«Terronismo», la nuova malattia d’Italia
Il saggio di Marco Demarco sulle degenerazioni del localismo e i «fondamentalismi» del Nord e del Sud
di ALDO CAZZULLO
Che cosa unisce il leghista che rivaluta i briganti e il sudista che maledice i piemontesi? Maroni che tra Vittorio Emanuele II — il re che ha fatto l’Italia — e il brigante Musolino— u rre dill’Asprumunti— sceglie il brigante, e i neoborbonici, «la voluttà della malinconia, l'antagonismo meridionale, la favola del Borbone garantista, il Sud colonizzato dal Nord» ? È il Terronismo, con la enne. Geniale neologismo coniato da Marco Demarco, il direttore del «Corriere del Mezzogiorno», che l’ha scelto come titolo del saggio che oggi Rizzoli manda in libreria.
Il riferimento immediato, ovviamente, è il longseller «Terroni» di Pino Aprile. Un libro ossessionato dal Risorgimento e dai piemontesi, paragonati in ordine sparso agli sterminatori di Marzabotto, ai lanzichenecchi di Roma, ai carcerieri americani di Abu Ghraib, ai soldati marocchini in Ciociaria, ai francesi in Algeria, alle truppe di Tamerlano e di Gengis Khan, di Attila e di Pinochet. Un libro, annota Demarco, letto e apprezzato sia nell’ex Regno delle Due Sicilie sia in quello di Sardegna; e non solo perché al Nord ci sono molti immigrati meridionali. Terronismo non significa solo rivalutare il Borbone. Il terronismo è il localismo italiano nella sua degenerazione. È il combinato disposto di turboleghismo e ultrasudismo, «i quali possono specchiarsi, avvicinarsi e sovrapporsi molto più di quanto si possa immaginare» . Perché «nell’unire i fondamentalisti del Nord e del Sud, il terronismo lacera l’Italia unita e, in fin dei conti, altro non è che un aspetto dello sfilacciamento dell’identità nazionale» . Terronista, secondo l’autore, è anche Luca Zaia, governatore del Veneto, quando definisce Pompei «quattro sassi» . O Pino Daniele, quando dichiara che Bossi gli fa schifo perché è venuto a Napoli a cantare Maruzzella. Terronisti sono «i professionisti degli amarcord e degli anacronismi, i preraffaelliti del pensiero meridiano, i nostalgici della duosicilianità verginale che, nell’era dell’iPad e del Blackberry, vorrebbero oggi un Sud "arcaico e perfino magico e superstizioso". Nonché borbonico» .
Per cui è terronista anche Andrea Camilleri, quando nell’ora più nera dello scandalo rifiuti a Napoli scrive sull’ «Unità» un dolente articolo per denunciare che al tempo dell’unificazione in Sicilia c’erano ottomila telai, tutti fatti sparire a vantaggio di quelli di Biella. «Io capii solo che i siciliani tessevano più e forse meglio dei biellesi. Mi lasciò invece basito — chiosa Demarco — il fatto che a Napoli noi si penasse tra cumuli di pattume e miasmi e Camilleri tentasse di spiegare tutto con i suoi telai. Non afferravo il nesso. Se a lui fossero rimasti i telai, a noi avrebbero tolto l’immondizia?» . Terronismo non è il libro di un uomo del Sud contro la sua terra. Anzi, Demarco esordisce con una dichiarazione d’amore per il Mezzogiorno. «Ogni volta che qualcuno parla dei meridionali e ne parla male, ogni volta che si allude alla nostra diversità e si fa l’elenco dei nostri difetti, a me viene spontaneo, per reazione, ricordare cosa riuscì a combinare una sera il professore Renato Caccioppoli» , il genio della matematica che, nei giorni della visita di Hitler a Napoli, suonò la Marsigliese in una birreria piena di fascisti e nazisti, in anticipo di quattro anni sui personaggi – immaginari – di Casablanca. Allo stesso modo, Demarco rifiuta l’etichetta di «novantanovino» , il napoletano nostalgico dell’élite giacobina del 1799, di cui indica il campione oggi in Gerardo Marotta, presidente ad vitam dell’Istituto di studi filosofici, o nel procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, «che ho visto piangere e immalinconirsi a ogni citazione di Francesco Mario Pagano, padre della Costituzione della Repubblica napoletana» . «Non credo — scrive Demarco — che il mio sia il tipico disagio illuministico di chi vive male la propria meridionalità. La vivo bene, anzi benissimo. A patto che non sia totalizzante, che non diventi l’espressione di una nuova ideologia» .
