Politica ed economia:
1. Da emergenti e Usa il traino della crescita.
2. È l'ora di sostenere la Banca centrale.
3. Il Pil britannico torna a scendere.
4. La neve di Davos e il fuoco di Basilea.
5. I nodi di Basilea 3 e i timori dei banchieri.
6. Il tema di Davos: gli squilibri globali.
7. Credito e crisi, parola a Davos.
Finanza e debiti sovrani:
8. Tutti in coda per il bond Ue.
9. Il bond salva-euro fa il pieno.
10. Buona la prima per il bond europeo.
11. Tutti in coda per il bond Ue.
1. Da emergenti e Usa il traino della crescita. Alessandro Merli. PARIGI. Dal nostro inviato. La crescita mondiale si rafforza, sostenuta dalla ripresa più vigorosa del previsto negli Stati Uniti, ma quasi quattro anni dopo lo scoppio della crisi globale, «la stabilità finanziaria è ancora a rischio».
Arriva un doppio messaggio dagli economisti del Fondo monetario, nella periodica revisione dello stato di salute dell'economia mondiale e dei mercati finanziari: la prima sta meglio, i secondi non proprio. E una delle incognite più gravi per la stabilità finanziaria viene dall'Europa e dall'intreccio fra debito sovrano e difficoltà delle banche. Un potenziale "circolo vizioso", che va spezzato, ha detto il capo economista dell'Fmi, Olivier Blanchard. Tuttavia, finora l'Europa si è mossa senza un disegno coerente, nella valutazione del Fondo, mentre ha bisogno di una strategia complessiva: questa dovrà comprendere un rafforzamento del fondo salva-stati Efsf e maggiore trasparenza sui conti delle banche con nuovi, più severi, stress test e la loro successiva ricapitalizzazione, come sottolinea José Vinals, capo del dipartimento mercati finanziari dell'Fmi. L'altro ingrediente essenziale è il risanamento dei conti pubblici. Al Fondo si sono dichiarati convinti che nessun paese dovrà lasciare la moneta unica. L'instabilità in Europa rischia però di diffondersi al resto dei mercati.
Le notizie migliori vengono dall'economia reale, anche se continua l'andamento a due velocità: i paesi emergenti, trainati da Cina, India e Brasile, avanzano a pieno ritmo, quelli sviluppati procedono più lentamente. La crescita mondiale viene stimata dall'Fmi attorno al 4,5% nel 2011 e nel 2012, con un lieve rallentamento rispetto all'anno scorso, ma in rialzo in confronto alle previsioni di ottobre. Decisa la marcia delle economie emergenti e dei paesi in via di sviluppo, al passo del 6,5% in entrambi gli anni. Qui il rischio è semmai, ha detto Blanchard, il surriscaldamento, con la necessità di adottare politiche economiche più restrittive. Alla Cina, l'economista dell'Fmi ha chiesto una rivalutazione del cambio. Nei paesi emergenti, i fondamentali economici positivi, insieme ai tassi d'interesse vicini allo zero nelle economie avanzate, hanno attratto massicci afflussi di capitali, che, secondo l'Institute of International Finance, l'associazione delle grandi banche, supereranno i i mille miliardi di dollari nel 2012. Le autorità monetarie dovranno quindi prestare attenzione alle bolle speculative, intervenendo con un mix di misure macro-economiche prudenziali e controlli sui capitali.
I paesi industriali, nelle nuove previsioni, frenano al 2,5% (dal 3% dell'anno scorso), il che non consentirà di riassorbire in misura significativa la disoccupazione creata dalla recessione. Il rallentamento è attenuato dalla revisione al rialzo delle stime per gli Stati Uniti. L'Fmi prevede ora che possano crescere del 3%, contro il 2,3 indicato a ottobre, grazie anche agli incentivi pubblici. Questo rischia però di aggravare la situazione delle finanze: manca ancora a Washington, dice Blanchard, una strategia credibile di risanamento.
L'Europa resta il vagone più lento del convoglio, con una crescita attorno all'1,5%, o poco al di sopra, per il 2010 e il 2011. Anche qui poi le velocità sono diverse, con la Germania che tira e la periferia che arranca. I problemi del debito pubblico dei paesi periferici e le potenziali ripercussioni sui sistemi bancari (e viceversa) sono al centro delle preoccupazioni dell'Fmi.
L'altro principale elemento di tensione è il boom dei prezzi delle materie prime. Meno grave di quanto si dica, secondo Blanchard, per quanto riguarda i prodotti alimentari, in quanto in parte determinato da fattori climatici che dovrebbero rientrare. Più preoccupante il fronte energetico, dove la domanda di petrolio in aumento e l'inatteso incremento dei consumi del 2% nella seconda metà del 2010 hanno portato un balzo delle quotazioni del 10%. Una ripresa globale più vigorosa porterà a prezzi stabilmente più alti, ha osservato Blanchard.
