lunedì 19 settembre 2011

Federali.mattino_19.9.11. Francesco Guerrera: Quando anche la Svizzera entra in guerra, i problemi sono proprio seri. L’annuncio da parte della neutralissima confederazione elvetica che la banca centrale di Berna è pronta ad utilizzare quantità illimitate di denaro per mettere fine ad un rialzo del franco e far respirare l’economia interna, segna l’inizio ufficiale della guerra delle monete.

Monete, il risiko dei perdenti
Cina: l’economia il prossimo anno si raffredderà rapidamente
La crisi dipende dalla debolezza dell'euro non dalla credibilità del Cav.


Monete, il risiko dei perdenti
FRANCESCO GUERRERA
Quando anche la Svizzera entra in guerra, i problemi sono proprio seri.
 L’annuncio da parte della neutralissima confederazione elvetica che la banca centrale di Berna è pronta ad utilizzare «quantità illimitate» di denaro per mettere fine ad un rialzo del franco e far respirare l’economia interna, segna l’inizio ufficiale della «guerra delle monete».
 La crisi che sta indebolendo l’America, corrodendo l’euro e mettendo a repentaglio la crescita-razzo dei Paesi emergenti ha spinto nazioni dell’Est e dell’Ovest verso una collisione monetaria.
 L’obiettivo di questa particolarissima guerra, in realtà, è perdere – un gioco al ribasso in cui ogni Paese tenta di far deprezzare la propria divisa per stimolare le esportazioni e far ripartire l’economia.
 Poliglotti cugini svizzeri, Willkommen, Bienvenue, Benvenuti sull’ affollatissimo campo di battaglia. Se guardate a destra vedrete la barba bianca di Ben Bernanke a capo dei battaglioni della Federal Reserve, che da mesi stanno combattendo contro le orde germaniche con l’euro sullo stendardo.
 Dietro la collina ci sono i kamikaze giapponesi, sempre più disperati. I loro attacchi per tenere lo yen sotto controllo sono falliti, affondando un’economia che non cresce da più di un decennio.
 E più in là, fate attenzione ai cinesi per cui la debolezza del renminbi è un articolo di fede – un pilastro di un’ economia costruita sulle esportazioni. Le urla che sentite? Sono gli eserciti brasiliani e turchi che protestano contro un’Occidente che continua ad investire nei loro Paesi, gonfiando le valute e strangolando le esportazioni.
 Visto dall’alto, è uno spettacolo deprimente: le più grandi economie del pianeta che si azzuffano per vincere il premio per la moneta più flaccida del mondo. Questo Risiko dei perdenti è un segnale lampante dell’impotenza di governi e banche centrali nell’attuale frangente economico. Privi di altre armi – perché nessuno vuole alzare le tasse o prendere altre decisioni serie sull’austerità fiscale – i potenti del pianeta scommettono tutto sul minimo comun denominatore di esportazioni e monete flebili.
 Dopo aver rovistato nel vasto arsenale delle loro politiche economiche, l’unica cosa che i potentissimi Bernanke, Jean-Claude Trichet e Barack Obama sembrano aver trovato sono i trucchetti dei governuncoli italiani prima dell’avvento dell’euro: svalutazioni e parole, parole e svalutazioni.
 Per i mercati, gli investitori, ed anche la gente comune, la domanda più importante, a questo punto, e se questa baruffa delle divise produrrà un vincitore. La risposta è a trabocchetto: o tutti o nessuno. Se la guerra delle monete porterà ad una pace delle economie sarà perché la corsa verso il fondo è stata così sfrenata da convincere consumatori, aziende e governi a ricominciare a spendere.
 C’è un parallelo storico importante: durante la Grande Depressione degli anni 1930, l’America e l’Europa presero parte in un’orgia di svalutazioni simile alla spirale odierna. Per un periodo, il risultato fu la stasi economica: con monete tutte deboli ed economie in difficoltà, le esportazioni si bloccarono.
 Dopo un po’ di tempo, però, la montagna di soldi creata per tenere le divise basse – e i tassi d’interesse zero – arrivò nelle tasche di imprenditori, lavoratori e operatori di Borsa, spronando investimenti e consumi. L’economia mondiale si salvò non, come credevano erroneamente i profeti della svalutazione, perché tutti i Paesi riuscirono ad esportare beni e servizi allo stesso tempo ma perché, a lungo andare, il denaro stampato dalle banche centrali deve essere speso.
 Gli economisti, amanti dell’astratto, parlano di riflazione e aumento della domanda, ma io preferisco paragonare questo effetto ad una Bialetti sul fornello: se il gas è acceso, prima o poi la pressione sarà tale che l’acqua si trasformerà in caffè.
 E se venisse a mancare il gas? C’è una possibilità che, viste le condizioni pessime dell’economia mondiale, la guerra delle monete si trasformi in battaglia all’ultimo sangue con una sola, grande vittima: la globalizzazione. Il fattore determinante della nostra epoca – almeno a livello economico – è stato l’aumento esponenziale nel commercio tra nazioni, facilitato dal progresso tecnologico e dalla fine della guerra fredda.
 I giovani degli Anni 60 erano cresciuti con l’idea che dovevano cambiare il mondo, la mia generazione, invece, è sempre stata convinta che il mondo se lo poteva comprare. Mi spiego: da decenni, ormai, siamo abituati ad acquistare carrozzine made in China, giacche fatte a Hong Kong e macchine costruite dal Messico al Brasile alla Polonia – a prezzi molto più bassi che se fossero state prodotte nella vecchia Europa o in America.
 Per i consumatori di oggi, la globalizzazione del commercio è ovvia e la sua permanenza è data per scontata. Ma che succederebbe se il mondo, invece di essere piatto come ci ha detto Thomas Friedman nel suo best-seller, fosse pieno di angoli, barriere e fili spinati?
 Una guerra delle monete in un periodo di contrazione economica può senz’altro portare ad un’ esplosione di protezionismo. Non è difficile per un politico opportunista strumentalizzare il tasso di disoccupazione elevato e la crescita anemica di un Paese per attaccare governi stranieri o, peggio ancora, gente non «del posto». Molte guerre vere – quelle combattute con le armi – in passato sono iniziate con tensioni economiche che portano a diffidenza tra governi e si trasformano poi in ostilità aperta.
 La buona notizia è che, al momento, questa versione apocalittica della guerra delle monete non è ancora realtà. Parlando con politici e banchieri centrali la mia impressione è che i potenti del pianeta capiscono chiaramente che commercio e collaborazione internazionale sono l’unica via d’uscita da questo labirinto di problemi economici.
 La presenza del ministro del Tesoro americano Tim Geithner al summit dei ministri delle Finanze europei lo scorso venerdì a Bruxelles è un esempio degli sforzi euro-americani per risolvere la crisi. Il dialogo tra i due blocchi rimane fondamentale, anche quando, come nel caso di Geithner, gli americani vogliono dare lezioni agli europei sul come affrontare questi difficili passaggi. Nella battaglia contro la recessione mondiale, nessuno si può permettere di essere neutrale. Nemmeno la Svizzera.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

