lunedì 23 luglio 2012

(2) XXIII.VII.MMXII/ Nel paese galbanino una perifrase nasconde sempre una fregatura.

Taranto. Dati allarmanti sui fumi dell'Ilva
LA NUOVA SARDEGNA - Economia: In Costa Smeralda restano solo i maxi yacht
Fughe organizzate e rientri a ostacoli
Le baby pensioni costano 150 miliardi
Consumi, il peggio deve ancora venire

Taranto. Dati allarmanti sui fumi dell'Ilva
di Mimmo Mazza
TARANTO - «Dichiaro chiuso l’incidente probatorio». Pronunciando questa frase, lo scorso 30 marzo, il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco mise fine all’anticipazione del processo chiesta dalla Procura per fare definitivamente chiarezza sulla natura, sulle dimensioni e sugli effetti delle emissioni dell’Ilva. Dal 30 marzo sono passati quasi quattro mesi, tempo che la Procura ha utilizzato per studiare le 800 pagine scritte dai periti e valutare quali ulteriori tappe far compiere all’indagine.
Tre le domande poste dal giudice Patrizia Todisco ai suoi consulenti: quali sono le patologie interessate dagli inquinanti, considerati singolarmente e nella loro interazione, presenti nell’ambiente a seguito delle emissioni dagli impianti industriali dell’Ilva? Quanti sono i decessi e i ricoveri per tali patologie per anno, per quanto riguarda il fenomeno acuto, attribuibili alle emissioni dell’Ilva? Qual è l’impatto in termini di decessi e di ricoveri ospedalieri per quanto riguarda le patologie croniche, che sono attribuibili alle emissioni dell’Ilva?
«Il nostro parere è che sulla situazione sanitaria e sul nesso tra ambiente e salute a Taranto si è appena cominciato e sarà indispensabile continuare ad approfondire molti dei temi, soprattutto per i problemi legati alla salute riproduttive e alla salute nell’infanzia» hanno risposto i tre periti medico-epidemiologici incaricati di verificare se esiste un legame tra le emissioni dello stabilimento siderurgico dell’Ilva e lo stato di salute della popolazione tarantina.
Leggendo le 121 pagine del verbale dell’udienza dello scorso 30 marzo, nel corso della quale il professor Annibale Biggeri, docente ordinario all'università di Firenze e direttore del centro per lo studio e la prevenzione oncologica, la professoressa Maria Triassi, direttore di struttura complessa dell’area funzionale di igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro ed epidemiologia applicata dell’azienda ospedaliera universitaria «Federico II» di Napoli, e il dottor Francesco Forastiere, direttore del dipartimento di Epidemiologia, Asl Roma, hanno risposto ai quesiti delle parti, si riesce a comprendere come il lavoro svolto dai professionisti, un lavoro divenuto prova nelle mani della Procura, non possa essere dichiarato superato, come pure si legge ormai da alcuni giorni, per l’annuncio dell’ennesimo atto di intesa o per valutazioni di carattere economico-occupazionale del tutto estranee ai procedimenti penali.
I tre periti non si sono «limitati» ad esporre il loro lavoro, che pure certifica il nesso di casualità tra emissioni e malattie, ma hanno anche indicato alcuni degli interventi adottabili per migliorare la situazione.
«A Taranto c’è un problema sanitario di indubbia compromissione dello stato di salute della sua popolazione - ha detto il professor Forastiere - rispetto alla popolazione regionale. C’è un problema di programmi di prevenzione su alcuni fattori di rischio più importanti che ovviamente sono a carico del sistema sanitario nazionale e dovrebbero essere fatti dal sistema sanitario nazionale, quindi tutti i provvedimenti di prevenzione primaria dovrebbero avere una accelerazione importante. Tutto questo ovviamente accanto ai temi di risanamento ambientale che sono una delle componenti che deve essere aggredita in maniere importante. È ovvio - ha proseguito il perito - che il servizio sanitario nazionale possiede gli strumenti per l’intervento, non è un problema della magistratura, è un problema del sistema stesso e quindi il sistema stesso è chiamato agli interventi di conoscenza della situazione, perché questo vorrei fosse chiaro, anche noi ci siamo meravigliati del fatto che l’indagine epidemiologica è scaturita per indicazione della magistratura e non per indicazione del sistema generale e delle istituzioni».