LO SCENARIO
La crescita mondiale
Nelle nuove previsioni del Fondo monetario internazionale, l'economia mondiale crescerà del 4,5% nel 2011
A fare da traino saranno i paesi emergenti (6,5%), mentre la crescita delle economie industrializzate è lenta (2,5% rispetto al 3% del 2010) e non sarà sufficiente, secondo il Fondo, a riassorbire la disoccupazione generata dalla recessione
Fanalino di coda l'Eurozona, che crescerà solo dell'1,5%
I mercati finanziari
Proprio l'Europa preoccupa il Fondo monetario internazionale per l'intreccio tra crisi del debito pubblico e difficoltà del sistema bancario, un connubio che potrebbe contagiare i mercati finanziari e minacciarne la stabilità
Il Fondo chiede ai governi dell'Eurozona di potenziare il fondo salva-stati Efsf e di sottoporre gli istituti di credito a stress test più severi
Il rischio per gli emergenti
Queste economie corrono il pericolo di surriscaldarsi. I fondamentali economici positivi, in un contesto di bassi tassi d'interesse nelle economie avanzate, spostano verso questi paesi enormi flussi di capitali: questi, secondo l'Institute of International Finance (l'associazione delle grandi banche), supereranno i mille miliardi di dollari nel 2012. L'Fmi raccomanda misure prudenziali per scongiurare bolle speculative.
2. È l'ora di sostenere la Banca centrale. Riccardo Sorrentino. L'ondata è arrivata. Il rincaro di prodotti alimentari ed energia (e delle materie prime), sulla spinta dei paesi emergenti surriscaldati, ha varcato gli oceani. È qui, ormai, e minaccia di far accelerare l'inflazione di Eurolandia. La Banca centrale europea ha già lanciato l'allarme. Non interverrà subito: questi prezzi non sono gestibili con la politica monetaria, la domanda è così rigida (oltre che globale) che alzare i tassi ora avrebbe il solo effetto di far arenare la ripresa. Il presidente della Bce Jean-Claude Trichet - come già nel 2008 - teme però gli effetti ritardati, soprattutto le ricadute sugli stipendi che potrebbero spingere al rialzo anche tutti gli altri prezzi. In ogni caso è debole, a differenza di quanto accadde tre anni fa, la crescita di moneta e credito. Passerà quindi un po' di tempo prima della stretta: gli analisti si aspettano un aumento dei tassi a giugno, o forse tra ottobre e novembre.
La Bce ha già affrontato questo tipo d'inflazione, più insidiosa. Questa volta però c'è qualcosa di nuovo, che inquieta: la crisi dei debiti pubblici rende più doloroso il rialzo del costo del credito. Gli effetti potrebbero essere dirompenti per alcuni governi, e i banchieri centrali potrebbero trovarsi in imbarazzo: in fondo, stanno preparando un rialzo dei tassi proprio mentre acquistano i titoli di stato delle economie in difficoltà mantenendone bassi i rendimenti.
Le due cose - Trichet lo ripete fino alla noia - rispondono a obiettivi diversi: il costo del credito serve per stabilizzare i prezzi, gli acquisti di bond per mantenere funzionante il meccanismo che trasmette la politica monetaria all'economia reale. Le due leve possono quindi essere usate indipendentemente, ha spiegato il presidente. Nulla garantisce però che i due obiettivi non possano entrare in conflitto, come a volte accade per crescita e stabilità dei prezzi.
La Bce potrebbe essere costretta a trovare un equilibrio difficile, a fare scelte di compromesso. Muovendosi oltretutto in un campo di forze molto teso. Le famiglie saranno alle prese con una forte redistribuzione dei consumi (e dei redditi) causata dai rincari di alcuni beni: gli economisti parlano pudicamente di "variazione dei prezzi relativi", ma la sostanza può essere dura quanto l'inflazione. In alcuni paesi saranno anche stremate dalla disoccupazione e dai sacrifici per le manovre fiscali. In ogni caso, difficilmente potranno "recuperare" il caro-vita con salari più alti. Le aziende vedranno intanto aumentare i costi del credito, e forse lo stesso cambio dell'euro, insieme a quelli delle materie prime. Gli investitori rivaluteranno poi, nelle nuove condizioni, la sostenibilità dei debiti pubblici.