Cina: l’economia il prossimo anno si raffredderà rapidamente
È la cruda diagnosi dell'ex vice governatore della Pboc Pechino, Wu Xiaoling.
 La crescita economica della Cina è destinata a raffreddarsi più rapidamente il prossimo anno a causa dell'impatto della crisi del debito sovrano all'estero e del rallentamento determinato dalla ripresa economica globale. Lo si apprende dalle colonne dello Shanghai Securities News, che cita l’ex funzionario della banca centrale cinese.

Crescita più lenta. Il rafforzamento delle misure di controllo sulle proprietà immobiliare, i controlli sulla ferrovia ad alta velocità e sullo sviluppo delle strade principali, così come i limiti sulla capacità di investimento del governo contribuiranno a loro volta ad una crescita più lenta, sostiene il giornale, tirando in ballo l'ex vice Governatore della Banca Popolare cinese, Wu Xiaoling. Wu ha aggiunto che la Cina nel quarto trimestre e nell'anno a venire affronterà grandi sfide. Quest'anno, le politiche  economiche e finanziarie della Cina hanno assicurato un ritmo stabile e rapido di crescita economica, e hanno portato l'aumento della pressione inflazionistica sotto controllo, ha detto Wu, ma a livello globale, i Paesi devono riunirsi per studiare come rafforzare la disciplina di bilancio e mantenere la stabilità sociale.

Chiusa fabbrica inquinante. Pechino ha ordinato la chiusura temporanea di una fabbrica di pannelli solari nell'est del Paese, dopo le manifestazioni portate avanti da centinaia di persone che accusavano i produttori di avere inquinato l'ambiente e causato tumori. Ad annunciarlo sono state la stesse autorità locali. Nella notti di giovedì, venerdì e sabato si sono registrati scontri tra la polizia e i circa 500 abitanti del villaggio di Hongxiao che si erano riuniti nella città di Haining per chiedere una spiegazione sulla moria di pesci in un fiume vicino. I manifestanti sostengono inoltre che la contaminazione industriale ha provocato nel tempo almeno 31 casi di cancro tra i residenti e sei di leucemia. D a controlli effettuati è risultato che i rifiuti industriali prodotti dalla fabbrica non erano conformi alle nuove norme cinesi in vigore da aprile. La Jinko Solar, la società proprietaria dello stabilimento, è quotata alla borsa di New York e da lavoro a circa 10.000 persone.
M.N.

