria: «La lingua veneta è un pilastro della nostra identità. I vantaggi di questo riconoscimento per la società veneta avrebbero un valore altissimo dal punto di vista storico. Un riconoscimento del veneto su base nazionale sarebbe una tappa importante nel processo di riappropriazione della nostra sovranità culturale e politica. Penso anche alle occasioni di valorizzazione del nostro immenso patrimonio, spesso trascurato. La stessa Istat, - aggiunge Foggiato - riconosce che il veneto è la lingua correntemente parlata dalla maggioranza dei veneti».
Critica invece Elena Donazzan, assessore regionale alla Pubblica istruzione e figura di primo piano di quella destra, per anni minoranza, poi arrivata al Governo. Lei si è astenuta in Consiglio sulla proposta Foggiato: «Sarò chiara: il veneto non è una lingua. Lingua è il veneziano della Serenissima che aveva codificato con successo un'idea concreta di società, fatta di politica, di scambi economici, di magistratura. Quella era una realtà che esprimeva una lingua a tutto tondo, non il Veneto di oggi. Che veneto dovremmo parlare: trevigiano, padovano, vicentino? Come chiosa brillantemente Morena Martini, assessore provinciale a Vicenza, - riflette la Donazzan - il dialetto è il linguaggio della memoria , degli affetti, dei nonni. E poi, scusi, che senso dovrebbe avere per me, per una vita considerata minoranza politica, continuare a farlo davanti al Parlamento per chiedere che il veneto sia lingua minoritaria? Ma per carità…». Eppure la proposta Foggiato piace anche a sinistra, a testimonianza che su certi temi, nodi politici e ideologici, possono essere superati. E' il caso di Pierangelo Pettenò ma anche quello di Diego Bottagin, oggi Gruppo misto ieri esponente di primo piano del Pd, che ha votato sì alla proposta: «Ho detto sì per due motivi. Primo: noi abbiamo già la legge regionale del 2007 che riconosce il dialetto veneto come lingua e la promuove in ogni ambito, anche se, personalmente, avrei formulato in maniera diversa temi e contenuti di quel testo. Secondo: essendo i veneti una minoranza, mi pare opportuno, come altre minoranze già tutelate in Italia, che lo siano anche i veneti con la loro lingua. Per me dire lingua significa usarla, contaminarla, mescolarla, renderla materia viva, parlata, ogni giorno». Scettici invece, seppure con distinguo diversi, gli intellettuali. Scrittori e linguisti riflettono sul senso di una metamorfosi (da dialetto a lingua) e sulle possibili ricadute nella società quotidiana.

Vitaliano Trevisan è a Bruxelles. D'istinto sorride al telefono. Continua: «Cosa? Il veneto da dialetto a lingua? Ma non scherziamo per favore, - sbotta lo scrittore - l'effetto finale sarebbe pura stupidità. Ci ritroveremmo d'incanto con una società alle prese con due lingue e con il caos. Ci vorrebbero piuttosto nuovi standard di riferimento, nuovi paradigmi, nuovi modelli societari ma bisogna fare i conti anche con le risorse disponibili. E poi, quale lingua dovremmo parlare? Il veneziano della Serenissima oggi nostalgia di cinquantamila abitanti o quello vicentino delle mie parti e parlato da più abitanti?». Chi invece parte da un approccio tecnico al tema è Michele Cortelazzo, docente di Italianistica e preside della Facoltà di Lettere a Padova: «Vedo delle anomalie di fondo sulla questione: perché ad esempio il friulano è tutelato come lingua minoritaria e il veneto no? Per converso, perché il veneto sì e l'emiliano no? La distinzione fra dialetto e lingua è puramente politica. Le dirò che il Veneto, con la Campania e la Sicilia, è la regione dove già si parla più in dialetto e questi stessi dialetti sono già difesi. E poi penso all'esempio friulano e ai costi "di gestione". Ho realizzato proprio uno studio su tale aspetto. Attenzione, in prospettiva di quel federalismo tanto invocato, trasformare un dialetto in lingua, richiede risorse non indifferenti. Per me il veneto da parlare è quello di oggi e non quello degli autori». Romolo Bugaro, avvocato e scrittore, ha il dono della chiarezza. Le sue analisi sulla società sono sintetiche e sempre significative. Anche stavolta non si smentisce: «Guardi, trasformare il veneto in lingua è chiaramente un'operazione di segno fortemente simbolico ma dal punto di vista pratico, per la società, è un'operazione prossima allo zero. Le spiego perché. Siamo tutti d'accordo - ragiona Bugaro -sulla tutela della diversità bio-linguistica del veneto. Difendere il veneto delle tradizioni radicate e fortissime è cosa buona e giusta. E non da oggi. Non sono invece d'accordo con tutte quelle declinazioni del più greve, inguardabile localismo inteso come chiusura. Le strumentalizzazioni sono dietro l'angolo e certa politica avrebbe le sue responsabilità». Già, la politica. Adesso si attendono risposte da Roma.
Massimiliano Melilli