Cosa faranno allora i governi? Un vecchio riflesso li spingerà a protestare contro le politiche antinflazionistiche. Sembra già di sentirli... Trichet è stato chiaro: la Bce è pronta ad affrontare anche queste pressioni. È indubbio però che in una situazione così complicata occorrerebbe invece - come avviene altrove - sostenere la Banca centrale. Con le parole e con scelte intelligenti: non solo politiche attente alla stabilità dei conti, all'innovazione e all'aumento della produttività (che richiede investimenti anche in beni pubblici); ma anche con una migliore difesa degli interessi europei.
Perché questa inflazione è alimentata soprattutto dalla politica monetaria degli Usa e dalla strategia mercantilista della Cina, e ha precise responsabilità internazionali (anche europee...). Molte sono le cose da proporre: per esempio l'abbassamento dei dazi industriali nei paesi emergenti, la rivisitazione delle politiche agricole, l'apprezzamento dello yuan, politiche economiche più attente e forse - tema poco esplorato - una marcia indietro sulla creazione di monopoli attraverso la proprietà intellettuale, ormai freno all'innovazione. Occorrerà farlo in modo nuovo per l'Europa: con voce forte e unica. L'alternativa è quella di diventare la valvola di sfogo delle tensioni economiche del mondo: subalterni, insomma, alle decisioni altrui.
RINCARI E RICETTE
IL TIMORE
Il rincaro di energia, prodotti alimentari e materie prime sta già alimentando l'inflazione in Eurolandia
L'ALLARME
La Banca centrale ha già avvertito dei rischi: gli effetti ritardati dei rincari imporranno una stretta
IL DILEMMA
La Bce prepara un rialzo dei tassi mentre acquista i bond dei paesi deboli per tenerne bassi i rendimenti
I GOVERNI
Mai come in questo caso c'è il rischio che il mondo politico faccia pressioni perché la Bce rinunci ad alzare i tassi
L'ALTERNATIVA
L'inflazione ha cause globali che richiedono da parte europea una difesa forte dei propri interessi
3. Il Pil britannico torna a scendere. Nicol Degli Innocenti. LONDRA. Il governo dice che è tutta colpa della neve, l'opposizione dice che è tutta colpa del governo. Per i pessimisti è la prova che la Gran Bretagna è condannata a una doppia recessione, mentre gli ottimisti si limitano a chiedere tempo. Per tutti l'annuncio ieri che il prodotto interno lordo britannico ha subìto una contrazione dello 0,5% negli ultimi tre mesi del 2010 è stato uno shock.
Le previsioni erano di un calo rispetto al +0,7% registrato nel terzo trimestre ma comunque di una lieve ripresa dell'economia, non di un brusco rallentamento. La notizia del primo calo del Pil dal 2009 ha fortemente indebolito la sterlina, che ha perso terreno contro euro, dollaro e franco svizzero, ha fatto scendere i rendimenti dei titoli di Stato e ha scosso i mercati finanziari europei.
Le cifre rese note dal'Office of National Statistics (Ons) sono «indubbiamente deludenti», ha ammesso il cancelliere dello Scacchiere George Osborne, che però ha puntato il dito contro il «terribile maltempo di dicembre» e ha assicurato che «il governo non cambierà rotta, non se ne parla neanche di cambiare un piano di bilancio che ha ristabilito la credibilità internazionale a causa di un mese particolarmente freddo, perché questo farebbe di nuovo precipitare la Gran Bretagna in una crisi finanziaria». Ministri conservatori e liberaldemocratici si sono schierati sulla stessa linea, presentando un fronte unito.
A confortare la tesi della coalizione al governo, l'Ons ha fatto sapere che sul dato del Pil ha pesato molto il settore edilizio che ha subìto una contrazione del 3,3% a causa delle nevicate che hanno bloccato i lavori. Calo dello 0,5% anche per il cruciale settore dei servizi, che rappresenta il 76% dell'economia, mentre il risultato migliore è stato quello del settore manifatturiero, che ha registrato una crescita dell'1,4 per cento. Anche se i dati sono preliminari e potranno essere rivisti, l'Ons ha comunque calcolato però che anche non tenendo conto degli effetti del maltempo la crescita sarebbe stata piatta.
L'opposizione laburista certo non crede a un'anomalia legata al maltempo. «Stiamo vedendo - ha detto il nuovo cancelliere ombra Ed Balls - i primi segnali dell'effetto che le decisioni del governo guidato dai conservatori stanno avendo. Il fatto è che tagli troppo profondi e troppo rapidi danneggiano l'economia, e la crescita in calo e la disoccupazione in aumento non sono solo negativi per le famiglie ma ostacolano anche la riduzione del deficit». L'economia si è fermata, secondo Balls, e può ripartire solo se il governo farà marcia indietro: «Schiacciare il freno non è una politica economica credibile».