Secondo il professor Forastiere, «Taranto tra il 1995 e il 2002 ha registrato un aumento della mortalità tra il 7 e il 9%, per i tumori tra il 13 e il 15%, nello specifico esiste una più alta mortalità per i tumori polmonari con un 19% in più per tumore alla pleura, per malattie del sistema cardio-circolatorio, malattie ischemiche, malattie dell’apparato respiratorio e malattie respiratorie acute. Il quadro testimonia una più alta mortalità per i cittadini di Taranto e Statte sia negli uomini che nelle donne. Il dato che, in qualche modo, ha fatto ritenere preoccupante la situazione di Taranto è la mortalità infantile che vede, in questo periodo, un eccesso di mortalità del 18% specialmente per le condizioni morbose di carattere perinatale, che sono sostanzialmente le malattie respiratorie acute al di sotto dell’anno di età, ma anche nello specifico la mortalità per tutti i tumori nei bambini. Ora la mortalità per tumore, per fortuna, sta diventando un evento raro grazie alle terapie che sono in corso. Negli anni successivi, la situazione non è cambiata, con un aumento di mortalità. Una situazione di compromissione che permane per le condizioni al di sotto dell’anno di età (la mortalità infantile) mentre si è ridotta, per fortuna, la moralità per tumori grazie anche probabilmente alle terapie che sono in corso».
I periti hanno incrociato i dati dell’Arpa, del suo sistema di monitoraggio, rilevando differenze sostanziali nell’inquinamento da polveri tra i diversi punti della città. «Tra il quartiere Tamburi e gli altri quartieri di Taranto - ha detto il professor Forastiere - esiste sulla base delle centraline, un differenziale che va tra gli 8 e i 12 microgrammi al metro cubo come media nel periodo 2004-2010».
Dati che non possono lasciare indifferenti nessuno, men che meno i magistrati che li hanno chiesti per fare definitivamente chiarezza sulle emissioni dell’Ilva.

LA NUOVA SARDEGNA - Economia: In Costa Smeralda restano solo i maxi yacht
23.07.2012
L'isola senza barche affonda in una stagione sempre più malinconica. Nei porti della Sardegna gli scafi sotto i 20 metri sono scomparsi, colati a picco dalla ferocia di uno Stato dalla tassa facile, che ha iscritto i proprietari delle imbarcazioni nelle black list dei quasi evasori. Uno tsunami sembra avere travolto la flotta dei piccoli, il naviglio della borghesia imprenditoriale. Dal motoscafo alla piccola barca sotto i 15 metri è un’ecatombe. Gli italiani sono scomparsi, colpa del redditometro. Le barche, come le auto di lusso, sono diventate un peccato del Capitale. Finiscono nel paniere che calcola la ricchezza. Per questo gli italiani hanno puntato la prua dei loro yacht verso la Corsica e le Baleari, lidi fiscali sicuri. Ma anche una fetta di stranieri ha girato a largo dalla Sardegna. Tutta colpa della tassa di stazionamento, istituita e abrogata in un paio di mesi dal governo, che colpiva tutte le imbarcazioni ormeggiate in Italia. Le grandi compagnie di charter, quelle che affittano gli yacht, sono andate altrove. A questo si deve aggiungere la crisi globale che ha colpito anche la nautica. I porti della Gallura, che da soli offrono il 70 per cento di tutti i posti barca dell’isola vedono approdare solo i giganti. I maxi yacht con la loro tracotante dimensione continuano a scivolare vanitosi tra le acque preziose della Costa Smeralda e dell’arcipelago della Maddalena. Per i milionari la crisi non esiste. Per tutti gli altri si fa sentire. «A Porto Rotondo la fascia dai 7 ai 10 metri è scomparsa – spiega il direttore della Marina Giacomo Pileri –. È stato del 20 per cento il calo degli scafi tra i 15 e i 20 metri, anche in questo caso allarmati da tasse e recessione. Non c’è crisi