Cofa/Caoc5 ha il controllo delle linee aere avanzate:
L'alba di un'Odissea.
AAA cercasi leader per un'Odissea.
Re Sole Sarkozy e i pianeti attorno.
Gli interessi nazionali e le ipocrisie.
Libia: Frattini, "comando Nato o ne valuteremo uno nazionale".
Libia: Frattini, comando a nato e' questione di serieta'.
La Coalizione perde pezzi.
Il bipolarismo all'italiana senza politica estera.
Stati Uniti pronti a ridimensionare l'impegno militare.
Ma il Raiss non può scamparla.
Parisi: «Italiani confusi dal repentino voltafaccia del governo sul rais»
Ferrara. «La verità è che si lotta per il petrolio».
Cerimonie trasversali.
Napolitano, federalismo sia condiviso.
Parmalat, il made in Italy merita di essere difeso.
Forza Oltrepadani:
Bozen. I bolzanini: «Hanno rimediato alla figuraccia del 17 marzo».
Bozen. Unità d'Italia, la vera festa è arrivata: mille persone alle cerimonie trasversali.
Bozen. Unità d'Italia, Salghetti: gli italiani hanno dato un segnale
Bressanone. Pürgstaller: pochi tricolori in città.
Friuli venezia Giulia. Rivolta al Cie: militari feriti e sei immigrati sono fuggiti.
Appendicite padana:
Treviso, Rovigo e Chioggia nervi tesi tra Lega e Pdl.
Padova. «Salveremo 700 posti di lavoro».
Mantova. Aggredito de Marchi. Via la pochette verde «Sei leghista, fuori».
L'alba di un'Odissea. Dopo il voto favorevole del Consiglio di Sicurezza (Cds) dell'Onu alla risoluzione 1973, è iniziato sabato scorso l'intervento militare contro la Libia, cui stanno partecipando fra gli altri Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Italia e Qatar. Gli Usa hanno ribattezzato il loro coinvolgimento "Operazione Odyssey Dawn" (Odissea all'alba): il nome rischia di essere tristemente profetico, per una serie di ragioni.
Il Consiglio di Sicurezza si è spaccato al momento del voto, con solo 10 Stati su 15 favorevoli alla risoluzione - che autorizza la no-fly zone, rafforza l'embargo sulle armi e il congelamento degli asset già deciso in precedenza, e soprattutto permette di intraprendere "tutte le misure necessarie" a proteggere i civili. A votare contro, oltre alla Germania pacifista per convenienza elettorale, i Bric (Brasile, Russia, India, Cina), potenze emergenti che possono beneficiare della loro contemporanea presenza in Cds per proporre la loro agenda.
I Bric non sono un monolite e non tutti i loro obiettivi sono compatibili, ma in quest'occasione hanno saputo marciare e colpire uniti. Considerando che il mondo, oltre che il Medio Oriente, è pieno di despoti che perpetrano ai danni delle loro popolazioni violazioni simili a quelle di Gheddafi, è immaginabile che molti di questi saranno più disponibili a dialogare e fare affari con i Bric piuttosto che con le potenze occidentali - come ha implicitamente fatto notare il ministro del Petrolio di Tripoli.
Le prime spaccature emergono anche all'interno del fronte che ha sostenuto la risoluzione: la Lega Araba, fra le più esposte a favore della no-fly zone due settimane fa, ha criticato i primi bombardamenti, come del resto l'Unione Africana. Gli Stati Uniti, la cui incertezza dall'inizio della crisi libica ha destato molte perplessità, appaiono divisi e ansiosi di condividere le responsabilità, possibilmente anche con la Nato, che però ha bisogno del voto unanime dei suoi membri; al riguardo Turchia e Germania sono scettiche, come del resto la Francia. Senza nulla togliere al consueto sciovinismo francese, Nicolas Sarkozy sta cercando di assumere la leadership di quest'operazione anche a fini elettorali: spera che un esito positivo in tempi rapidi possa essere apprezzato dall'opinione pubblica e monetizzato alle elezioni presidenziali dell'anno prossimo.
L'obiettivo militare immediato è quello di stabilire una no-fly zone, ma la risoluzione Onu e la risolutezza di Parigi, Londra e parte di Washington (l'area della Casa Bianca) sembrano ambire a qualcosa di più: la fine dell'era di Gheddafi. Una missione di questo tipo militarmente non può essere portata a termine senza un blocco navale e l'intervento di truppe sul terreno - un'ipotesi non pianificata nè facilmente vendibile alle opinioni pubbliche, che già hanno difficoltà a comprendere come i loro interessi nazionali siano tutelati dalla guerra di Libia. Si spera in alternativa che un breve periodo di intensi ed efficaci bombardamenti spinga il Colonnello a cedere.
Le truppe governative hanno riconquistato gran parte del paese, e il Qaid sta dando prova di spietata tenacia. La sua resa non appare al momento vicina, ed è lecito immaginare che qualora arrivasse possa essere preceduta da colpi di coda di ogni tipo.
Se anche il libro dei sogni della coalizione riuscisse a trasformarsi in cronaca, rimarrebbe da stabilire con chi dialogare dopo: i pochi volti noti fra i "ribelli" sono ex esponenti del regime, poco adatti a recitare il ruolo di campioni della democrazia. Per il resto la Libia è un paese in cui le divisioni tribali continuano ad avere un peso preponderante nella vita sociale e politica; mancano istituzioni forti come l'Esercito egiziano. Non sarà facile trovare un interlocutore in grado di garantire quel minimo di pace sociale che tranquillizzi le coscienze occidentali, garantisca il controllo delle frontiere e si riveli un partner d'affari migliore di Gheddafi.
Questo lo stato dell'arte a Tripoli, cento anni dopo la campagna di Libia.
AAA cercasi leader per un'Odissea. di Ugo Tramballi. Va bene, ormai bisognava dare una spallata a Gheddafi; forse a un'operazione militare non c'erano più alternative. Ma in questa "Odissea all'alba" potreste almeno dirci chi comanda? "Coalizione dei volenterosi" è una buona definizione, quasi quanto il nome che qualcuno ha trovato per la missione militare. Ma sia pure a cose iniziate, è venuto il momento di chiarire chi si assume la responsabilità da adesso fino alla fine.
A prima vista la coalizione sembra un'armata Brancaleone altamente tecnologica.
Ascoltando le molte cose dette in questi giorni, è sconfortante scoprire che non c'è un vero comando militare unificato. I francesi hanno il loro, gli inglesi vanno e vengono direttamente dalle basi scozzesi. L'altro giorno da Washington il vice ammiraglio William Gortney diceva che il Pentagono è il leading edge, la guida dominante dell'«operazione multi-fase» (?). Da giorni si annuncia che, della missione, Capodichino sta per diventare il "cervello pulsante" (!). Per evitare di colpire due volte lo stesso obiettivo e le collisioni nell'affollato traffico aereo libico, un coordinamento ci sarà. Ma può bastare per arrivare alla fine dell'odissea?
E soprattutto si può vincere senza una guida politica? Dando per scontato che quel che viene venduto - «la difesa delle popolazioni civili» - non è l'unico obiettivo del conflitto, la caduta di Gheddafi richiede tempo. I modi per ottenerla sono due: un intervento molto improbabile delle truppe di terra dei volenterosi dopo i bombardamenti dal cielo o il rafforzamento militare degli oppositori di Bengasi. Ma il tempo ha bisogno di consenso, il consenso di una forte motivazione politica, la motivazione di un leader.
La Nato potrebbe essere una sintesi militare e politica di quel che serve. Ma Nicolas Sarkozy non la vuole perché perderebbe il primato che si è preso; non la vogliono i turchi perché lo spazio vitale della loro crescita è il mondo arabo che non ama questo genere d'interventi militari. E soprattutto non la gradiscono gli americani: sia Barack Obama che Hillary Clinton hanno precisato che entro qualche giorno gli Stati Uniti faranno «qualche passo indietro». La Nato sembra dunque esclusa. Esclusa anche l'Unione Europea che, oltre all'assenza di una volontà collettiva, non ha le strutture per reggere un conflitto: è priva di una politica estera e di difesa comuni.
Sul piano politico l'elemento dominante di questa "Odissea all'alba" sembra essere il fattore elettorale. Lo è stato per Sarkozy, convinto che lanciare per primo la missione militare gli avrebbe garantito i consensi che non aveva più; lo è stato per Angela Merkel che, al contrario, ha pensato le sarebbe stato più utile non partecipare; lo è anche per Amr Moussa. Più che un segretario della Lega Araba, Moussa è ormai il candidato principale alle presidenziali egiziane. La sua titubanza fra il partecipare e l'astenersi dipende da questo: l'arabo vorrebbe disfarsi di Gheddafi, l'egiziano constata che il suo elettorato, ora libero di esprimere la sua volontà, non ama vedere stranieri in Medio Oriente.