Al di là delle opinioni divergenti, resta il fatto che la crescita reale è nella migliore delle ipotesi piatta proprio in un momento in cui l'impatto dei tagli alla spesa pubblica e delle misure di austerità imposte per ridurre il deficit cominciano a farsi sentire. Questo mese è scattato l'aumento dell'Iva al 20%, mentre continuano ad aumentare i prezzi di energia, benzina e generi alimentari. L'inflazione a dicembre è schizzata al 3,7%, ben oltre il tasso programmato del 2%, aumentando le pressioni sulla Banca d'Inghilterra a intervenire.
La prospettiva di un aumento dei tassi, attualmente allo 0,5%, si è però drasticamente ridotta in seguito alla nuova contrazione dell'economia. «La Banca centrale probabilmente non alzerà i tassi fino a fine anno, data la minaccia che la stretta fiscale rappresenta per una ripresa già molto fragile», ha previsto Howard Archer, chief economist di Ihs Global Insight. Il governatore Mervyn King in un discorso ieri sera ha difeso l'operato della Bank of England, ricordando che deve avere un'ottica di medio-lungo termine. «L'economia britannica - ha detto - è in grado di tornare a una crescita sostenibile nei prossimi anni. Certamente ci saranno venti contrari, ma abbiamo impostato la rotta giusta ed è importante mantenerla».
Sul breve termine però in un quadro di consumi in calo, disoccupazione in aumento e forti tagli alla spesa pubblica è difficile immaginare una ripresa improvvisa. «Anche senza l'impatto del tempo il quadro della crescita - ha commentato Jonathan Loynes, chief european economist di Capital Economics - è molto più debole del previsto. La crescita resterà debole per tutto il 2011: prevediamo un aumento del Pil intorno all'1,5%».
4. La neve di Davos e il fuoco di Basilea. Facce più distese e aria da scampato pericolo fra i banchieri che da oggi affolleranno come negli anni d'oro piste da sci, appuntamenti mondani e tavole rotonde del Forum di Davos. A dispetto del tema generale «Regole condivise per la nuova realtà», nelle occasioni ufficiali si parlerà in questi giorni più dell'incremento record dei prezzi delle materie prime, dell'annoso problema dei debiti sovrani che della questione della solidità del sistema finanziario. I big della finanza potranno quindi evitare di difendersi a tutti i costi e dedicarsi quasi a tempo pieno alla clientela. Sotto la cenere, però, il fuoco di Basilea 3 cova ancora, anche perché sono diversi i nodi da sciogliere nei prossimi mesi. Prima fra tutte la questione della scelta delle banche di interesse sistemico, le "too big to fail" che dovranno rispettare requisiti di capitale più stringenti. Le candidate a rivestire questo ruolo così poco invidiato avranno il loro da fare in questi giorni nell'intessere rapporti con il Financial stability board e le autorità di vigilanza nazionali chiamate a prendere una decisione. Se il conto da pagare dovesse rivelarsi salato, l'alternativa sarebbe la scelta fra mettere ancora mano alle tasche del portafoglio per ricapitalizzare oppure rivedere i criteri per concedere il credito a famiglie e aziende. In entrambi i casi non sarebbe un bel segnale per la ripresa che verrà.
5. I nodi di Basilea 3 e i timori dei banchieri. Maximilian Cellino. Tira un'aria diversa quest'anno a Davos. Il vento che soffia giù dai picchi innevati che circondano la fascinosa cittadina elvetica è sicuramente più salutare per i banchieri di tutto il mondo, che quest'anno tornano protagonisti della kermesse con i loro cocktail e ricevimenti. Soltanto due anni fa, a pochi mesi del crack-Lehman, di uomini dell'alta finanza (specialmente da Oltreatlantico) ne erano giunti ben pochi nel Canton Grigioni.
E se 12 mesi fa qualcuno, in punta di piedi, si era ripresentato alla platea del World Economic Forum, il 2011 sarà l'anno del ritorno in pompa magna per i numeri uno delle banche, stavolta più dediti alla caccia di nuovi clienti che impegnati a difendersi dalle accuse verso l'industria. L'atmosfera da scampato pericolo è appunto testimoniata dagli appuntamenti mondani già fissati, come l'aperitivo di Jp Morgan al Kirchner Museum o la cena di Bank of America allo Steigenberger Grandhotel Belvedere.