per i maxi yacht, quasi tutti stranieri e senza difficoltà economiche. Ma questi sono un mercato a parte. Un po’ dispiace per il borgo che senza la fascia media, che fa massa, vede gli affari calare». Anche Porto Cervo non conosce crisi. I giganti del mare che superano i 120 metri sono sempre di casa in Costa Smeralda. Anche qua manca la fascia tra i 7 e i 20 metri. «Siamo sui livelli dello scorso anno – spiega Michele Azara, direttore di Porto Cervo Marina –. Sono ritornate le grandi barche, un trend positivo legato anche all’andamento della stagione turistica negli hotel della Starwood. C’è un calo del 20 per cento nella categoria media cominciato già alcuni anni fa. Questa settimana siamo stati costretti a lasciare in rada alcuni maxi yacht, gli spazi non bastano». I signori del mare nell’ex regno dell’Aga Khan continuano a essere i russi, in cima alla lista dei clienti di Porto Cervo Marina. Ma già da qualche anno sono in crescita le presenze degli arabi, quest’anno spinte dall’arrivo in Costa Smeralda del nuovo padrone, l’emiro Al Thani. Negli altri porti i maxi yacht non arrivano. A Palau 450 posti per yacht fino a 20 metri, la crisi si sente solo sulle richieste giornaliere. «Da un certo punto di vista siamo un’oasi felice – spiega il direttore del porto gestito dal Comune, Ignazio Sanna –. La percentuale di riempimento è in linea con il passato, ma le imbarcazioni si spostano di meno e arrivano più tardi. Le richieste giornaliere sono crollate». Chi guarda al presente con preoccupazione è Santa Teresa che segna un meno 15 per cento a luglio. Una cifra che conferma il trend negativo dei primi 5 mesi dell’anno, meno 10 per cento. «Santa Teresa riflette il quadro negativo di tutti i porti sardi – spiega Domenico Poggi, direttore della Silene, la multiservizi del comune –. Giugno è cominciato molto bene per poi perdere rispetto al 2011. E luglio conferma lo stesso trend con il 15-18 per cento in meno. Ma vogliamo essere positivi. Anche perché a determinare il fatturato sono le settimane tra il 15 luglio e il 31 agosto».

Fughe organizzate e rientri a ostacoli
Decine di migliaia di giovani qualificati che lasciano ogni anno l'Italia: un impoverimento di capitale umano, con un gap negativo per il nostro Paese, in termini di "flusso dei cervelli". Come ha riassunto una recente ricerca di Forum nazionale giovani-Cnel: esportiamo medici, insegnanti, avvocati, architetti.
E importiamo infermieri. Un'emigrazione moderna, che affonda le sue radici in un ventennio che ha collocato l'Italia all'ultimo posto nella classifica europea della crescita. Circa 30mila, secondo l'Aire (ma i dati sono sottostimati perché meno di un neoemigrante su due si iscrive in media al registro) è il numero di giovani tra i 20 e i 40 anni che hanno lasciato la Penisola nel 2011. Internet è sempre più il punto di partenza (dove reperire informazioni) e di arrivo (per crearsi una rete sociale) di questa nuova emigrazione. Trasparenza, meritocrazia reale, innovazione e una classe dirigente più giovane: la mancanza di questi fattori alimenta il flusso in uscita di cervelli dalle nostre frontiere. La strada per rendere l'Italia un Paese per calamitare giovani talenti e per trattenere i propri passa in primis da qui.
 22 luglio 2012

Le baby pensioni costano 150 miliardi
 La spesa in 40 anni di welfare squilibrato
Il bilancio dopo 40 anni di welfare squilibrato. Nel pubblico le madri si ritiravano con 14 anni e 6 mesi, gli uomini con 5 di più
di Marco Ferrante
ROMA - Le baby pensioni compaiono nel nostro ordinamento con il decreto (Dpr 1092) che entrò in vigore il 29 dicembre 1973. È l’anno della crisi energetica, della guerra del Kippur, del Watergate nella sua pienezza.