Non ci resta dunque che l'America. Nel bene con la prima guerra del Golfo del 1990 e nel male con la seconda del 2003, solo gli americani sono stati capaci di mettere insieme e guidare coalizioni. Il mondo sta cambiando ma gli Stati Uniti sono ancora l'unica superpotenza globale: gli unici per i quali interesse nazionale è ciò che accade a migliaia di chilometri dalle loro coste. Per le altre potenze emergenti l'interesse nazionale si ferma ai confini, eventualmente ai paesi vicini e alla regione che li circonda.
Tuttavia anche Barack Obama è già in campagna elettorale: le presidenziali sono lontane ma oggi nessuno sa quanto durerà "Odissea all'alba". Forse è solo un sillogismo imperfetto: ma se votare è il punto massimo della democrazia, sarebbe curioso che l'autocrate Muhammar Gheddafi sopravvivesse a causa della democrazia.»
Re Sole Sarkozy e i pianeti attorno. Uno spettro si aggira per l'Europa. È quello del presidente francese Sarkozy, che da quando ha assunto la guida di turno di G-8 e G-20 sembra irrefrenabile. Al primo vertice economico-finanziario ha lanciato la crociata contro gli squilibri commerciali e valutari, dichiarando guerra alla speculazione. E ha ottenuto un impegno, almeno formale, a risolvere tutto. Del resto, pensare e agire in grande, da Napoleone in poi, è sempre stata prerogativa dei francesi. Allo scoppio delle rivolte in Nordafrica l'attivismo di Sarkò ha preso nuovo slancio.
Il via libera dell'Onu all'intervento in Libia, chiesto dal Libano, è frutto della diplomazia francese. I caccia in volo a tre ore dal vertice di Parigi frutto del suo decisionismo. In contemporanea, l'industria e la finanza francese si muovono con un'energia pari a quella di monsieur le président. Lactalis in corsa per Parmalat, Lvmh che conquista Bulgari, Groupama protagonista del riassetto Premafin, Edf attivissima nella partita Edison-A2A. Un caso? Può darsi. Nessuno ha trovato le impronte digitali dell'Eliseo sulle copertine dei dossier. Ma avere alle spalle uno stato forte e tutt'altro che neutrale in economia aiuta, certo che aiuta. Resta il dubbio se sia una coincidenza, o se in gioco ci sia molto di più. 22 marzo 2011
Gli interessi nazionali e le ipocrisie. L'intervento militare in Libia, da parte di una Comunità internazionale «dimezzata», solleva alcune domande di senso comune. Prima: perché si è intervenuti? Risposta: a seguito di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu proposta da Francia e Gran Bretagna e approvata con l'astensione di Russia, Cina, Germania, India e Brasile. Giuridicamente, sembra lecito qualche dubbio sul diritto di intervento nei confronti di un Paese membro delle Nazioni Unite in preda a una rivolta interna. Resta in piedi la ragione politica; che «autorizza l'impiego di tutte le misure necessarie a proteggere le popolazioni civili e le zone abitate da civili».
Fa testo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che motiva l'intervento - in contrasto col principio di sovranità sanzionato dalla pace di Westfalia che poneva fine alle guerre di religione (cuius regio, eius religio) e alle reciproche interferenze degli Stati - con le «ragioni umanitarie». Subentrano, però, due altre domande. Che senso ha intervenire contro il «tiranno» Gheddafi dopo averlo sostenuto a lungo? Perché in Libia sì e in altre parti del mondo, dove si sono consumati autentici genocidi, no?
Emergono, così, due dati di fatto. Da una parte, la crisi di leadership degli Stati Uniti dopo l'irruzione della Cina, e della «nuova Russia», sulla scena mondiale. Dall'altra, dopo la fine della Guerra fredda, il ritorno dell'«interesse nazionale» in Europa. La Gran Bretagna vuole riprendersi il ruolo, se non sulla scena internazionale, almeno su quella europea, che aveva perso con la Seconda guerra mondiale; la Francia - che, dopo i fallimenti della sua politica di sostegno a Ben Ali in Tunisia e a Mubarak in Egitto, deve ripristinare la propria influenza nell'area - punta a sostituire l'Italia nei rapporti con la Libia (dal petrolio alle relazioni economiche e commerciali) del dopo-Gheddafi, precostituendosi relazioni privilegiate con la borghesia mercatista che subentrerà al Colonnello.
Le rivolte popolari nei Paesi dell'Africa del Nord hanno messo in moto un riposizionamento delle grandi potenze regionali europee nell'area del Mediterraneo che sta relegando l'Italia in retroguardia. Prima di finire a rimorchio della Francia, e accodarsi a un intervento, ancorché inevitabile ma dal quale abbiamo tutto da perdere, sarebbe stata utile, da parte nostra, un'iniziativa diplomatica forte, come la proposta di una Conferenza dei Paesi dell'area, dalla Lega araba alle maggiori potenze europee. Ora, in quella che, per dirla con un tardo paradosso marxista, ha tutta l'aria di un'iniziativa para-coloniale, legittimata da una «guerra umanitaria» - della quale si eviterà probabilmente di fare il computo delle vittime - e condotta all'insegna di interessi nazionali accuratamente celati all'opinione pubblica da quel velo di ipocrisia che copre ogni operazione di Realpolitik, i giochi sono fatti alle nostre spalle. Siamo rimasti i soli a ritenere l'interesse nazionale un «mostro morale», e a non perseguirlo con sano realismo; incoraggiati da una cultura progressista ondivaga, che un giorno è internazionalista e l'altro nazionalista; un giorno è interventista e l'altro no. Piero Ostellino
Libia: Frattini, "comando Nato o ne valuteremo uno nazionale". 21:09 21 Mar 2011. (AGI) - Roma, 21 mar. - Se non si trovera' un accordo per un comando Nato delle operazioni militari in Libia, l'Italia prendera' in considerazione "l'idea di istituire un proprio comando nazionale separato per gestire le attivita' di comando e controllo di tutte quelle operazioni militari, in applicazione della Risoluzione 1973, che prevedono l'uso delle sette basi che il nostro paese ha messo a disposizione per la missione". Lo afferma una nota della Farnesina. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, prosegue la nota, e' tornato ad auspicare "vivamente che il comando e controllo per la conduzione di tali operazioni possa essere assunto quanto prima dalla NATO, in quanto istituzione dotata di comprovata capacita' ed esperienza per gestire tali operazioni in un contesto di pieno consenso e coordinamento multilaterale".
Libia: Frattini, comando a nato e' questione di serieta'. 09:27 22 MAR 2011
(AGI) - Roma, 22 mar. - Il comando delle operazioni militari contro la Libia "deve passare alla Nato, e' una questione di serieta', una questione altamente politica". Lo ha detto il ministro degli Esteri Franco Frattini in diretta con Radio Anch'io. "Non possiamo immaginare - ha spiegato il capo della Farnesina - che ci siano comandi separati da ciascuno dei quali dipendano alcune scelte. Mi auguro che dalla riunione di oggi del Consiglio atlantico arrivi la decisione". Il ministro ha ricordato che il premier britannico David Cameron "sostiene la posizione italiana" e ha auspicato che lo facciano "anche gli amici americani". Con una moltiplicazione di comandi, ha spiegato ancora Frattini, "ognuno vorrebbe riassumere il controllo delle operazioni". L'Italia "non si tira indietro, ma se sette basi dipendono dal controllo Nato non ho nulla da obiettare. Se cosi non fosse gli aerei che partiranno dalle basi italiane devono essere sotto un controllo di cui mi assumo la responsabilita'".
La Coalizione perde pezzi. Bruxelles, 21-03-2011. In soli tre giorni la 'coalizione dei volenterosi' si e' trasformata in una 'coalizione dei litigiosi' che sta proiettando l'ombra minacciosa delle sue divisioni sulla Nato e sugli alleati europei e inizia a perdere pezzi. Le discussioni che si susseguono non stop da una settimana al quartiere generale dell'Alleanza si sono concluse con una fumata nera. Mentre i ministri degli esteri della Ue, riuniti a Bruxelles, si sono mostrati uniti nell'imporre nuove sanzioni economiche contro il regime libico di Gheddafi, ma molto divisi su modalita' e finalita' dell'intervento militare. Pomo della discordia e' la leadership delle operazioni della missione 'Odyssey dawn' finora condotte sotto il comando di Usa, Francia e Gran Bretagna.