Roma. Via libera del Cipe a 1,8 miliardi per 14 progetti
Eugenio Bruno. ROMA. Arriva una boccata d'ossigeno per il mondo della ricerca. Il Cipe ha approvato ieri il programma nazionale predisposto dal ministro Mariastella Gelmini che destina lo stanziamento di 1,8 miliardi euro alla realizzazione di 14 progetti bandiera. Ora occorrerà attendere il via libera definitivo del Consiglio dei ministri atteso per l'inizio di aprile. Diversi i settori interessati: dal nucleare all'ingegneria marina, dalla genetica ai beni culturali per finire all'aerospazio.
La notizia farà felici gli enti pubblici e le imprese che attendevano da quattro anni il varo del documento quadro con le priorità del governo in tema del governo e le rispettive linee d'azione. Il precedente programma nazionale era scaduto infatti nel 2007. Da allora non si era andati oltre il semplice annuncio, la costituzione di tavoli di lavoro e la presentazione di "bozze" via via più definite. Come quella dell'autunno 2009 nella quale la responsabile di viale Trastevere ha messo nero su bianco obiettivi e risorse su cui il Miur era pronto a investire. Sperando che anche gli altri dicasteri e i governatori facessero altrettanto in modo da permettere al ministero dell'Economia di dire l'ultima parola sui profili finanziari dell'operazione. Stimati all'epoca in circa 15 miliardi di euro.
In realtà quest'ultimo passo non è ancora stato compiuto. Da qui la decisione della Gelmini di procedere lo stesso ma con una versione "light" del piano che utilizzasse i fondi già appostati dagli enti di ricerca nei rispettivi bilanci. Ne è venuto fuori un Pnr diverso innanzitutto nel nome visto che da 2010-2012 si è trasformato in 2011-2013. Ma anche nel budget: la portata complessiva dell'operazione è diventata di 1.772 milioni di euro che saranno utilizzati per 14 progetti giudicati prioritari e battezzati, appunto, «bandiera». Con l'obiettivo dichiarato di arrivare, grazie al contributo delle aziende private, a 2,5 miliardi di investimenti complessivi.
Degli 1,8 miliardi di euro "cash" la maggior parte arriverà dal fondo di finanziamento per gli enti di ricerca. Così suddivisi: 252 sul bilancio 2010, 925 sul triennio 2011-2013 e 595 sulle annualità successive. Contemporaneamente viene definita la quota di risorse complessive che il Miur destinerà al Pnr nel suo complesso: 6,2 miliardi di euro. A cui si aggiungeranno, eventualmente più avanti, le doti individuate dagli altri ministeri e dai governatori. Il target finale resta lo stesso: portare entro il 2020 l'Italia a spendere l'1,53% del Pil in ricerca e sviluppo.
Passando ai 14 progetti, la porzione maggiore di finanziamenti (600 milioni) sarà assorbita dal lancio di due satelliti per l'osservazione della superficie terrestre che va sotto il nome di "Cosmo-Skymed II generation". La piazza d'onore spetta invece a "Ritmare": 450 milioni indirizzati a sviluppare la ricerca scientifica e tecnologica dedicata al mare e a tutte le sue problematiche. Il podio è completato dall'acceleratore di particelle con applicazione diretta nella ricerca di base e nella fisica, il cosiddetto "Super B factory" (250 milioni).
Tra i comparti interessati spicca poi il nucleare. La moratoria di un anno sulla costruzione delle centrali nel nostro paese (su cui si veda altro articolo a pagina 21) non bloccherà la ricerca come confermano i 39 milioni destinati alla formazione dell'"Ambito nucleare" e gli 80 del progetto "Ignitor" per la sperimentazione, in tandem con la Russia, di plasmi termonucleari in grado di accendersi.
Il Pnr guarda con un occhio di riguardo anche all'industria. Vecchia e nuova. Lo dimostrano, da un lato, i 12 milioni appostati sulla "Fabbrica del futuro" con cui si vuole ammodernare il nostro sistema manifatturiero; dall'altro, i 23 rivolti alla nascita di una piattaforma automatizzata per le nanotecnologie in campo medico e biologici, chiamata "Nanomax". In terreni affini si avventurano altri due progetti come "InterOmics" (25 milioni per la fusione di più discipline e la creazione di nuovi bio-marcatori) ed "Epigenomica" (30 milioni per studiare nuove forme di sequenziamento di Dna e Rna). Altrettanti ne andranno infine ai beni culturali per potenziare l'appeal turistico dello Stivale.