 Sono gli anni ’70, quel groviglio di fortissime tensioni politiche, di trasformazioni sociali e di terrorismo. Dodici giorni prima, il 17, un commando di terroristi palestinesi compie la strage di Fiumicino contro un aereo della Pan Am. Il 45 giri al primo posto in classifica è «La collina dei ciliegi» di Lucio Battisti. Il presidente del Consiglio è Mariano Rumor, dossettiano di origine, uno dei leader dorotei. Meno di un mese prima, il 2 dicembre, Rumor ha dato inizio all’austerity, le domeniche a piedi, i cinema chiusi alle dieci di sera, trasmissioni tv interrotte alle 22.45.
 Ma in questo clima che mette la parola fine sugli anni della grande crescita italiana, il governo introduce una nuova riforma delle pensioni che inciderà subito con costi molto elevati sulla sostenibilità del sistema.
 Il Dpr 1092 prevede per il settore pubblico la possibilità di andare in pensione con 14 anni sei mesi e un giorno per le donne con prole, 19 anni sei mesi e un giorno per gli uomini, e 24 anni sei mesi e un giorno per i dipendenti degli enti locali.
 Alberto Brambilla, già sottosegretario al Welfare e uno dei massimi esperti italiani di pensioni, quest’anno, in occasione della giornata mondiale della previdenza, ha curato un testo molto utile per la ricostruzione storica del welfare italiano, un libro sfogliabile in internet, “I 150 anni della previdenza sociale nei 150 anni dell’Unità d’Italia”. Spiega al Messaggero: “Quel Dpr chiude un ciclo di interventi esiziali sulle pensioni. Nel 1969 c’era stata la legge Brodolini con l’adozione generalizzata del sistema retributivo, con l’istituzione delle pensioni di anzianità, e l’adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita. I due provvedimenti, quello del 1969 e questo del 1973 hanno inciso pesantemente e negativamente sui conti pubblici. Già nel 1978, prima dei lavori della commissione Castellino, era chiaro che il sistema previdenziale era squilibrato”.
 I costi li vedremo meglio dopo. Ma com’è possibile che la classe politica non si rendesse conto dell’insostenibilità di questo genere di misure? Cinismo, irresponsabilità, superficialità? No, a sentire i protagonisti di quella fase politica.
 I socialisti vi diranno che era il modo di far politica della Dc, i democristiani ricorderanno il ruolo dei ministri del Lavoro socialisti. Tutti tenderanno a spiegare che non si avvertiva il problema dei costi del welfare, era semplicemente un altro mondo. Un mondo che veniva da vent’anni di crescita al 5,3% medio, dalla piena occupazione nell’industria, dal boom, dalla rinascita italiana, con una classe dirigente politica che aveva contratto l’abitudine alle vacche grasse e che considerava la lotta tra i partiti come competizione per il controllo di quote di spesa pubblica.
 Franco Marini, segretario della Cisl tra il 1985 e il 1991 in quel dicembre del 1973 era appena entrato nella segreteria confederale della Cisl guidata da Storti. Dice: “Sì, è vero che non c’era nella classe politica né nel corpo della stato di allora una grande consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, dell’impatto che l’allargamento del welfare avrebbe avuto sui conti pubblici. Però il provvedimento sulle baby-pensioni causò sin da subito una forma di imbarazzo anche nel sindacato che a quel tempo aveva un fortissimo potere contrattuale nei confronti della politica. Era una norma squilibrata. Ci fu disagio nei confronti dei lavoratori privati che erano esclusi da quel trattamento. Anche se qualcuno riteneva che il babypensionamento compensasse il fatto che i dipendenti del privato avessero avuto fino a quel momento salari molto più alti”.
 Negli anni successivi passò anche l’idea che la baby pensioni fossero equiparabili al prepensionamento del settore privato. Ma in realtà segnarono un fatto simbolico. Il momento più alto della generosità del welfare italiano e che si colloca quasi a metà strada tra la vittoria culturale di Beveridge (lo stato sociale inclusivo) e la crisi dei debiti sovrani esplosa nel 2007.