L'Italia reclama il passaggio in tempi molto rapidi della catena di comando sotto l'ombrello della Nato. In caso contrario, minaccia di riprendere il controllo delle sette basi militari messe a disposizione della coalizione. Parigi pero' non cede. Il ministro degli esteri francese Alain Juppe' ha dichiarato che "nei prossini giorni l'alleanza e' pronta a venire in sostegno della coalizione", ma non ha mai pronunciato la parola coordinamento ed ha ribadito che le operazioni sotto bandiera Nato non sarebbero le benvenute dai paesi arabi.
"Siamo in un'operazione voluta dalle Nazioni Unite, portata avanti da una coalizione ad hoc, e alla quale la Nato potrebbe eventualmente portare il suo sostegno", ha rincarato il generale francese Philippe Ponthies, portavoce del ministero della Difesa. "Per il momento, tenendo conto che c'e' gia' una coalizione internazionale formata non solo da paesi europei e membri della Nato, ma anche da paesi arabi, sembra che il sentimento prevalente e' che la coalizione continui", ha dato man forte il ministro degli esteri spagnolo Trinidad Jimenez, senza escludere un ruolo di sostegno della Nato. La querelle ha gia' provocato i primi danni.
La Norvegia ha annunciato oggi la sospensione della sua partecipazione alle operazioni militari in Libia finche' non sara' chiarita la questione del comando. "La partecipazione dei sei F16 norvegesi dispiegati nel Mediterraneo dovra' aspettare nuovi ordini", ha messo in chiaro il ministro della Difesa norvegese Grete Faremo. In questa confusione totale, il presidente americano Barack Obama ha cercato di fare un po' di chiarezza. "La Nato verra' coinvolta nel coordinamento" delle future operazione in Libia, ma al momento opportuno, "lascero' al capo di Stato maggiore delle Forze Armate Mike Mullen decidere" i dettagli, ha detto parlando dal Cile. "Voglio sottolineare il fatto che sara' una questione di giorni, non di settimane", ha precisato Obama.
Gli Stati Uniti hanno anche annunciato l'intenzione di ridurre presto la loro partecipazione: "saremo un partner tra i tanti", ha detto il presidente. Gia' ieri gli Usa avevano chiarito l'intenzione di cedere in tempi rapidi la leadership delle operazioni. Il capo del Pentagono Robert Gates aveva ipotizzato un comando franco-britannico. Ma anche Parigi e Londra non sembrano proprio in sintonia. "Col tempo vogliamo che il comando e il controllo dell'operazione passi alla Nato", ha detto parlando ai Comuni il premier David Cameron, distanziandosi dalla rigidita' di Nicolas Sarkozy.
Cameron non ha pero' indicato la tabella di marcia del passaggio di consegne. A sostegno della richiesta italiana si e' espresso apertamente il ministro degli esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn. "Il solo modo di impegnarsi per un paese come il Lussemburgo, come del resto per molti altri, e' nell'ambito di una cornice della Nato", ha motivato. "Bisogna decidere chi fa cosa in quanto questo gioco tra la coalizione e la Nato fa del male alla comunita' internazionale", ha spiegato il ministro. Anche Belgio, Danimarca e Romania hanno reclamato un ruolo di primo piano per l'Alleanza. Per il ministro degli esteri Franco Frattini, "c'e' un consenso crescente" tra i partner. "Mi aspetto una decisione tra domani e dopo domani", ha detto. Le discussioni alla Nato procedono a rilento. La Turchia ha bloccato ieri i piani per un'eventuale missione di 'no fly-zone' e chiesto anche oggi paletti molto precisi per un intervento dell'Alleanza in Libia. Il premier turco Tayyap Erdogan ha espresso una chiara irritazione per il protagonismo francese.
Il bipolarismo all'italiana senza politica estera. di Andrea Romano. Lo spettacolo di una coalizione di governo che si presenta divisa all'appuntamento della crisi militare internazionale è un grande classico della Seconda Repubblica. Fin dal 1997, quando Romano Prodi fu costretto a cercare il sostegno del centro-destra per varare la missione in Albania contro il parere di Bertinotti, ne hanno fatto le spese tutti i presidenti del Consiglio con la sola eccezione del breve governo di Giuliano Amato.
Si potrebbe sostenere che non vi sia alcuna novità nelle ultime manifestazioni di neutralismo della Lega, che già in occasione della guerra del Kosovo si era spesa con grande energia in favore del regime di Milosevic. Secondo questa lettura, il bipolarismo all'italiana avrebbe il suo punto di maggior debolezza sulla politica estera. E la crisi libica non sarebbe che l'ultimo episodio della tendenza ad affrontare le crisi internazionali con maggioranze trasversali per definizione traballanti, dalle quali si escludono ora i partiti della sinistra radicale ora i campioni del localismo padano e anti-globalista.
Sulla carta è tutto vero. Ma nella realtà politica dei nostri giorni un problema esiste, con dimensioni molto considerevoli. Perché non è detto che quanto accadeva nel '97 sia vero anche dopo quattordici anni, nonostante l'impressione d'immobilismo che ci viene dalla politica italiana. Il problema esiste e riguarda soprattutto Silvio Berlusconi, il quale è stato dominus democratico per gran parte di questo quindicennio ma che non è riuscito a dotarsi di un profilo di politica estera ben riconoscibile. Un profilo di coalizione che sia capace di resistere alla prova delle armi, come accade oggi, ma che in prospettiva si possa immaginare anche come un'eredità politica in grado di sopravvivere alla sua leadership.
Si è già scritto dei limiti della diplomazia personale del Cavaliere e della debolezza che ne deriva per gli interessi nazionali, come in queste ore ci racconta la nostra difficoltà a trovare uno spazio di manovra tra il nuovo protagonismo francese e la più tradizionale confusione europea. Il ministro Frattini ha ragioni di merito e di metodo nel pretendere che la Nato diventi il luogo istituzionale di comando delle operazioni. Ma l'impressione è che per l'Italia la frittata sia fatta e che niente ci possa restituire quel vantaggio di partenza che avremmo potuto vantare nella crisi libica, se solo si fosse investito di più nella gestione e nel disegno del dopo-Gheddafi. Eppure non è stato solo un problema di rapporti personali o di tempismo dell'azione diplomatica. Il punto riguarda la coincidenza tra la debolezza del governo e l'emergenza libica, che di colpo è diventata il pettine al quale stanno venendo i nodi di un berlusconismo che non è riuscito a diventare una stabile cultura di governo anche in politica estera.
Il neutralismo leghista sarebbe ben poca cosa se il "duro monito" di Calderoli contro le "operazioni colonialiste" (e anche in questo caso si noterà la sua lontananza dalla più concreta moderazione di Maroni) avesse potuto essere assorbito da una coalizione di governo con le idee chiare su cosa fare e quando farlo. Ma non è questo il caso. E oggi, piuttosto che per il peso residuo di un pacifismo anti-occidentale sempre più contorto e incapace di distinguere tra il fascino dell'impotenza e le ragioni dei deboli, la politica estera italiana si fa notare per la mancanza di una guida credibile e riconoscibile proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno.
Stati Uniti pronti a ridimensionare l'impegno militare. Mario Platero. RIO DE JANEIRO. Dal nostro inviato. Se ci fosse stato ancora qualche dubbio, Barack Obama lo ha chiarito ieri prima con una lettera al Congresso e poi in una conferenza stampa da Santiago del Cile: non appena sarà possibile, e cioè nel giro di qualche giorno, l'America sospenderà la partecipazione attiva alle operazioni militari contro la Libia e cederà il comando della "fase 2” alle forze alleate.
L'America non vuole una partecipazione attiva della Nato perché il comandante supremo della Nato è comunque un generale americano. Ma nel fornire una indicazione per la successione, Obama non è stato chiaro, segno che la discordia fra gli alleati sul post comando americano persiste. Il presidente e se l'è cavata nella lettera al Congresso con un'affermazione tanto arizigogolata quanto vuota. Dopo aver affermato che la missione sarà «limitata e senza lo schieramento di truppe di terra», il presidente ha aggiunto: «Cercheremo un rapido ma responsabile trasferimento delle operazioni alla coalizione, a organizzazioni regionali o internazionali che sono attrezzate per continuare le attività a seconda delle necessità per realizzare gli obiettivi delle risoluzioni 1970 e 1973 delle Nazioni Unite». E in conferenza stampa Obama ha precisato «che l'America è già impegnata su altri fronti e non può allargare ulteriormente le sue attività militari. Ma abbiamo altri strumenti a disposizione oltre a quelli militari per poter convincere Gheddafi ad andarsene». Obama ieri ha risposto soprattutto al Congresso e al presidente della Camera Boehner in particolare preoccupato dal fatto che «non vi è chiarezza sul dopo, sugli obiettivi, sui tempi». È questione di giorni», ha detto ancora Obama.