La crisi dipende dalla debolezza dell'euro non dalla credibilità del Cav.
di Milton
La riunione dell’Ecofin che si è conclusa lo scorso week end, non ha, come accade sovente, prodotto novità di rilievo, se non la scoperta che la politica economica dell’area euro, in questo momento, pare sia condizionata dai veti, udite! udite!, di Austria, Slovenia e Finlandia. Per dirla alla Metternich, queste espressioni geografiche, queste economie trainanti, che sommate fanno meno di un terzo del PIL della povera Italia, pretendono garanzie finanziarie dalla Grecia prima di rilasciare la prossima tranche di prestito al paese ellenico. Sarebbe come chiedere a un mendicante una fidejussione per i cinque euro di obolo che gli si sta per dare…
Questa è l’Europa dell’Euro, una serie di organismi acefali, iperburocratizzati, senza leaders e senza visione, intrisi di particolarismi, senza radici comuni e con interessi spesso divergenti, con un paese forte, la Germania, che per storia e cultura non ha, diciamo così, nel suo DNA sensibilità alla cooperazione, né senso di riconoscenza.
La cruda verità è che l’Euro ha fallito: d’altra parte un’unione monetaria, senza uno straccio di unione politica, non poteva avere futuro. L’Euro è la storia di una grande ambizione delle burocrazie tecnocratiche (tendenzialmente massoniche e keynesiane) degli anni ’90, che hanno preteso di confezionare lo stesso vestito (l’euro) sia per una grassa signora di 80 chili (la Germania), sia per ragazzine mingherline e forse anoressiche (la Grecia, il Portogallo).
Questi sono i risultati, una moneta troppo forte per economie troppo deboli, parametri di riferimento rigidi che non tengono conto delle specificità dei vari paesi membri, una politica monetaria che pensa solo all’inflazione, infischiandosene del resto (rimarrà negli annali di storia dell’economia, la “lungimirante decisione della BCE di alzare i tassi di interesse solo qualche settimana prima dello scoppio della crisi dei mutui sub-prime).
Ma dove sono i padri dell’Euro: in Italia qualcuno è diventato Presidente della Repubblica, qualcun altro ci vuole diventare. Perché non ci spiegano tutto quello che sta accadendo, perché non ci spiegano lo scellerato concambio euro/lira che ha impoverito un intero paese?
Ma dove sono coloro che pranzarono sul Britannia e misero le basi di questa sgangherata unione monetaria: uno dei commensali sta per prendere le redini della BCE, scrive letterine al governo italiano (e in c.c. a Bersani) ed era a capo del Financial Stability Forum (sottolineo “stability”) quando scoppiò... d’improvviso … la crisi che tutt’ora viviamo. Dio ce ne scampi!
Siamo ormai da qualche mese nel ridicolo. Tutti, dalle massaie ai parlamentari, dal Trota e Calderoli a Di Pietro e Grillo, discettano di spread e aspettano l’apertura delle borse come se i mercati fossero diventati gli oracoli, che indicano ogni giorno la strada da seguire. I poveretti non sanno che ai mercati dell’aumento dell’IVA in Italia o delle privatizzazioni in Spagna, non interessa proprio nulla. I poveretti non sanno che il valore dei prodotti derivati di tutti i mercati del mondo è quasi 15 (quindici!) volte il PIL mondiale, che cosa volete che importi ai mercati se Berlusconi è credibile o meno o se la Merkel ha il di dietro abbondante?
Parleremo anche della manovra del Governo italiano appena varata (una pena!), ma non è questo il problema. La situazione italiana non è peggiore di quella di due anni fa o cinque anni fa, è sicuramente l’Italia non sta peggio di altri partner europei. Certo viviamo al disopra delle nostre possibilità, si cresce poco o nulla, ma questa è un’altra storia.
E’ in atto invece un attacco all’euro, per troppo tempo troppo forte e in qualche grattacielo di Shangai si è deciso che tutto quello stock di debito USA in dollari e relativi investimenti devono essere rivalutati, perché ora è venuto il momento di fare shopping in Europa. Quando il dollaro tornerà vicino a valori di 1,20/ 1,25 per un euro, la tempesta si placherà e finalmente al bar si smetterà di parlare di spread e si tornerà a parlare di calcio.
18 Settembre 2011

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