Tutto come tre anni fa, insomma, o quasi. Perché se è vero che gran parte della rivoluzione di Basilea 3 è stata diluita nel tempo, non c'è dubbio che il peso delle norme che disegnano i nuovi standard di capitale per gli istituti di credito, pur attutito, si farà sentire. In uno studio che sarà presentato proprio oggi in occasione del Forum, Oliver Wyman stima in 577 miliardi di euro l'ammontare necessario per riportare a norma i ratio patrimoniali delle principali banche mondiali. Non si tratta quindi proprio delle proverbiali noccioline. Ma il problema è che il conto potrebbe non essere esaustivo, perché tra le tante questioni ancora da completare attorno a Basilea 3 resta la definizione della lista delle banche di importanza sistemica, quelle troppo importanti per fallire che saranno chiamate a rispettare criteri di solidità ancora più stringenti e che per questo dovranno migliorare ulteriormente la struttura del capitale.
Il tema delle Sifi, le Systematically important financial institution, sarà centrale per il resto del 2011, fino a che il Financial Stability Board e le autorità di vigilanza nazionali non stileranno griglia e requisiti da rispettare: ben lo sanno UniCredit e Intesa Sanpaolo, le candidate italiane a far parte di questa stretta cerchia. Basilea 3 non sarà forse all'ordine del giorno delle tante conferenze di oggi e dei prossimi giorni, ma tra una discesa con gli sci, una tavola rotonda e un cocktail non mancherà di sicuro il tempo per un po' di sana attività di lobbying sul tema.
6. Il tema di Davos: gli squilibri globali
ECCESSO DI DEBITO E RISCHIO DI CONTAGIO
Il grafico a fianco mostra il rischio di contagio finanziario causato dall'eccesso di debito. Come si vede dall'ampiezza delle palle, Stati Uniti ed Eurozona hanno gli stock di debito più elevati. Gli Usa, però, rappresentano un rischio di contagio mondiale maggiore. Per due motivi: il loro debito è meno sostenibile a livello locale e il loro sistema finanziario è maggiormente intreconnesso col resto del mondo. Questo significa che gli Usa sono più instabili e più in grado di contagiare altri paesi. Simile anche la situazione della Gran Bretagna. Il Giappone ha invece un debito insostenibile, ma ha un grado di interconnessione minore. L'Eurozona è messa meglio, ma nel suo interno lo studio evidenzia le posizioni critiche di Irlanda, Portogallo e Grecia.
DOMANDA DI CREDITO VS EVOLUZIONE DEL SISTEMA FINANZIARIO
Il grafico a fianco mette insieme due elementi chiave per lo sviluppo del credito (e dunque della crescita economica) nei prossimi anni: la domanda di credito e la capacità del mercato dei capitali di erogarlo. La tesi del grafico è semplice: i paesi dove il sistema economico avrà maggiore necessità di credito (Argentina in primis) sono i paesi dove il mercato dei capitali è meno sviluppato. Insomma: dove c'è necessità di credito, non ci sono gli strumenti adeguati per erogarlo. Viceversa in paesi come l'Irlanda non c'è domanda di credito da qui al 2020, ma c'è un mercato dei capitali molto sviluppato: hanno gli strumenti ma non la domanda.
L'AGENDA DI DAVOS
Alla ricerca di regole condivise
Dalle materie prime ai debiti sovrani
Tra i leader Merkel
Dall'Italia politici industrali e banchieri
Parte oggi fino a domenica la 41° edizione del World economic forum a Davos. Il tema di quest'anno è «Regole condivise per la nuova realtà». Nell'arco di cinque giorni - dal 26 al 30 gennaio - oltre 2.500 leader mondiali dell'economia, della politica, della società civile, dell'università e della cultura cercheranno di ristabilire la fiducia dopo la crisi finanziaria. Il fondatore del Wef Klaus Schwab ha detto che la priorità è quella di evitare che la crisi globale finanziaria e la successiva economica si trasformi in una "crisi sociale " come avvenuto in Grecia o Tunisia.
Al vertice del gotha politico e finanziario mondiale si parlerà dell'allarme lanciato dalla Fao sull'incremento record dei prezzi alimentari, dell'aumento demografico, dell'uso di cereali per produrre bio-fuel, di cambiamenti climatici. Si discuterà della nuova architettura finanziaria, dei debiti sovrani, dei flussi finanziari che da Stati Uniti ed Eurozona vanno in cerca di tassi di rendimento più redditivi nei mercati emergenti provocando aumento della valute locali, calo dell'export e incremento del deficit delle partite correnti.
