Grano e pomodori dall’estero, anche la Rai ne parla. Salcuni a Stato: “Una frode”
Il parco eolico più potente d'Italia è in Sardegna
Gli slovacchi frenano ma non sono certo egoisti
Svizzera. Sposatevi, converrà anche fiscalmente
Grano e pomodori dall’estero, anche la Rai ne parla. Salcuni a Stato: “Una frode”
Foggia – “Signora, sono tutte balle”. Intervistato da Raffaella Pusceddu, giornalista di ‘Presa Diretta’, programma d’inchiesta andata in onda su Rai Tre domenica scorsa, Antonino Russo, mammasantissima del pomodoro in Italia e proprietario del più grande impianto di trasformazione del pomodoro d’Europa, così rispondeva ai timori sulla ‘cinesità’ del pomodoro in scatola. Il salernitano Russo, sbarcato in Capitanata come miraggio occupazionale e divenuto il centro di polemiche interminabili, è riuscito incredibilmente a vincere una causa presso il Tribunale di Salerno. In sostanza, grazie alla sua equipe di influenti avvocati, l’imprenditore campano è riuscito a dimostrare che, importando il triplo concentrato di pomodoro dai porti dell’Estremo Oriente e sottoponendolo in Italia ad un processo di salazione, annacquamento e pastorizzazione, l’ortaggio si italianizza (in realtà tutta l’agroindustria lo ha sostenuto in questa battaglia). Una storia che ha dell’incredibile e che ha fatto sobbalzare sulla sedia i puristi del made in Italy, pure abituati all’alterazione. Grazie al programma condotto da Riccardo Iacona (che ha squarciato il velo di silenzio anche su caporalato e diritti umani violati), infatti, è emerso in pubblico, quel che molte associazioni di produttori (e non solo) vanno raccontando fuori dagli schermi da anni, inascoltate. Cioè, la combinazione del grano duro italiano con grano duro importato. E, soprattutto, che quella della carenza del prodotto è una scusa, considerando la massiccia esportazione verso l’estero.
E’ stato addirittura il magnate della pasta, Francesco Divella, Presidente della Provincia di Bari e uomo forte di Futuro e Libertà in Puglia, a dover ammettere che, all’interno delle paste italiane, finisce non meno del 40% di grano non nazionale. Cina, Kazakistan, Australia e Canada i primi paesi da cui importiamo. Ad intervenire in merito, anche il Presidente Regionale di Coldiretti, Antonio De Concilio, allarmato dal fatto che “nella pasta che finisce sulle nostre tavole c’è solo il 35% di grano italiano”.
Dati proccupanti, per la Capitanata, quelli illustrati dalla trasmissione intitolata, sintomaticamente “Terra e Cibo”. Che intimoriscono tanto più perché, a finire al centro della trattazione giornalistica, sono i due elementi base dell’economia agricola foggiana, vale a dire grano e pomodoro (in provincia di Foggia si raccoglie il 40% del pomodoro trasformato in tutta Italia, un’enormità). Per capirne di più, abbiamo ascoltato Pietro Salcuni, presidente provinciale di Coldiretti.
Presidente, il panorama è inquietante. Pomodori cinesi spacciati per italiani, grano ammuffito spacciato per buono, prezzi alterati dai grandi interessi, sfruttamento…
Sappiamo entrambi che, al giorno d’oggi, a tirare non sono tanto le belle notizie, quanto quelle brutte. Malgrado questa spinta mediatica, devo dire che quanto illustrato dalla Rai, cosa di cui noi eravamo già a conoscenza, è ben più che inquietante. E’ l’attivazione di un circuito pericoloso che, se non aggiustato a tempo può avere effetti deleteri sulla nostra attività.
Chi paga in questo circuito?
Praticamente tutti, tranne chi sta ai vertici del sistema produttivo, ovvero gli industriali. Paghiamo noi coltivatori diretti, che vediamo letteralmente sgretolarsi il nostro lavoro d’eccellenza e azzerarsi i nostri sforzi economici. E paga il consumatore, che crede di mangiare iatliano e, invece, non si sa cosa mangi. E’ una frode.
Una frode?
Una frode. Se inscatolano roba cinese spacciandola per roba italiana, come la chiama lei?
Una sentenza del Tribunale di Salerno, però, dice l’opposto…
Non conosco bene la sentenza. Per decenza e per conoscenza superficiale, mi esimo da fare commenti…
In effetti ci sarebbe anche una legge sull’etichettatura (3 febbraio 2011, n.4) ma si è arenata in attesa che passino i decreti applicativi. Questione di trasparenza?
Mettiamola come una questione di trasparenza, ma ci aggiungerei anche la salute. Sappiamo veramente quali controlli sono stati effettuati, come si coltivano grano e pomodoro negli altri paesi, come crescono, dove crescono, se ci sono fitofarmaci, veleni? La verità vera è l’agroindustria, con cui i rapporti non sempre sono rilassati, non ci presta il fianco. Noi produttori dobbiamo guadagnare, loro anche e succede il più delle volte che non ci si mette d’accordo. Così sorge la pista estera. Comprare altrove garantisce il risparmio a scapito della qualità.