 È con gli anni ’70 che la spesa pubblica si impenna. Si passa dal 30,1% del 1960 al 46,8% del 1980. Tutte le prestazioni dello stato si dilatano. Quanto ci sono costate la baby pensioni? Difficile fare un calcolo preciso. Possiamo però avvicinarci per approssimazione. Secondo i dati di Inps e Inpdap, al primo gennaio del 2011 le pensioni destinate a persone che hanno cominciato a usufruirne quando erano sotto i cinquant’anni sono poco più di 531.000, concentrate nel nord, per un costo complessivo di 9 miliardi e mezzo l’anno. 107.000 sono erogate dall’Inps (poco più di 2 miliardi di costo annuo), 425.000 dall’Inpdap, dall’istituto previdenziale dei dipendenti pubblici. In queste 425.000 pensioni (costo 7,4 miliardi all’anno) sono incluse anche quelle di invalidità. Ma il grosso riguarda normali pensionamenti anticipati.
 Secondo un calcolo effettuato qualche mese fa da Confartigianato i baby pensionati italiani (pubblici e privati) rispetto al pensionato medio hanno ricevuto un trattamento più lungo di quasi sedici anni. Questo significa che a valori 2010 la differenza (cioè il costo in più rispetto a un normale trattamento pensionistico) varrebbe 148,6 miliardi di euro. Cioè: in questi 40 anni, l’esistenza delle baby pensioni ci è costata quasi 150 miliardi più di quanto ci sarebbe costata la previdenza se i baby pensionati fossero andati a riposo con le stesse regole degli altri. Una tassa cumulata – secondo le stime degli artigiani – di circa 6.630 euro che grava su ognuno degli occupati italiani.
 Si tratta di persone che in un calcolo medio restano in pensione per quasi 41 anni. Se si guarda la tabella elaborata dall’ufficio studi di Confartigianato, per esempio, quasi 17.000 di queste pensioni riguardano persone che hanno lasciato il lavoro a 35 anni di età, dunque si tratta in gran parte di ex pubblici. Considerando che l’età media stimata è salita a 85,1 anni, si tratta di 53,9 anni di pensione, il 63,4% dell’intera vita. Altri 78.000 sono andati in pensione tra i 35 e i 39 anni. Anni di pensione stimati: 47,4 cioè il 55,8% dell’intera vita. Significa che ci sono cittadini che hanno riscosso in assegni pensionistici il triplo di quanto hanno versato in contributi.
 In un mondo come quello attuale in cui ci sono quarantenni privi di copertura previdenziale adeguata, questi dati spiegano le reazioni che, negli anni, il fenomeno dei baby pensionati ha cominciato a destare in una opinione pubblica alle prese con le trasformazioni del lavoro. Spiega Chiara Giorgi, che insegna Storia della Pubblica Amministrazione all’università di Genova: “Oggi queste prestazioni – che vengono dal conflitto tra la spinta universalistica del welfare classico e la declinazione italiana di un welfare corporativo – sono incomprensibili per almeno due generazioni che sono cresciute in un modello lavoristico dove non c’è il posto fisso e che non avranno mai quel tipo di previdenza”.
 Per farsi un’idea, i nove miliardi e mezzo l’anno che noi spendiamo per le pensioni baby (tra il 4 e il 5% del totale della nostra spesa pensionistica) sono all’incirca il doppio di quanto – secondo una stima fatta da Confindustria – ci costano tutti gli anni i circa 180.000 eletti del sistema politico-istituzionale italiano, la cosiddetta casta: quattro miliardi contro cui un pezzo di opinione pubblica è costantemente mobilitata.
 Negli anni, per gli eccessi dei pensionamenti agevolati sono cresciuti fastidio e indignazione, in aree politiche e culturali molto diverse. C’è tutta una fortunata pubblicistica sui pensionati baby e sulle loro storie. Non solo la moglie di Umberto Bossi, eletta a simbolo della categoria. Ma ci sono le storie di gente comune. Le baby pensionate scovate e intervistate dalla stampa, quasi tutte prive di sensi di colpa. I racconti di Mario Giordano in “Sanguisughe” (Mondadori, 2011, pag. 168, 18,50 euro).