Il segretario al Tesoro, Timothy Geithner, con un deficit commerciale con la Cina di 280 miliardi di dollari e un debito pubblico che corre senza freni, cercherà di rassicurare i partner. A sostenere gli sforzi di Washington negli incontri informali ci saranno il cancelliere tedesco Angela Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy e il premier britannico David Cameron. A rappresentare i Bric ci saranno tra gli altri Chen Deming, il ministro al Commercio cinese, Antonio De Aguiar Patriota, ministro degli Esteri del Brasile e Chanda Kochhar, a capo della Banca indiana Icici
Nutrita la presenza italiana: ci saranno il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Incerta la presenza del governatore di Bankitalia Mario Draghi. Tante, invece, le presenze italiane sul fronte aziendale: si va dalle grandi banche (Unicredit sarà a Davos con l'ad Federico Ghizzoni, Banca Intesa Sanpaolo sarà rappresentata da Corrado Passera) all'energia con Paolo Scaroni (amministratore delegato dell'Eni) e Roberto Poli (il presidente del cane a sei zampe)
7. Credito e crisi, parola a Davos. Morya Longo. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno un debito troppo elevato, che rappresenta «un pericolo potenziale in termini di sostenibilità e di contagio nel mondo». Altri paesi – come Argentina, India e Russia – hanno invece un sistema economico bisognoso di credito, ma hanno un mercato finanziario ancora poco sviluppato per erogarlo. Morale: il problema attuale non è l'eccesso di debito complessivo a livello mondiale, ma il fatto che è concentrato tutto in poche aree geografiche. Nel prossimo decennio, dunque, i crediti potranno aumentare in modo sostenibile a livello globale, passando dagli attuali 109mila miliardi di dollari a un massimo di 213mila miliardi, a patto che si sviluppino in nuove aree geografiche. Quelle tenute fino ad oggi ai margini.
Se serviva il sigillo definitivo, eccolo servito.
Il World economic forum che inizia oggi nella città svizzera di Davos – dove come di consueto si riuniranno i protagonisti mondiali dell'economia, della politica e della finanza – si apre con uno studio che certifica nero su bianco che il mondo è diviso in due: da un lato Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Grecia che hanno abusato del credito per un decennio, dall'altro i paesi emergenti che sono rimasti a secco. Lo studio – realizzato da McKinsey e World economic forum – afferma che una crescita «sostenibile e responsabile» del credito è ancora possibile nel prossimo decennio. Anzi: «È essenziale se si vuole favorire lo sviluppo economico». Ma per raggiungere questo obiettivo i leader del mondo «devono intraprendere decise azioni». Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare lo studio. Ai grandi del mondo il compito di farne tesoro.
Debito o non debito?
Il documento parte da un dato di fatto: dal 2000 al 2009 il credito complessivo erogato a livello mondiale è passato da 57mila miliardi di dollari a 109mila miliardi. Una crescita del 7,5% annuo. Nello stesso arco di tempo, il Pil mondiale si è sviluppato più lentamente di quasi due punti percentuali l'anno: questo – sentenzia McKinsey – «non rappresenta di per sé una crescita insostenibile della leva finanziaria». Quello che rischia di essere insostenibile, però, è la impari distribuzione geografica di questo debito: se in alcuni paesi (per esempio Irlanda, Spagna e Grecia) c'è «un chiaro allarme di eccesso di credito», in altri ce n'è troppo poco. Un dato, più di tutti, lo dimostra: nei paesi emergenti, il 90% delle piccole aziende ha uno scarso accesso ai finanziamenti.
Ecco perché lo studio afferma che nel prossimo decennio c'è spazio per una nuova espansione – sostenibile e responsabile – del credito: nel 2020, ipotizzando tre diversi scenari, il livello di credito mondiale potrà raggiungere i 196mila miliardi (ipotesi più conservativa), i 220mila miliardi (ipotesi media) o addirittura i 213mila miliardi (ipotesi ottimistica). Insomma: partendo dai 109mila miliardi del 2009, si tratta di un raddoppio. Ma questa espansione dovrà partire dagli stati che, fino ad oggi, hanno avuto poco: l'Argentina è la prima della lista, con la maggiore domanda di credito privato da qui al 2020. Poi c'è l'India, la Russia, il Messico, il Brasile, la Cina, la Polonia, il Sud Africa, la Malesia e la Thailandia.
Mondo diviso in due
Il problema è che i paesi emergenti hanno un sistema finanziario ancora inadeguato. Si pensi che, a livello mondiale, ancora 2,5 milioni di adulti non hanno neppure un conto corrente. «La sfida più significativa – scrive dunque McKinsey – sarà di integrare queste persone nel sistema bancario». Purtroppo le lacune, nei paesi emergenti, riguardano anche le imprese. McKinsey sostiene che il credito, da qui al 2020, sarà in parte erogato dal mercato dei capitali (attraverso obbligazioni): il problema è che i paesi che più avranno bisogno di credito hanno un mercato finanziario ancora troppo arretrato. D'altro canto le banche faticheranno ad erogare gli importi che verranno loro richiesti (27,7mila miliardi solo in Asia, di cui 18,7 nella sola Cina): per sopportare questo sforzo – sentenzia McKinsey – le banche dovranno ricapitalizzarsi di circa 9mila-9.500 miliardi di dollari.