Ma il quadro più chiaro su tempi e modi di questa operazione lo ha dato Tom Donilon, il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, al seguito del presidente in questo viaggio sudamericano. In modo schematico ha riassunto: 1) I paesi arabi hanno chiesto alla comunità internazionale di evitare il rischio di un genocidio in Libia e hanno chiesto un intervento delle Nazioni Unite. 2) L'America e altri paesi alleati si sono resi interpreti di questa necessità e hanno proposto la risoluzione 1973 che invoca il capitolo della carta dell'Onu che autorizza l'uso della forza in caso di una violazione della risoluzione. 3) Gheddafi ha dichiarato un cessate il fuoco, ma in realtà ha continuato l'azione militare conto la sua popolazione violando la risoluzione. 4) Gli Stati Uniti hanno la più avanzata attrezzatura militare per poter condurre operazioni di attacco contro postazioni di contraerea integrata, hanno assunto il comando delle operazioni iniziali. L'antiaerea libica è stata già quasi completamente distrutta e ora si cerca di colpire colonne militari che continuano ad operare in violazione del cessate il fuoco. 5) Nel giro di pochi giorni queste operazioni saranno completate e si passerà alla seconda fase, quella della sorveglianza del cessate il fuoco e degli aiuti umanitari. 6) Questa fase sarà condotta sotto il comando degli alleati. E Gheddafi? Per ora il problema è secondario. La risoluzione non chiede un cambiamento di regime ma la protezione della popolazione civile. Il colonnello se ne deve andare «ma avremo tempo per poter esercitare altre pressioni per raggiungere l'obiettivo», ha detto Donilon. «L'unica cosa importante è che abbiamo agito e continueremo ad agire sulla base di un chiaro mandato internazionale».
Ma il Raiss non può scamparla. PAUL VOLKER Ambasciatore statunitense alla Nato. Attualmente è Senior Fellow e direttore generale del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies.
Il lancio delle operazioni militari occidentali per attuare la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu era atteso da tempo. Dopo settimane di ritardo, attacchi brutali da parte del regime e una perdita di slancio della ribellione, la controrivoluzione di Gheddafi ora potrebbe essere fermata.
Il lungo ritardo da parte dell’Occidente era intollerabile. Per due settimane le forze di Gheddafi hanno attaccato senza posa il proprio popolo mentre gli Stati Uniti, la Nato, la Ue e l’Onu non erano disposti ad agire. Reali sforzi per arrestare Gheddafi sono cominciati solo poche ore prima della repressione della rivolta a Bengasi. Ma ora, il Regno Unito, la Francia e gli Stati Uniti hanno finalmente deciso che i valori e gli interessi occidentali devono allinearsi per rispondere ai cambiamenti radicali del Medio Oriente. Ma le potenze occidentali devono ancora confrontarsi con una domanda fondamentale: qual è l’obiettivo dei raid aerei e della no fly zone? Il nostro obiettivo si limita a imporre una no fly zone per alleviare le sofferenze umanitarie? E’ congelare la situazione sul terreno? Serve per dare sostegno ai ribelli in modo che possano esautorare Gheddafi? E, in quest’ultimo caso, quale livello di supporto militare l’Occidente potrebbe fornire per aiutare i ribelli?
La risoluzione 1973 chiede di proteggere la popolazione libica ma tace sulla rimozione di Gheddafi. Questo può essere stato necessario per garantire il passaggio della risoluzione - guadagnando l’astensione di Mosca, Pechino e anche di Berlino. Può anche essere utile a Washington, in quanto consente agli Stati Uniti di essere «per» la risoluzione, rimanendo sul vago circa il livello e la durata del suo impegno militare. Al momento, la coalizione occidentale sembra astenersi strettamente a questo scopo umanitario. Eppure un intervento così limitato mancherebbe un obiettivo più ampio: se Gheddafi rimane al potere, eluderà la volontà della comunità internazionale, ri-consoliderà il suo regime, lavorerà sul terreno per minare l’opposizione e pianterà i semi per una nuova crisi umanitaria a venire.
Già solo questo garantirebbe un disastro continuo per il popolo libico. Ma le conseguenze andrebbero ben oltre la Libia. Altri dittatori farebbero tesoro della lezione: un tiranno pronto a usare la forza contro la sua stessa popolazione alla fine può scamparla - anche a fronte di una risoluzione delle Nazioni Unite e dell’opposizione da parte dei principali Paesi occidentali. Sarebbe un duro colpo per quanti nel mondo arabo vogliono costruire un nuovo futuro, più democratico e giusto. Inoltre, Gheddafi ha promesso di attaccare gli interessi di quegli Stati che oggi attuano la risoluzione delle Nazioni Unite - una recrudescenza del terrorismo di Stato libico. Prima l’Occidente adotterà una posizione chiara sul fatto che gli obiettivi umanitari fissati dall’Onu possono essere ottenuti solo con la rimozione dal potere di Gheddafi, prima potrà finire la crisi.
Cacciare Gheddafi non sarà facile. Una no fly zone disposta solo poche settimane fa avrebbe potuto salvare più vite e conservare lo slancio dell’opposizione. Oggi, bisogna ritrovare l’occasione. Gli alti ufficiali e i funzionari che avrebbe potuto essere convinti ad abbandonare Gheddafi sono stati costretti a difenderlo. Gheddafi ha consolidato le forze a sua disposizione, e indebolito l’opposizione dei ribelli. L’intervento diretto di truppe occidentali sul terreno libico dev’essere evitato. Sono stati i libici a insorgere per riprendersi il Paese e devono conservare la titolarità dell’azione. Il ruolo dell’Occidente è quello di sostenerli, non d’intervenire in proprio. Eppure, in questa cornice, l’Occidente dovrebbe immediatamente prendere diverse misure supplementari per sostenere i ribelli: fornire informazioni di intelligence e strumenti di comunicazione sicuri; disturbare le comunicazioni di Gheddafi; creare una zona di interdizione al transito per prevenire gli attacchi di terra di Gheddafi; provvedere rifornimenti non letali e sostegno logistico e, se richiesto fornire equipaggiamenti militari, munizioni e consulenza.
La Nato non si assumerà queste missioni. Nonostante la retorica ambizione del nuovo Concetto strategico, la realtà è che la Nato agisce solo per consenso, e non esiste consenso per tali misure in Libia. Ad esempio, la Germania si è astenuta dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e la Turchia si è opposta alla no fly zone. Nella migliore delle ipotesi, la Nato potrebbe essere in grado di concordare misure non letali per sostenere lo sforzo della coalizione. Eppure, anche un ruolo così limitato potrebbe creare una base di riferimento preziosa per l’ulteriore impegno della Nato in corso d’opera. L’Italia ha offerto Napoli come base di partenza per le operazioni e contribuito con 8 aerei caccia. Anche se era inizialmente riluttante ad opporsi a Gheddafi, con una risoluzione dell’Onu approvata e in fase di attuazione, l’Italia comprende chiaramente la posta in gioco e sceglie di schierarsi con i suoi alleati occidentali.
Questo in contrasto con la Germania, che rimane bloccata nella sua passività - rendendo così impossibile una posizione comune dell’Unione europea e compromettendo la sua stessa richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Con la decisione di mettere in atto la richiesta delle Nazioni Unite per una no fly zone, l’impegno occidentale nel sostenere l’opposizione libica è solo all’inizio. Ora la sfida è quella di fissare un obiettivo preciso per sostenere la rimozione di Gheddafi e prendere misure decisive per aiutare coloro che lo faranno.