Antonino Russo dice che non è così. Che Cina e Italia uguali sono…
Guardi, io sono stati tra quelli che hanno voluto in maniera disperata l’approdo in Capitanata dell’imprenditore salernitano. Credevo che, la vicinanza fisica fra noi prodottori ed azienza di trasformazione, potesse garantire una maggiore trasparenza della filiera e sancire, una volta per tutte, la defunzione di pratiche deleterie come quelle del triplo concentrato. Mi aspettavo rapporti più sinceri e sereni in cui, abbattendo il trasporto, ci si potesse anche venire incontro. Non è stato così. E non posso che rammaricarmene.
Anzi, Salcuni, il 2010 è stato anno funesto in cui, malgrado aveste fissato dei prezzi, poi ognuno ha fatto quel che voleva. Non vi sentite ricattati?
Noi non ci sentiamo, lo siamo. Per fortuna, quest’anno c’è stata una minore produzione di agro alimentare. Dunque, i prezzi non potranno essere contrattati, né gli accordi violati. Ma servono degli organismi più stringenti di controllo che non curino semplicemente gli interessi di chi trasforma.
Voi vi sentite pressati e scaricate sulla manodopera…
Sia chiaro un principio: noi siamo una categoria di imprenditori, un’associazione di persone che rischiano, personalmente, giorno per giorno, per ottenere dalla terra un guadagno che consenta di vivere. Come tutti gli imprenditori, e anche più degli altri imprenditori, dobbiamo ammettere il rischio. Dunque, di riflesso, fare bene i nostri calcoli. Se un’azienda non è capace di supportare la produzione, ebbene, significa che non ha fatto bene i suoi calcoli. E, se non ha calcolato correttamente gli annessi e connessi, allora non è tenuta a scaricare le responsabilità che sono proprie sulla manodopera. Non c’è prodotto sano senza un’azienda sana. E non c’è azienda sana senza buona e limpida manodopera. Personalmente, mi reputo a capo di un’associazione di categoria, non di una schiera di Santi. Il che non significa gettare la croce addosso a tutti, indistintamente.
Perseguiterete il caporalato?
Faremo tutto il possibile.
Senta Salcuni, il suo presidente regionale, De Concilio, dice che il 35% del grano contenuto nella pasta è di provenienza estera. Lei è presidente di Coldiretti nel fu granaio d’Italia. Non crede sia uno smacco?
Siamo consapevoli che la nostra produzione granaria non basta per soddisfare la produzione di pasta del nostro paese che, ricordiamo, è primo al mondo per esportazione.
Le cito alcuni dati: l’Italia importa 2 milioni di tonnellate di grano necessarie per completare, chiamiamolo così, l’ammanco nella produzione. In 7 anni, nel nostro paese, sono stati abbandonati campi di grano per 685 ettari. Ovvero, una superficie in cui, è stato calcolato, si sarebbero potuti ricavare 2 milioni di tonnellate. Dunque, ciò che manca per soddisfare la richiesta dell’agro alimentare. Non è che, in fondo, è solo una scusa delle industrie per comprare, a minor costo, dalle grandi multinazionali?
Ripeto, il loro indirizzo è solo quello di battere cassa. Spesso, a discapito della salute delle persone. E’ innegabile che il grano stoccato è più esposto a contaminazione rispetto a quello raccolto direttamente nei campi. Il che non sta necessariamente a significare che il grano italiano sia migliore rispetto a quello importato. Come se non bastasse, sul sistema produttivo incidono anche le agromafie che sottraggono al circuito di produzione legale svariati milioni di euro. A pagare queste infiltrazioni, chiaramente, sono i coltivatori diretti, i produttori, non certo le agroindistrie.
Il parco eolico più potente d'Italia è in Sardegna
Inaugurata la centrale di Falck Renewables con 69 turbine per una capacità totale di 138 Mw
È in Sardegna il parco eolico più grande d'Italia e uno dei maggiori in Europa per potenza installata. Inaugurato nei giorni scorsi, l'impianto realizzato da Falck Renewables a Buddusò e Alà dei Sardi (due comuni in provincia di Olbia-Tempio) produrrà 330 GWh l'anno di energia elettrica, grazie a 69 turbine Enercon per una capacità totale di 138 Mw. Il parco potrà quindi coprire i consumi di circa 110.000 famiglie, risparmiando 180.000 tonnellate l'anno di emissioni di Co2.
Per costruire questa fattoria del vento, come si legge in una nota della società italiana specializzata nella produzione di energia da fonti rinnovabili, sono arrivati 230 milioni di euro da un'operazione di “project financing” chiusa nel 2010. Il valore complessivo dell'investimento è superiore a 250 milioni di euro; Falck ha stimato in circa 50 milioni il ricavo medio annuale per l'energia generata dalle turbine, alte un centinaio di metri e collocate in una delle zone più ventose della Penisola. La costruzione dell'impianto ha richiesto circa due anni e mezzo di lavoro; le prime 18 turbine entreranno stabilmente in funzione entro novembre.