Mission impossible?
Se alcuni paesi hanno i denti ma non il pane, altri di pane ne hanno fin troppo. E rischiano di contagiare, con la loro indigestione, il resto del mondo. È il caso degli Stati Uniti: con un debito privato pari a 11mila miliardi di dollari (circa 50mila per persona) e con un sistema finanziario interconnesso con quello del mondo intero, gli Usa rappresentano «un potenziale elemento di contagio». Il debito è più insostenibile in Giappone, ma dato che quella nipponica è un'economia più isolata, il rischio di contagio è limitato. La morale dello studio è una sola: si può ancora crescere con la benzina del credito, purché sia erogato con raziocinio. «Questo richiederà scelte difficili ai leader mondiali – si legge in conclusione dello studio –: un impegno comune verso la trasparenza, verso le analisi basate sui fatti, verso la collaborazione e l'innovazione aiuterà ad assicurare che la crescita del credito supporti l'espansione economica».
m.longo@ilsole24ore.com
8. Tutti in coda per il bond Ue. 26 gennaio 2011. Un successo «storico», secondo le banche capofila del collocamento, per la prima emissione del bond europeo dell'Efsf, il fondo creato l'anno scorso per gli stati in crisi di liquidità. L'obbligazione ha un importo di 5 miliardi di euro, una durata di cinque anni e un rendimento lordo del 2,89%. La somma è destinata all'Irlanda, che sulla stessa scadenza per un prestito a tassi di mercato ieri avrebbe dovuto pagare il 7,58%. Gli ordini di acquisto sono stati di ben nove volte superiori all'offerta (hanno raggiunto i 45 miliardi), provenienti da tutto il mondo e in particolare dall'Asia. Anche il rendimento offerto, considerato piuttosto generoso (56 centesimi sopra i corrispondenti titoli tedeschi), ha contribuito al grande successo dell'emissione. Notizie meno buone per l'Europa arrivano invece dal fronte congiunturale: nel quarto trimestre il Pil del Regno Unito è sceso a sorpresa dello 0,5%, con un immediato impatto negativo sulla sterlina e sulle borse europee, ieri tutte in calo.
9. Il bond salva-euro fa il pieno. Isabella Bufacchi. ROMA. Il primo prototipo degli e-bond, il primo titolo di debito europeo garantito direttamente dagli stati membri dell'Eurozona e test di strumento alternativo al titolo di stato nazionale in euro, è stato collocato ieri dall'Efsf per cinque miliardi di valore, con un rendimento lordo del 2,89% sulla durata dei cinque anni: questa somma è destinata totalmente a finanziare l'Irlanda, che sulla stessa scadenza per un prestito dal mercato ieri avrebbe pagato il 7,58 per cento.
Il debutto dell'Efsf, un inedito meccanismo di salvataggio degli stati di Eurolandia in crisi di liquidità, è stato definito un successo di portata storica dalle banche capofila Citi, SocGen, Hsbc: gli ordini di acquisto hanno raggiunto dimensioni faraoniche, pari a 45 miliardi, nove volte l'importo offerto, provenienti da 500 investitori istituzionali in tutto il mondo, prevalentemente dall'Asia. Molti portafogli asiatici hanno varcato per la prima volta la soglia dell'Eurozona o sono tornati dopo una lunga assenza, hanno spiegato fonti vicine al collocamento. Il 20% è stato acquistato dal Giappone e il 38% da tutta l'Asia. L'Italia ha pesato per il 2% circa mentre i risparmiatori avrebbero partecipato per l'1% attraverso il private banking.
«L'emissione Efsf è stata un enorme successo che non ha precedenti. La qualità e la natura degli ordini è di portata storica», ha detto Zeina Bignier, global head of public sector origination di Société Générale Corporate & Investment Banking. «L'ottima accoglienza sul mercato degli Efsf-bond - ha aggiunto - è anche un successo per il sistema monetario perché riconosce l'importanza di questo strumento e delle misure adottate dall'Eurozona per affrontare le difficoltà emerse durante la recente crisi». Per il numero uno dell'Efsf, il tedesco Klaus Regling, l'enorme interesse manifestato dagli investitori ha confermato «la fiducia nella strategia adottata dell'Eurozona per ripristinare la stabilità finanziaria».
La calda accoglienza riservata a questa operazione, un esperimento che è stato interpretato dagli operatori come un collaudo per la creazione del debito pubblico europeo, è stata salutata come un atto di rinnovata fiducia a favore dell'euro. Ma la prudenza è d'obbligo in un mercato, quello dei titoli di stato dell'Eurozona, soggetto da mesi a una straordinaria volatilità e a repentini sbalzi umorali degli investitori, che alternano la fede nel futuro della moneta unica al terrore dello smantellamento dell'Unione monetaria provocato dall'uscita di stati in bancarotta.