La benzina reintegra i tagli della cultura. È un'ottima notizia che il governo abbia finalmente deciso di reintegrare con 149 milioni il fondo per lo spettacolo che sostiene il cinema italiano, teatri, opera, musica. Molto bene anche che siano stati trovati 80 milioni per la tutela del patrimonio culturale dopo i tagli che avevano portato alle dimissioni di un archeologo di fama mondiale come Andrea Carandini dalla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali. Bene, infine, che si sia varato un piano per una manutenzione straordinaria di Pompei.
Quello che non va bene è che a finanziare questo riscatto culturale del Belpaese - dopo gli scioperi degli artisti, i crolli, il degrado - sia un aumento dell'accise sulla benzina. Non solo perché resta molto alta la pressione fiscale (42,6%) e non c'è spazio per ulteriori incrementi ma anche perché è eticamente discutibile che lo Stato aumenti il prelievo su benzina e gasolio quando le quotazioni del greggio, ai massimi storici da due anni, stanno spingendo da mesi il prelievo Iva sui carburanti. Le maggiori entrate dall'Iva sono state stimate dagli analisti intorno ai 500 milioni lo scorso anno: non si potevano pescare le risorse da qui o, più virtuosamente, tagliare qualche spreco della politica?

Su Parmalat l'Italia prende tempo
di Dino Pesole. ROMA. Un decreto «antiscalate» a difesa delle imprese italiane «in settori strategicamente rilevanti», che si limita per ora a disporre lo slittamento a fine giugno dell'assemblea di Parmalat. Il provvedimento - fa sapere il governo - è aperto a integrazioni e a misure che ne rafforzino l'impianto, da affidare a uno o più emendamenti nel corso dell'esame parlamentare. Interventi che dovranno essere adottati «previa consultazione europea» e che riguarderanno la parte più rilevante dell'intero pacchetto, a partire dal potenziamento del raggio di azione della Consob.

È stato il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti a illustrare in Consiglio dei ministri la ratio e la strategia che ispira il provvedimento. Il focus è sul rafforzamento dei poteri della Consob non laddove intervengano semplici scambi di pacchetti azionari ma qualora si determini il passaggio del controllo di una società. Al momento la Consob agisce per via amministrativa. Con il decreto - ha osservato - lo si sancirà per legge. A breve Tremonti invierà a Bruxelles una lettera con allegato il dispositivo della normativa francese del 2006. «La Ue aveva acceso un faro su quella legge, ma poi sostanzialmente la questione era stata insabbiata. La nostra iniziativa punta a riportare all'attenzione quel dossier». In sostanza, se andava e va bene per la Francia, non potrà che essere così anche per l'Italia. Il principio fondamentale - ha più volte ribadito Tremonti - è quello della reciprocità.

Si prende tempo così da fronteggiare la scalata della francese Lactalis a Parmalat. Ma in ballo c'è Edison da tutelare dalle mire di Edf. Al momento, l'assemblea di Parmalat è convocata per il 14 aprile. Il consiglio di amministrazione può beneficiare dello slittamento di 180 giorni «dalla chiusura dell'esercizio 2010, anche qualora tale possibilità non sia prevista dallo statuto della società». Nel caso in cui l'avviso di convocazione dell'assemblea sia già stato pubblicato, «è consentito al consiglio di amministrazione o al consiglio di sorveglianza di convocare l'assemblea, in prima o unica convocazione, a nuova data». Qualora l'assemblea sia stata convocata anche per la nomina dei componenti degli organi societari, «le liste eventualmente già depositate presso l'emittente sono considerate valide anche in relazione alla nuova convocazione».

Integrazioni al decreto sono date per acquisite, come conferma il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani: «La proroga del termine per le assemblee societarie permetterà di valutare se introdurre altri interventi che potranno interessare il gruppo Parmalat, una delle poche multinazionali dell'alimentare italiane», in attesa che si faccia avanti la cordata italiana. Vi sono stati incontri con i principali operatori del settore - ribadisce Romani - «anche al fine di stimolare la creazione di una cordata che veda protagonisti finanza e imprenditoria italiana». Ci sta lavorando Impresa Sanpaolo con Bnl e il polo nazionale dovrebbe fare perno sul gruppo Ferrero.

Del resto - spiega il presidente della Consob, Giuseppe Vegas - il sistema di imprese italiano è strutturalmente «più aggredibile» da scalate societarie. È l'effetto dimensionale, ma anche la conseguenza del sistema «di patti parasociali e scatole cinesi che in passato ha rappresentato una rete di sicurezza ora agisce al contrario e può agevolare scalate da parte dell'esterno perché rende relativamente più facile impadronirsi di un gruppo di imprese». Quanto a Parmalat, la Consob «non deve difendere la nazionalità delle imprese ma garantire il risparmio. Tuttavia a livello internazionale il sistema di regole non deve creare vantaggi».

Dalla Commissione europea si mantiene ferma la vigilanza sul rispetto delle «norme sul mercato», come ha ribadito il portavoce del commissario Michel Barnier. Critica l'opposizione: «Il decreto è una pezza emergenziale, presa con il fiato sul collo, dopo una gravissima e colpevole assenza dalla politica industriale», osserva Stefano Fassina, responsabile per l'Economia del Pd.

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