Gli slovacchi frenano ma non sono certo egoisti
di Edoardo Narduzzi
I parlamentari slovacchi si sono rifiutati di elargire circa il 10% del pil, cioè 7,7 miliardi di euro, al cosiddetto fondo salva stati. Risorse al servizio del disavanzo della Grecia perché parte del doppio prestito concesso ad Atene. Un paese che soltanto venti anni fa era ancora comunista e che ancora oggi ha stipendi medi mensili di 500 euro si è rifiutato di dissanguarsi per pagare il conto della demagogia politico-sindacale della spesa pubblica greca. Forse la prossima settima la Slovacchia dirà sì, ma nel frattempo la prolungata crisi greca già consente di trarre buone lezioni di cui fare tesoro per il futuro. Prima lezione: se uno stato ha un'economia basata prevalentemente sulla spesa pubblica, con tutto ciò che ne deriva, come appunto la Grecia è, si deve essere certi che, prima o poi, i mercati scopriranno il bluff e metteranno uno stop alla possibilità di finanziare a debito la spesa corrente. L'economia greca è stata gonfiata dalla possibilità di vivere sulle spalle delle generazioni future. Senza una spesa pubblica di queste dimensioni avrebbe una dimensione molto più contenuta, visto che il suo settore privato è di fatto senza manifattura e con servizi prevalentemente domestici. Il pil greco è stato gonfiato dal debito pubblico ed è curioso che nessuno si sia posto prima il dubbio sulla sostenibilità di una tale bolla economica. Seconda lezione: se una economia gonfiata dal debito ha la possibilità di aderire a un'unione monetaria, che le offre l'occasione di indebitarsi a tassi molto bassi, i politici, anziché approfittarne per ristrutturare, usano l'opportunità offerta dall'extra debito per «comprare» il consenso. Fuori dall'euro, il gioco delle tre carte greco sulla contabilità pubblica non sarebbe mai potuto accadere perché i mercati avrebbero subito svalutato la dracma. Sotto l'ombrello dell'euro, invece, la spesa pubblica è potuta muoversi in piena libertà accrescendo un welfare state fiscalmente insostenibile dal pil greco. L'euro ha prodotto ad Atene una illusione fiscale bella e buona. Ultima lezione: se ci si illude che paesi con storie economiche tanto diverse tra loro possano rapidamente agire come un unico corpo si commette un grave errore di valutazione. La Slovacchia, forse giustamente, pensa che investire nelle sue infrastrutture e industrie (è oggi tra i principali produttori di automobili della Ue, ndr) renda di più che non prestarli ad Atene per pagare inutili impiegati pubblici o ferrovieri doppi o tripli rispetto a qualsiasi razionale pianta organica. Anche per il bene dell'euro, a Bratislava pensano che un euro investito in Slovacchia sia più profittevole di un euro investito nel Peloponneso.
Svizzera. Sposatevi, converrà anche fiscalmente
Tra coniugi e concubini, come pure tra coppie sposate con un solo reddito e quelle con doppio reddito non deve sussistere, per quanto possibile, una disparità fiscale. Questa la posizione del Consiglio federale che ha tenuto ieri una prima discussione sulla problematica. Il governo ha incaricato il Dipartimento federale delle finanze (DFF) di elaborare un progetto entro la pausa estiva 2012.
Attualmente, in ambito di imposta federale diretta, parte delle coppie coniugate con doppio reddito o pensionate sono trattate fiscalmente peggio dei concubini nella stessa situazione. Se supera il 10%, questa disparità è contraria al principio costituzionale dell’uguaglianza giuridica, come già stabilito nel 1984 dal Tribunale federale, si legge in un comunicato del DFF.
In Svizzera, circa 80’000 coniugi con attività lucrativa sono gravati in maggiore misura, a livello fiscale, rispetto ai concubini nella stessa situazione. Si tratta in particolare di coppie sposate con doppio reddito e un reddito netto minimo di 80’000 franchi (senza figli), rispettivamente di 120’000 franchi (con figli). L’argomento colpisce inoltre i coniugi pensionati con un reddito a partire da 50’000 franchi.
Il maggiore carico fiscale deve essere eliminato tramite un meccanismo di correzione legale chiamato calcolo alternativo degli oneri, continua la nota del DFF. L’applicazione del nuovo metodo di calcolo provocherà oneri aggiuntivi per gli enti competenti. Gli adeguamenti informatici dovrebbero comunque garantire una buona automatizzazione dei processi.
Il Consiglio federale intende esaminare anche le ripercussioni finanziarie causate da una nuova deduzione per i coniugi con un solo reddito. Questa deduzione contrasterebbe l’eccessivo carico fiscale di questa categoria di coniugi rispetto a quelli con doppio reddito.
13.10.2011
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