I primi bond dell'Efsf sono andati letteralmente a ruba, e questo è indubbio. Ma l'ondata degli acquisti è dipesa anche da fattori tecnici rilevanti, non solo da un atto di fiducia. L'effetto-rarità ha un grosso peso: agli investitori è stato detto che l'Efsf emetterà 26,5 miliardi in due anni, di cui circa 17 quest'anno. Nel 2011 i titoli benchmark di questo nuovo veicolo potrebbero essere soltanto tre: il primo, di regola, è quello che paga di più per attrarre interesse e conquistare la scena. Così ieri il primo Efsf non è stato di certo "tirato" nelle condizioni ma sufficientemente generoso, per garantire il successo: il bond è stato offerto al 2,892%, un rendimento equivalente a 6 centesimi di punto percentuale sopra il tasso swap e quindi 56 centesimi sopra i titoli tedeschi a cinque anni. Questo spread è destinato a restringersi nei prossimi giorni secondo gli addetti ai lavori (già ieri sera sulle prime quotazioni del mercato grigio il margine sullo swap era pari a un centesimo): ma secondo alcuni trader il fatto che gli ordini siano stati oltre nove volte l'importo in offerta avrebbe potuto consentire un tasso più vantaggioso per il debitore. La Germania è contraria agli e-bond (emissioni di debito europeo al posto di quello nazionale) proprio perché non intende finanziarsi a un tasso d'interesse molto più elevato di quello dei suoi titoli di stato. Per Silvio Peruzzo di Rbs «in questo momento di incertezza sui mercati del debito, una domanda così significativa conferma che l'appetito per carta AAA denominata in euro resta molto elevato». Tuttavia la quantità emessa dall'Efsf è stata modesta ed è possibile che alcuni investitori decidano di disinvestire dai titoli di stato dell'Eurozona "semi-core" dove si trovano Italia e Belgio per fare spazio in portafoglio alle emissioni dell'Efsf che rendono più della Germania ma sono considerate super-sicure, anche se molto meno liquide rispetto alle emissioni tedesche, francesi e italiane.
10. Buona la prima per il bond europeo. Il nuovo meccanismo di salvaguardia della stabilità finanziaria dell'euro e dell'eurozona, l'impronunciabile European financial stability facility o Efsf, piace al mercato. A giudicare dall'esito del debutto del suo primo bond quinquennale, questo veicolo entusiasma gli investitori: dei 5 miliardi di titoli in offerta, ne sono stati richiesti 45. Di certo gli investitori più prudenti, anche i risparmiatori, preferiscono acquistare un nuovo E-bond di un emittente AAA garantito da 17 paesi, titoli che rendono lo 0,50% più di quelli tedeschi, piuttosto che mettere in portafoglio i bond greci, portoghesi o irlandesi contrassegnati dall'escalation di deficit/Pil e debito/Pil. Il successo degli Efsf-bond non è però un punto di arrivo ma di partenza: l'eurozona deve portare a termine il percorso virtuoso appena iniziato di consolidamento dei conti pubblici, di rilancio dello sviluppo e della competitività e di maggiore armonizzazione della disciplina di bilancio degli stati membri dell'unione monetaria. Il veicolo Efsf stesso, divenuto meccanismo permanente, dovrà fortificarsi per poter sbarrare sul nascere qualsiasi crisi futura ed evitare che le nuove clausole di default inserite nei prospetti dei titoli di stato europei vengano subito messe alla prova.
11. Tutti in coda per il bond Ue. Un successo «storico», secondo le banche capofila del collocamento, per la prima emissione del bond europeo dell'Efsf, il fondo creato l'anno scorso per gli stati in crisi di liquidità. L'obbligazione ha un importo di 5 miliardi di euro, una durata di cinque anni e un rendimento lordo del 2,89%. La somma è destinata all'Irlanda, che sulla stessa scadenza per un prestito a tassi di mercato ieri avrebbe dovuto pagare il 7,58%. Gli ordini di acquisto sono stati di ben nove volte superiori all'offerta (hanno raggiunto i 45 miliardi), provenienti da tutto il mondo e in particolare dall'Asia. Anche il rendimento offerto, considerato piuttosto generoso (56 centesimi sopra i corrispondenti titoli tedeschi), ha contribuito al grande successo dell'emissione. Notizie meno buone per l'Europa arrivano invece dal fronte congiunturale: nel quarto trimestre il Pil del Regno Unito è sceso a sorpresa dello 0,5%, con un immediato impatto negativo sulla sterlina e sulle borse europee, ieri tutte in calo.
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