Traduzione di Carla Reschia
Parisi: «Italiani confusi dal repentino voltafaccia del governo sul rais»
22.03.2011 La Lega scopre il mondo soltanto se irrompe disperato nel cortile di casa Così saremo più deboli. CAGLIARI. Arturo Parisi, ministro della Difesa con Prodi (2006-2008) è a Tbilisi, in Georgia, a una riunione dell’assemblea parlamentare della Nato sulla sicurezza e i conflitti nel Caucaso. L’attenzione generale è però puntata sulla Libia. Parisi conosce bene la situazione. Due anni fa disse che «i libici hanno diritto agli stessi diritti di noi italiani». Lo disse commentando le parole di Gheddafi a Roma sul passato coloniale dell’Italia. «Le amicizie tra i popoli - replicò Parisi in polemica anche con Berlusconi - non crescono con la complicitá nelle reciproche trasgressioni». - Arturo Parisi, in pochi mesi l’Italia è passata dai tappeti rossi per Gheddafi all’intervento militare in Libia. Questo cambiamento ha creato sorpresa nell’opinione pubblica. Come lo spiega? «Mesi? Forse è meglio dire settimane. Se non avessimo esagerato in passato, il fondamento della azione attuale sarebbe più comprensibile. Se non ci fossimo compromessi oltre misura, avremmo potuto agire con più libertà evitando di confondere la Libia con Gheddafi, e dimenticando che una cosa è un regime, un’altra uno Stato e un Popolo». - Insomma, si rischia di passare da un eccesso all’altro. «Proprio così. E non si può dimenticare che a quello che definiamo ora un tiranno sanguinario si era pensato di conferire a Sassari la laurea honoris causa in diritto nella stessa facoltà nella quale io mi sono laureato». - Ma poi tutto saltò. «Dobbiamo essere grati ai docenti che allora si misero di traverso». - Perché lei è favorevole a questo intervento militare? «Per come si son messe le cose, a questo punto è inevitabile esserci. Esserci alla pari per decidere alla pari». - La nostra Costituzione non vieta il ricorso alla guerra? «Noi dobbiamo partecipare alla decisione per poter tenere l’azione all’interno di un solco compatibile con la nostra Costituzione». - Quale differenza con il caso Iraq? «Sta tutta nella risoluzione dell’Onu che in questo caso precede e non segue l’intervento». - Che tipo di intervento deve essere, però? «La questione non è se partecipare ma, appunto, come partecipare. Importante è che a guidarci sia l’obiettivo indicato dall’Onu: la difesa dei civili». - Questi sono i confini dell’azione militare? «Certo. Privati del fondamento di legittimità delle Nazioni Unite e del rispetto rigoroso dei suoi atti finiremmo presto in una guerra permanente». - Quanto ha pesato nella scelta del centrosinistra il fatto che oggi gli Stati Uniti sono guidati da Obama e non da Bush? «Prima di guardare a chi guida l’America ora, conviene dare un occhio alla carta geografica che definisce la nostra posizione da sempre. Prima che da partiti di opposizione, dobbiamo ragionare da italiani». - Non c’erano alternative a questo intervento militare? «Se oltre che con Gheddafi avessimo mantenuto un rapporto con la Libia forse saremmo potuti intervenire con più tempestività. Avremmo distinto meglio in ognuna delle fasi i fatti dalla propaganda, e Bengasi da Tripoli». - Invece l’Italia ha dato l’impressione di essere travolta dagli eventi. «Sì, privandoci così della possibilità di dare tempestivamente un altolà a Gheddafi e svolgere una iniziativa di contenimento e interposizione, magari in unione con Paesi come la Turchia che avrebbero potuto condividere con noi obiettivi convergenti». - Quale deve essere il ruolo dell’Italia nell’attuazione della risoluzione dell’Onu? «Piuttosto che strisciare i piedi in azioni fuori dal nostro controllo, è meglio impegnarci alla pari ma controllare le azioni». - Non quindi limitarci a mettere a disposizione solo le basi, come dice Berlusconi? «Non possiamo limitarci ad azioni ausiliarie o di supporto. Che gli aerei della coalizione siano nostri o altrui, quello che conta è che partono dalle nostre basi. E, se partono dalle nostre basi debbono muoversi all’interno del nostro stesso mandato. Prima che delle azioni della coalizione quello che come opposizione dobbiamo perciò chiedere al governo è che cosa l’Italia ha chiesto e ottenuto al tavolo della coalizione». - Tra le opinioni di Berlusconi e quelle della Lega e quelle di altri settori, il governo italiano è diviso e su questo non ha una maggioranza parlamentare. Questo indebolisce il ruolo dell’Italia? «Se Berlusconi confonde spesso il mondo con i governanti di turno, la Lega sembra agire come se il mondo non esistesse. Guidata, come all’inizio tutti i secessionisti, da una ispirazione isolazionista la Lega scopre il mondo solo quando il mondo irrompe disperato nel cortile di casa. Continuando così saremo sempre più deboli». - Opposizione. «Lo dico al Governo che ha certo le responsabilità maggiori, ma non dimentico neppure la mia parte. Dobbiamo crescere tutti e crescere assieme». - C’è il rischio che su questa vicenda l’Europa si trovi a seguire le scelte degli Stati Uniti? «Lasciamo stare l’Europa che nei rapporti internazionali ancora deve dimostrare di esistere». - E l’Italia? «Per quel che riguarda l’Italia il nostro rischio è finire sempre al rimorchio di qualche altro. Anche quando parliamo della Nato o di organismi nei quali si decide all’unanimità, e quindi il nostro voto è determinante, ci siamo abituati a dire “la Nato ci ha chiesto”, come se il nostro destino fosse solo quello di dire sì, e la Nato non fossimo anche noi». - Che fare, quindi? «Alla stagione del se stare o non stare nella Nato e nella altre organizzazioni di sicurezza collettiva deve seguire quella del come starci». - Ma come starci? «Dobbiamo starci in piedi. Decidendo sui mezzi e prima ancora sugli obiettivi». - Come giudica l’atteggiamento della Francia? «Certo non ci ha aiutati a dire “noi”. Persino alla vigilia della riunione nella quale l’Europa doveva decidere cosa fare, la Francia ha operato in modo unilaterale, quasi a dire che sarebbe andata avanti da sola, comunque. Una cosa che, da europeo, considero grave». - Secondo lei, cosa ha spinto Sarkozy ad anticipare tutto e tutti? «E’ sembrato a molti che con il suo protagonismo di oggi il presidente Sarkozy voglia far dimenticare di essere stato ieri il riferimento privilegiato di troppi regimi autoritari dell’Africa. Spero che la nostra partecipazione sia guidata dalla determinazione a rivendicare la possibilità di far sentire la nostra voce». - Perché, che cosa teme? «Non vorrei che alla nostra subalternità a Gheddafi segua una subalternità a Sarkozy». - L’uso della base militare di Decimomannu per l’azione militare espone la Sardegna al pericolo di ritorsioni? «Non credo. Ma anche se capisco che ci si interessi del mondo solo quando il mondo si interessa a noi, utilizzerei questa occasione per studiare con più attenzione la carta geografica. Basta leggere i giornali. La gittata dei missili. La velocità e l’autonomia degli aerei. La sicurezza delle rotte che ci legano al resto del mondo. Gli approvigionamenti energetici. C’è molto da imparare». - C’è il rischio che il Mediterraneo torni a essere infiammato da un conflitto più grande? «Più conflitti di quelli che ci sono stati? Più rischi di quelli che si vedono? Basta ripassarsi gli ultimi ventanni. Basta scorrere col dito le coste del “mare nostro”».
Ferrara. «La verità è che si lotta per il petrolio». Sulla guerra in Libia i ferraresi hanno le idee molto chiare
Ferrara. Il sole e la bella stagione che ieri mattina hanno accolto i ferraresi sono stati guastati dalle tragiche notizie in arrivo dall'altra sponda del Mediterraneo. Venti di guerra soffiano sempre più forte dal deserto libico e quella che sembrava la "primavera" di un popolo oppresso da 40 anni di feroce dittatura si sta trasformando, giorno dopo giorno, in una cruenta e terribile guerra civile. Ora arrivano anche le "bombe umanitarie" su mandato dell'Onu che, almeno nelle intenzioni della comunità internazionale, dovrebbero fermare la tremenda rappresaglia di Gheddafi sulle popolazioni della Cirenaica. Un intervento annunciato da settimante che arriva tardi e lascia numerosi dubbi anche tra i ferraresi. «La guerra non è mai una soluzione e poi sento puzza di petrolio: i discorsi di Sarkozy e soci non mi convincono», spiega Antonio Maccanti. Gli fa eco Alessandra Schiavi: «Sono una pacifista convinta, anche se non ho alcuna simpatia per Gheddafi penso che la via diplomatica sarebbe stata una scelta migliore». Sono solo alcune delle voci raccolte dalla Nuova nella piazza cittadina: unanime è la condanna degli intervistati verso il sanguinario regime libico ma nessuno si fa illusioni sull'intervento militare occidentale. Non mancano le preoccupazioni per la posizione del nostro Paese: il governo ha offerto appoggio logistico e militare alla coalizione ma non ha ancora liquidato il trattato di amicizia siglato con il raìs di Tripoli nel 2008. «La nostra posizione internazionale è troppo ambigua: Berlusconi doveva rompere subito i rapporti con Gheddafi», denuncia la giovane studentessa Melodie Fornasier. Opinione condivisa anche da Andrea Pavanello che ricorda i complessi e controversi rapporti economici tra Italia e Libia, mentre la sua amica Irene Zappaterra accusa: «Ora i media tessono le lodi dell'intervento umanitario in Libia, perchè non hanno richiesto con la stessa attenzione un'azione umanitaria in Giappone?». «Prima baciano l'anello di Gheddafi, poi lo bombardano, la verità è che vogliono solo il petrolio: chi prima arriva meglio alloggia», commenta disillusa Alice Balboni. E la politica ferrarese che dice? Alessandro Bratti, deputato del Pd che si era astenuto sul famigerato trattato italo - libico, non nasconde le forti perplessità verso la soluzione militare: «La situazione è drammatica, penso che si sarebbe potuta evitare isolando economicamente e diplomaticamente Gheddafi anziché sdoganarlo con trattati di amicizia». Un opinione condivisa anche dall'ecologista Leonardo Fiorentini, che non ha mai fatto mistero del suo pacifismo: «L'Italia doveva muoversi prima per aiutare concretamente i civili ma il governo è rimasto a guardare». Intanto a tutti gli effetti la base aeronautica di Poggio Renatico è già coinvolta nelle operazioni: il Cofa/Caoc5, infatti, - confermava anche ieri il generale Fabio Mini, ex capo di stato maggiore Nato per il Sud Europa, ha «il controllo delle linee aere avanzate», in pratica del traffico degli aerei militari.