 E poi c’è Internet. Su Giornalettismo, per esempio, è scoppiata una polemica sulle pensioni baby a favore dei sacerdoti. Mentre sull’edizione italiana di Indymedia – considerato il forum online internazionale della sinistra antagonista – a gennaio sono spuntate le storie di due baby pensionati di Modica (perché in Sicilia il meccanismo delle baby pensioni ha resistito alla scure degli anni ’90) e anche l’accusa di censura rivolta da parte degli anti-baby pensionati ai difensori dei baby pensionati.
 “Secondo me il clima è cambiato già molti anni fa – ricorda Franco Marini – Da ministro del lavoro nel 1991 cominciai a preparare la riforma della previdenza che avrebbe cancellato la baby pensioni e che poi si realizzò sotto il governo di Giuliano Amato nel dicembre del 1992. E sulle pensioni baby non trovai resistenze a tornare indietro. Anche perché le riforme mano mano riequilibrarono il trattamento previdenziale per pubblici e privati”.
 Eppure le incrostazioni corporative, i riflessi automatici, i punti di principio sono rimasti. Quando l’anno scorso il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, propose un contributo di solidarietà dell’un per cento che avrebbe toccato anche le pensioni baby ci fu una levata di scudi sui diritti acquisiti, che proprio non si toccano. Eppure è chiaro che in alcuni casi la costruzione dei diritti acquisiti è il risultato dell’iniquità, dell’inopportunità o dell’incongruenza di una norma. “Sì, diciamo che non si tratta di cancellare i diritti acquisiti – dice Mauro Marè, grande esperto di previdenza e professore di scienza delle finanze a Viterbo – ma dobbiamo essere disponibili a riconsiderare il concetto di diritto acquisito” (Marè è anche il presidente del Mefop, la società per lo sviluppo dei fondi pensione). Più cauto Franco Marini: “Se sul piano dei rapporti legislativi è difficile ridurre le prestazioni pensionistiche, sul piano della disponibilità soggettiva, invece, i contributi di solidarietà vanno inevitabilmente presi in considerazione”.
 Di sicuro c’è un punto che riguarda la natura del debito pubblico: se l’eccesso di spesa pubblica è servito a trasferire sullo stato il costo dei privilegi accordati dalla competizione politica a pezzi di società, forse per recuperare quelle risorse dobbiamo innanzitutto rivolgerci a chi per primo ne ha beneficiato (in previdenza, concessioni fiscali, aiuti, regalie e sprechi). Ovviamente i baby pensionati non sono i più ricchi tra i beneficiari della spesa pubblica allegra, però sono tra quelli che più apertamente hanno goduto di uno squilibrio. Forse è stata una generosità che è andata oltre gli obblighi della solidarietà.
Lunedì 23 Luglio 2012 - 09:01

Consumi, il peggio deve ancora venire
Il quadro previsionale è tutt'altro che confortante, cresce il consenso su stime che danno il Pil in calo di due punti. E i consumi saranno in linea. Si prevede una contrazione superiore ai due punti, prossima ai tre". Lo afferma, in un'intervista al Giornale, il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. "Non possiamo stare fermi. L'Italia deve agire sul fronte europeo e su quello interno. Bisogna accelerare il processo della spending review e allo stesso tempo derubricare gli aumenti dell'Iva che per il momento sono stati esclusivamente rinviati. Per farlo servono 6,5 miliardi di euro. Per noi quell'aumento - spiega Sangalli - si tradurrebbe in una Caporetto per le famiglie". Per Sangalli, oltre alla lotta all'evasione, serve "una grande unità tra i grandi contribuenti che pagano per riformare il sistema fiscale" e "una politica per sostenere il terziario che è l'unico in grado di creare nuova occupazione e rappresenta oltre il 50% del Pil e dell'occupazione".

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