L’autore rintraccia i segni del terronismo in alto, e in basso. In un libro bello e colto come Sud di Marcello Veneziani («Ma non vedo perché si debba dire "Homo terronicus sum, et amo cumterronicos"» ), e nell’invettiva sul web firmata Lanzichenecco, che spiega come tra nordisti e sudisti le cose in comune siano due: «La prima è l’odio. Noi vi odiamo, come meritate, e voi ci odiate. La seconda è la consapevolezza che l’Italia non esiste, è solo un’espressione geografica» . Deliri di minoranze sconfitte dalla storia? Non solo, ammonisce Demarco. Che mette insieme una bibliografia davvero impressionante, per mole e virulenza di titoli, rivelando come l’ascesa della Lega abbia rinfocolato un antico rancore che fa risalire tutti i mali del Sud alla «conquista» del Nord, e quindi li considera irredimibili. Certo, il Borbone aveva costruito la ferrovia Napoli-Portici e l’insuperabile San Carlo, magnificato anche da Stendhal; che però dei napoletani parlava come di barbari, gente «rozza e seminuda che neanche nei caffè ti si toglie di torno». Citazione che Demarco riporta non certo per condividerla, ma per ricordare ai terronisti che la ricerca nel passato può portare frutti avvelenati. «E poi, non vorrei dire: ma anche l’Urss aveva le sue Soyuz e i suoi laboratori spaziali. E il lavoro per tutti? E l’assistenza garantita? E l’uguaglianza e l’internazionalismo? Eppure è finita com’è finita» . Il saggio è convincente sia per la tesi sia per lo stile: mai apodittico, sempre avvolgente, con il tono di chi si siede davanti a un amico in birreria e comincia a raccontargli una storia. Chi conosce e di conseguenza apprezza Demarco avrà davvero l’impressione di sentirlo parlare, e di avvertire, oltre al fascino intellettuale, la consistenza morale di un uomo che ama la sua terra e proprio per questo la vorrebbe migliore, consapevole del proprio immenso potenziale, non rassegnata e tanto meno compiaciuta dei propri vizi.
asterisco.
E’ difficile. Quasi impossibile; seguire il senso logico, postulato ci sia. Tu cerchi il senso logico complessivo, non c’e’. Tenti di isolarne i concetti e compararli, non collimano. Allora azzardi, disperato, la congettura della Propaganda. C’e’. E questo e’ tutto, non c’e’ altro, in questo scritto. Cazzullo: in nomen est homen. E’ propaganda, solo questo. La piu’ semplice delle forme letterarie, pagata bene. Fin troppo.
E’ la forma di scrittura specifica del bisognoso che trova impiego, ed attraverso il cono ottico della sua grande scrivania in uso, guarda le cose del mondo. E percepisce se stesso come dentro una torre d’avorio. Protetto, sicuro. E sentenzia, emana ironia, polemizza, sentenzia, tanto il Direttore del Corrierone capira’ l’eziologia del suo agire.
Non e’ potente il Cazzullo, ma col Principe condivide scelte opposte. Il Principe ascolta e tace, lui sproloquia e non ascolta.
Il Cazzullo, che dalle mie parti Vi lascio immaginare cosa puo’ voler significare, ci stupisce.
Un momento, non partite in quarta, lo stupire del nostro eroe, non e’ quello del meravigliare qualcuno per qualcosa di bello, positivo, genuino e via declinando. No, lo stupor mundi del Cazzullo, e’ un belino di propaganda.
E ce lo dimostra con ampiezza di prova.
Il belino esordisce, nel suo scritto, con un quesito di portata storica, che sottintende una risposta scontata, quindi retorica, quindi fa propaganda. Vuol dire che nella domanda – ironica e polemica – c’e’ gia’ la risposta. E’ la risposta che vuole lui, ovvio. Preordinata e prevista, secondo schemi retorici di bassa qualita’. Quella predisposta nell’accumunare, per fare di tutta l’erba, un fascio: meridionali e padani sono – infine – uguali nella loro rozzezza culturale politica e comportamentale.
Questa e’ la sentenza, scritta prima di sporcare d’inchiostro il foglio di carta. Una risposta retorica, propagandistica, in cui sono impastrocchiati elementi storici, geografici e culturali che piu’ disomogenei non si potrebbe; nel nome e per conto del neologismo Terronismo. Il neologismo che illumina gli italiani. Bravo Cazzullo, la sua e’ Propaganda. Ma che scuole ha fatto? Di Ponente, di Levante, oppure quelle che Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna e abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci bagna?
La Propaganda e’ strumento di regime, costa poco ed e’ efficace. Ma ha il fiato corto.
La propaganda cazzulliana e’ divertente, a pensarci meglio.
Del tipo un pomeriggio alle giostre della periferia di Roma. Magnifico. Divertente perche’ cerca e trova appigli, pur di non mostrare la corda del discorso. Mi spiego: il Cazzullo, al fine di dimostrare il suo assunto (i meridionali sono come i padani) fa riferimento – a prova del suo ragionamento – al longseller «Terroni» di Pino Aprile. E sentenzia: Un libro ossessionato dal Risorgimento e dai piemontesi, paragonati in ordine sparso agli sterminatori di Marzabotto, ai lanzichenecchi di Roma, ai carcerieri americani di Abu Ghraib, ai soldati marocchini in Ciociaria, ai francesi in Algeria, alle truppe di Tamerlano e di Gengis Khan, di Attila e di Pinochet.
Ora, dico: ma si puo’ essere piu’ manifestamente prezzolati e sprezzanti di cosi? Non prova un minimo sussulto di dignita’ professionale, visto che lei e’ iscritto all’albo dei giornalisti?
Le rammento, La prego di scusarmi, esiste un codice deontologico, di stampo anche morale.
Ma Lei se ne fotte, come direbbero a Napoli. E forse fa bene. Tanto la spalla, per l’occasione di questo suo memorabile, imperituro scritto, e’ – nientepopodimeno che – il direttore di un’ottima testata del Mezzogiorno. Di proprieta’ della testata di cui Lei e’ dipendente. Amen. Il gioco e’ fatto, lo sputtamento eseguito, ad arte.
Il resto dello scritto e’ consequenziale. Niente di diverso dall’incipit.
Caro Cazzullino, ora, visto che Lei ha raggiunto il suo obiettivo, si rende conto di quanti nemici si e’ fatto?
Glielo dico io: io.
grecanico
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