Napolitano, federalismo sia condiviso. Varese, 21-03-2011. Giorgio Napolitano e' andato a Varese, una delle roccaforti della Lega e ha ricevuto dal popolo e dagli amministratori leghisti una calorosa accoglienza. Napolitano ha parlato a un convegno al quale ha partecipato Roberto Maroni, ministro con il quale il capo dello Stato assicura di essere in sintonia sul modo di affrontare la nuova emergenza immigrazione determinata dalla crisi libica.
E' stato un intervento a braccio, per fare capire a chi ha a cuore il federalismo, a chi difende le ragioni del Nord, che certi traguardi sono comuni a tutto il paese e, come altri problemi comuni del paese che - ha sottolineato - "sono dietro l'angolo", non aspettano.
"Dopo un cammino tanto lungo e tormentato abbiamo il dovere di concludere con coerenza la riforma in senso federalista del sistema delle autonomie realizzando anche il superamento del bicameralismo perfetto affinche' ci sia una evoluzione coerente anche al vertice dello Stato. Ci vuole coesione e larga condivisione per dare a questa riforma basi durevoli e prospettive di consolidamento".
"La riforma del Titolo V della Costituzione - ha ricordato - e' la sola che e' stata portata a conclusione in modo durevole e non a caso e' stata fatta con l'impegno di governi di diverso orientamento". Adesso bisogna attuare pienamente quella riforma giungendo a creare quella Camera delle Regioni di cui si e' tanto parlato. Bisogna intervenire anche sui rami piu' bassi dell'architettura autonomistica, degli enti locali perche' ha detto, "c'e' un armamentario che si e' sovraccaricato, al di sotto del livello regionale, dove c'e' qualcosa di artificioso e a volte di parassitario", e anche questo non riguarda solo il Sud, dove pure il problema e' presente".
Quanto all'immigrazione, Napolitano ha ricordato di avere sostenuto la linea di Maroni per il coinvolgimento degli altri paesi europei nella politica di accoglienza perche' la considera "corretta". "Dobbiamo concorrere insieme - ha detto -alla massima coesione sociale e politica anche rispetto a dinamiche complesse e problematiche come queste". Napolitano ha parlato anche dell'intervento militare in Libia, iniziativa che ha suscitato cosi' tante riserve da parte della Lega. "Qualsiasi preoccupazione e' pienamente legittima e va rispettata, ma - ha detto - non potevamo e non possiamo sottrarci alle nostre responsabilita' di grande paese europeo e di paese membro della comunita' internazionale. Purtroppo, a volte, bisogna fare anche scelte difficili".
Quindi, ha difeso lo spirito con cu viene celebrato il movimento unitario risorgimentale che aveva anche una visione federalista: "che non ebbe fortuna". Le celebrazioni del 150.mo, ha aggiunto, non hanno nulla di retorico e vogliono ricordare anche vizi di origine quali l'accentramento statale: vizi che la Costituzione repubblicana comincio' a superare ma con "liniti, timidezze, equivoci", tant'e' che ci vollero 22 anni per istituire le Regioni e altri 40 anni per riformare il Titolo V.
Parmalat, il made in Italy merita di essere difeso. di Edoardo Narduzzi. Nel mercato globale contemporaneo, probabilmente, non esiste comparto industriale identificabile meglio con il made in Italy come quello agroalimentare. Il modo di cucinare e alimentarsi, «inventato» nel corso dei secoli dagli abitanti della penisola, è oggi diventato uno stile di vita mondiale. Bevono cappuccini nella sede di China mobile a Pechino e negli uffici californiani di Google, si mangia pasta da Goldman Sachs a New York o Londra o nella sede di Allianz a Monaco di Baviera, mentre la pizza è stato ed è il cibo preferito dei creativi e delle start up di mezzo mondo. L'enogastronomia italiana è forse il marchio di maggior successo dell'export del Bel Paese nel secondo dopoguerra. Mangiare e bere in stile italiano piace moltissimo in giro per il mondo. Peccato che gran parte del valore economico creato dalle «invenzioni» enogastronomiche italiane lo abbiano incamerato le varie Starbucks, Pizza Hut o Kraft, mentre poteva dar vita a delle multinazionali del gusto pensate, progettate e gestite in Italia. Ma, come testimonia la recente vendita del gruppo Bulgari alla multinazionale francese Lvmh dell'imprenditore Bernard Arnault, per difendere il ruolo del business legato al cosiddetto made in Italy occorre giocare d'attacco. Adesso potrebbe toccare alla Parmalat, risanata dalle ruberie compiute dalla famiglia Tanzi, un'azienda che vende in Italia soltanto il 22% del proprio fatturato annuo. Quindi, di fatto, una multinazionale italiana dell'agroalimentare. I francesi di Lactalis vorrebbero scalarla. Ma per difendere il made in Italy al meglio si può giocare soltanto di attacco, come da anni sta facendo, per esempio, Luxottica di Leonardo Del Vecchio. Basta guardare al numero di acquisizioni e al portafoglio di marchi internazionali che oggi controllano la multinazionale di Agordo per capire quanto diverso sia ora, rispetto al Novecento, il presidio di un'offerta caratterizzata dal fatto di essere made in Italy. E questa constatazione riporta l'analisi alle considerazioni formulate quasi un secolo fa dall'economista di Harvard, Joseph Schumpeter: quando si producono discontinuità l'elemento rivoluzionario nell'economia di mercato è l'imprenditore perché soltanto lui riesce a spostare l'offerta verso le nuove frontiere della domanda. Quindi la sostenibilità del made in Italy nel mercato globale di oggi è strettamente correlata alla presenza in Italia di imprenditori capaci di non spaventarsi rispetto alle nuove sfide dimensionali. Questo vale anche per Parmalat alla ricerca di un cavaliere bianco italiano: un imprenditore capace e credibile nel mercato globale, come Michele Ferrero, inventore della Ferrero fiore all'occhiello del made in Italy agroalimentare.
Bozen. I bolzanini: «Hanno rimediato alla figuraccia del 17 marzo». di Riccardo Valletti. BOLZANO. Hanno risposto in folla all'appuntamento. Hanno cantato, applaudito e fotografato. Con l'inno nazionale suonato dalla fanfara dei bersaglieri, i bolzanini ieri hanno tirato un sospiro di sollievo. Il bis dei festeggiamenti, un po' più rumoroso e ufficiale del precedente, ha incontrato finalmente il favore degli insoddisfatti del 17 marzo. Complice il bel tempo, tra ponte Roma e piazza Matteotti si sono radunate diverse centinaia di persone, vestite dei colori della bandiera italian, e contente di poter festeggiare finalmente in modo spensierato e senza schieramento politico. Pace fatta insomma. Il gruppo linguistico italiano ha accettato le scuse. Ora, raccontano, i bolzanini si aspettano che si faccia tesoro dell'esperienza del 17 marzo e pretendono maggiore attenzione riguardo agli equilibri tra i due gruppi linguistici. «Non credo che a qualcuno abbia dato fastidio la fanfara dei bersaglieri», è convinto Giampietro Natalini, «la stessa cosa si poteva fare per i festeggiamenti ufficiali del 17, ma i nostri politici non hanno saputo trovare la misura tra toni bassi e troppo bassi». Abbiamo fatto pace, assicura sua figlia Fabiola, «con la festa di oggi (ieri, ndr) abbiamo recuperato qualcosa, almeno non c'è più l'amaro in bocca». In piazza Matteotti anche molti giovani, come Franco Pagnotta con la sua sorellina Olga, vestita del tricolore: «Vogliamo dimostrare che questa festa non è solo per anziani nostalgici, ma di tutti». Si dichiara contenta anche Anita Pandolfo, che ha sfoggiato la maglia tricolore che si è confezionata con le sue mani per l'occasione: «Era ora che si decidessero a festeggiare davvero. Quella del 17 marzo è stata solo una brutta figura. La gente ci era rimasta malissimo, se non avessero recuperato oggi sarebbe stato vergognoso». La protesta delle bandiere ha funzionato e i bolzanini incassano soddisfatti la rivincita. «Hanno capito finalmente», afferma orgoglioso Glauco Cisotto, «che serve ancora un minimo di amor proprio». E il consigliere provinciale di Unitalia Donato Seppi, nel corteo in veste non ufficiale, ne approfitta per annunciare un'altra manifestazione in data da definirsi: «E' la gente che ce la chiede». La politica però, assicurano in molti, non se la caverà con una corsetta dietro ai bersaglieri. D'ora in poi «ci aspettiamo un livello di attenzione costante», chiarisce Walter Pagnotta, «è stato un bel modo di chiedere scusa, ma non basta per mettere una pietra sopra all'argomento». Dello stesso parere sono Giovanni Faranna e Maria Antonietta Fioravanti: «Vogliamo contare di più, c'è ancora tanta strada da fare». Maria Antonietta parla di piccoli gesti simbolici, «come esporre la bandiera italiana. In questa città non si trova da nessuna parte, nemmeno al municipio o al cimitero dei caduti». Sarebbe bello, prosegue Fioravanti, «se facessero una parata militare per il 2 giugno, abbiamo centinaia di alpini a Bolzano e abbiamo fatto venire i bersaglieri da Mantova». Anche nelle scuole, afferma Faranna, «se ne dovrebbe parlare di più e meglio: alle elementari di mia figlia hanno sorvolato totalmente sull'argomento». Sull'educazione dei più giovani si fa sentire anche Sabrina Artioli: «Oggi in molti sono venuti con i loro figli, ma è dalle scuole che deve partire l'educazione su questo argomento. Al momento è trattato in modo troppo superficiale».
Bozen. Unità d'Italia, la vera festa è arrivata: mille persone alle cerimonie trasversali. di Francesca Gonzato. BOLZANO. I bolzanini delusi dal 17 marzo celebrato in sordina («come carbonari», secondo l'ex sindaco Salghetti) hanno avuto ieri la festa che si aspettavano. Dal ponte Roma a via Aosta. Centinaia di persone, forse un migliaio tra tutte le tappe, hanno seguito i festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità nazionale accompagnati dalla fanfara dei bersaglieri di Mantova. Nel pomeriggio bis con i bersaglieri la banda degli alpini di Gries in corteo per il centro con concerto in piazza della Mostra. E' stata una sorta di riparazione, ma il sindaco Spagnolli lo nega, che si è trasformata in un felice evento trasversale, con il programma del Comune che si è intrecciato con l'alzabandiera al Circolo Gentile, centrosinistra e centrodestra serenamente insieme per una mattinata. Luigi Spagnolli non arretra di un passo rispetto all'organizzazione della festa nazionale del 17 marzo, con quell'alzabandiera in piazza Municipio sbrigativo e senza discorsi, che ha provocato tante proteste: «Certe polemiche forzate sono il retropensiero degli imbecilli». Ma ieri qualcosa che assomiglia a una festa popolare c'è stata e lo stesso vicepresidente provinciale Christian Tommasini in via Aosta lo ammette: «Il discorso del presidente Napolitano ha cambiato il passo a questo 150º anniversario. Le conseguenze si sentono anche a Bolzano, c'è voglia di un minimo comune denominatore anche tra persone diverse». Mauro Minniti (Pdl, vicepresidente del consiglio provinciale) replica (indirettamente) al segretario del Pd Antonio Frena, secondo il quale è stato opportuno un 17 marzo «senza feste troppo nazionalistiche». Minniti: «Questa festa trasversale dimostra un sentimento nazionale, non nazionalista». L'appuntamento con la fanfara dei bersaglieri era alle 10 al ponte Roma, lato Oltrisarco. Spagnolli tiene il suo discorso, racconta dell'evento che lo ha visto testimone a Roma: «Siamo abituati a litigi e risse alla Camera, ma le parole del Capo dello Stato hanno provocato uno straordinario momento di unità nazionale». Spagnolli ha ricordato che è stata questa repubblica a produrre risultati come la Costituzione, «la nostra autonomia e la convivenza». Poi la fanfara parte e percorre di corsa il ponte. Passo di corsa anche per Spagnolli e Tommasini. Omaggio al monumento dedicato ai caduti del mare: già qui centinaia di bolzanini. Dalla piazzetta corteo fino a piazza Matteotti: qui almeno 500 persone ascoltano l'inno di Mameli suonato dalla fanfara, i politici cantano. La festa è già trasversale. Ci sono il presidente della circoscrizione Visigalli (Pd), l'assessore Randi (Pd), il deputato Holzmann (Pdl), il consigliere provinciale Seppi (Unitalia), i consiglieri Marchi (Pd), Margheri (Sel), Tomada, Ponte e Bellomo (Pdl), Gambetti (gruppo misto), l'ex sindaco Benussi. Tanti tricolore alle finestre e nei negozi, pochi portati in piazza. Qui il programma del Comune ha subito la deviazione su invito del circolo Gentile e del Club rodigino: bersaglieri di nuovo protagonisti per l'alzabandiera in via Aosta e la «preghiera alla patria» recitata dal cappellano militare don Masiero. Ancora l'inno di Mameli. Randi, accanto a Spagnolli, trova normale essere lì: «Siamo diversi, ma di fronte ai valori nazionali ci si ritrova». Paolo Bertolucci (Pdl): «Volevamo unire il guppo italiano e ci siamo riusciti». Giuseppe Bellomo (Pdl): «Dovremmo farlo più spesso, è quello che ci chiedono». Il presidente del Gentile Alberto Sigismondi: «Tra persone intelligenti ci siamo capiti».
Bozen. Unità d'Italia, Salghetti: gli italiani hanno dato un segnale - L'ex sindaco a Spagnolli: sarò imbecille, ma intanto domenica erano centinaia. BOLZANO. Bolzano si è presa la sua festa per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Domenica a centinaia hanno partecipato alle celebrazioni. Un risarcimento per il dimesso debutto del 17 marzo. «E' esplosa una voglia di valori, che di sicuro non è nazionalismo e viaggia al di sopra dell'appartenza politica. Un sentimento, credo, vissuto più dalla popolazione che dalla politica»: racconta Giulio Clamer, presidente della società «Dante Alighieri». Tra i primi a segnalare il problema dell'organizzazione in tono minore dell'alzabandiera del 17 marzo è stato l'ex sindaco Giovanni Salghetti, parlando di «cerimonia da carbonari». Lo hanno seguito in molti. Polemiche «da imbecilli», secondo il sindaco Luigi Spagnolli. Salghetti non polemizza: «Vedo che sono finito nella categoria degli imbecilli...». Preferisce constatare che «c'è stata una riflessione da parte di tutti, si è capito che c'è la voglia di ritrovarsi come comunità. E ciò non significa essere contro qualcuno: abbiamo presente che viviamo in una realtà particolare, ma a volte possiamo essere orgogliosi di appartenere a un Paese che per tante cose va criticato, ma ha dato anche molto, dall'arte alla nostra autonomia». Conclude Salghetti: «Il 17 marzo c'è stata una preoccupazione immotivata di innervosire qualcuno. Non serviva: il presidente Napolitano ha messo tutto in una luce talmente nobile...». La «Dante Alighieri» è una delle protagoniste delle celebrazioni. Siede al tavolo di coordinamento insediato al Commissariato del governo e organizza numerosi degli eventi in agenda nei prossimi mesi (l'1 aprile al Rainerum, alle 20.30, serata sul bel canto italiano con letture di Dante». Clamer pone con semplicità il problema emerso in questi giorni: una parte della città, il gruppo italiano, ha protestato perché si aspettava qualcosa che all'inizio non ha avuto. Clamer spende però parole a favore di Spagnolli: «Almeno ha cercato di mediare. Ad altri invece il coraggio è mancato del tutto». La gestione del 17 marzo in alcuni dei centri principali è oggetto di abbondante polemica. La lettura di Clamer trova d'accordo un politico come Alberto Sigismondi (Pdl), che ha organizzato la cerimonia trasversale di domenica al circolo Gentile: «Abbiamo capito che c'era una domanda che rischiava di restare senza risposte. La politica d'ora in poi deve comportarsi in modo diverso con il gruppo italiano». Racconta Clamer: «Bolzano sta condividendo la voglia di appartenenza a un mondo di valori che attraversa tutta l'Italia in questi giorni, così bene rappresentata dal presidente Giorgio Napolitano». Alla «Dante Alighieri» se ne sono accorti già il 17 marzo: «Abbiamo organizzato l'annullo postale al circolo militare unificato di via Druso. Sono arrivati a migliaia: una cosa mai vista. Di solito si presentano pochi appassionati. E ieri (domenica, ndr) un'altra bella testimonianza. Lo ripeto, c'è come l'impressione che questa sentimento sia sfuggito alle istituzioni». Alle accuse di nazionalismo e alle prudenze di chi se ne fa carico subito Clamer risponde rimandando ancora a Napolitano: «Ero al Quirinale il 21 febbraio per un incontro in vista delle celebrazioni. E' stato chiaro a tutti che stavamo per affrontare una occasione non politica ma di appartenenza valoriale». (fr.g.)
Bressanone. Pürgstaller: pochi tricolori in città. Sindaco critico con le associazioni: «È mancata la loro spinta». di Massimiliano Bona. BRESSANONE. «In città c'erano davvero pochi tricolori ed è mancata la spinta delle associazioni italiane»: il sindaco Albert Pürgstaller, rimasto ai margini della polemica sui mancati festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità d'Italia, non solo difende gli assessori Pedron e Del Piero, ma contrattacca. «Dov'erano Bova e Stablum il primo gennaio, quando al Forum abbiamo celebrato, col concerto di Capodanno, i grandi musicisti italiani?». Quella di Pürgstaller è una difesa appassionata e nasce dal convincimento che siano stati gli stessi italiani di Bressanone a non sentire più di tanto l'evento. Sindaco, ma è possibile che nella terza città della Provincia si sia rinunciato persino all'alzabandiera? «Rispetto la scelta dei colleghi Pedron e Del Piero, che hanno fatto semplicemente valutazioni diverse. C'eravamo tutti, invece, alla bella iniziativa dell'Upad sulla storia della canzone italiana, così come non siamo voluti mancare al dibattito promosso dall'associazione mistilingue Heimat. Per non parlare del concerto di Capodanno sui grandi musicisti del Bel Paese: l'Unità d'Italia si festeggia tutto l'anno, tanto è vero che noi proseguiremo a maggio con i Solisti Veneti». Già, ma la giunta ha deciso di finanziare con 2 mila euro quel concerto proprio a pochi giorni dalle celebrazioni. Non le sembra un tentativo di recuperare in extremis? «No, affatto. Il vicesindaco Pedron me ne aveva parlato almeno un mese prima, quando a Bressanone era stata organizzata un'iniziativa su Zeri al museo Diocesano. E c'era anche il vicepresidente della Provincia Tommasini». Molti brissinesi di lingua italiana però sono arrabbiati e sono andati a festeggiare a Bolzano e Fortezza: a molti è parso che la giunta Svp-Pd abbia snobbato l'evento. Le dispiace? «Sinceramente in città questa settimana ho visto davvero poche bandiere italiane esposte ai balconi o alle finestre, così come non si sono fatte avanti le associazioni. Non ho notato una spinta, un coinvolgimento. Da me, in ufficio, non si è presentato nessuno. Del resto è sempre più
facile attaccare che muoversi in prima persona». A chi si riferisce?
«Penso a Bova e Stablum, ad esempio, che si sono scagliati contro la giunta. Loro, come consiglieri, non avrebbero potuto attivarsi? Non avrei certamente negato il mio sostegno a iniziative di un certo rilievo. Adesso è troppo facile parlare e chiedere le dimissioni di Pedron e Del Piero». Altra obiezione: alle celebrazioni hoferiane la giunta era in prima fila. A posteriori non ha nessun rimpianto? «No, semplicemente abbiamo scelto di celebrare l'Unità d'Italia in modo diverso. E per Hofer si erano mosse le associazioni, cosa che purtroppo non è avvenuta questa volta».
Friuli venezia Giulia. Rivolta al Cie: militari feriti e sei immigrati sono fuggiti. di Marco Ceci. Oggi vertice al Viminale. Tondo: «Il Fvg non può accogliere altri clandestini»
GRADISCAD'ISONZO. «Il Friuli Venezia Giulia non è in grado di accogliere altri immigrati perché siamo già saturi e stiamo già facendo molto di più di tante altre regioni dove non ci sono centri come il Cie di Gradisca, che poi è andato in difficoltà». A chiudere la porta all'arrivo di nuovi migranti in regione, una possibilità cresciuta al pari dell'emergenza di Lampedusa, è stato il presidente Renzo Tondo, fermo nel ribadire la posizione della sua giunta anche alla vigilia della riunione al ministero dell'Interno, alla quale parteciperà il vicepresidente Luca Ciriani.
«Il nostro aiuto umanitario non mancherà, però oggi non siamo in grado di accogliere altre persone - ha ribadito Tondo - ne abbiamo già tante. Ci sono altre regioni prima di noi che devono fare quello che abbiamo già fatto. Poi si discuterà». Parole e preoccupazioni, quelle di Tondo, arrivate a poche ore di distanza da una delle giornate più turbolente per il Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Gradisca d'Isonzo, dove la nuova rivolta scoppiata domenica sera ha registrato un vero e proprio bollettino di guerra: 6 immigrati clandestini fuggiti, 8 arresti, 4 denunce a piede libero, due militari lievemente feriti, tre operatori aggrediti e danni ingenti alla struttura.
Ad accendere la miccia, poco dopo le 20, l'azione di una trentina di ospiti che, una volta forzato il blocco delle forze dell'ordine impegnate nella vigilanza, sono riusciti a guadagnare gli spazi esterni della struttura. Da lì, a conferma che l'azione non era improvvisata, l'allargamento su due fronti della rivolta, con alcuni immigrati saliti sui tetti del Cie e altri a puntare direttamente la recinzione. Azioni, oltretutto, ripetute e nel corso delle quali, oltre al lieve ferimento di due militari dell'Esercito (integrati nella sorveglianza a carabinieri, poliziotti e agenti della guardia di finanza), che hanno riportato escoriazioni e contusioni da colluttazione, si sono registrate le aggressioni, fortunatamente senza gravi conseguenze, anche di due operatori dell'ente gestore e a un'infermiera di turno.
Nel corso dei disordini 6 immigrati sono riusciti a scavalcare le recinzioni e far perdere le loro tracce, mentre 8 ospiti sono stati arrestati (7 per violenza e resistenza a pubblico ufficiale, uno per furto aggravato in quanto aveva sottratto con la forza a uno degli operatori le chiavi delle porte interne della struttura) e processati già ieri mattina per direttissima al tribunale di Gorizia. Nel corso della nottata danneggiate porte, finestre, una macchinetta del caffè e, in parte, anche le due stanze (sulle 28 totali) rimaste agibili dopo gli incendi di fine febbraio. La situazione è tornata alla normalità solo dopo l'una di notte, quando gli ultimi immigrati sono scesi dai tetti.
Ancora in corso, invece, le indagini avviate dalle forze dell'ordine per valutare eventuali collegamenti con i disordini, avvenuti praticamente in contemporanea e con dinamiche similari, al Cie di Torino.
Treviso, Rovigo e Chioggia nervi tesi tra Lega e Pdl. Elezioni, a vuoto il vertice con Zaia, Gobbo e Giorgetti Torna in discussione l’alleanza: «Vogliono solo candidati padani»
TREVISO — Se sarà rottura, sarà la rottura dei «risi e patate». A poco più di 50 giorni dalle elezioni amministrative, Lega e Pdl mostrano i muscoli durante un pranzo chilometrico apparecchiato da mezzogiorno e mezzo a pomeriggio inoltrato nel quartier generale gastronomico del presidente Luca Zaia, il ristorante «Da Dino» a Villorba, a due passi da Treviso. Convocati ufficialmente per trovare «la quadra» su Statuto, Regolamento, fiducia e legge elettorale — materie che stanno molto a cuore a Zaia—Lega e Pdl si sono poi rimboccati le maniche e hanno discusso animatamente di amministrative. Per la Lega, oltre a Zaia c’era il segretario Gian Paolo Gobbo e il capogruppo in Consiglio Federico Caner; per il Pdl c’erano il coordinatore regionale del partito, Alberto Giorgetti, il suo vice Marino Zorzato, il presidente del consiglio regionale Clodovaldo Ruffato, il capogruppo in Consiglio Dario Bond, il suo vice Piergiorgio Cortelazzo e il presidente della commissione Statuto Carlo Alberto Tesserin.
Il nodo (o il vulnus) è l’iperattivismo della Lega, che già da settimane è partita con candidati, slogan, manifesti e — soprattutto a Treviso — una campagna acquisti che sta facendo innervosire il Pdl. La sintesi la fa alle 15 meno 10 l’oste Dino Caramel in persona, uscendo in tenuta da lavoro: «Adesso i xe sull’incazz...». Passa un minuto e Giorgetti si infila in macchina senza dire una parola; lo seguono Ruffato e Zorzato, Bond scuote la testa. Per ultimo esce Gobbo, al solito loquace: «Di queste cose non parlo». L’accordo nazionale prevede che per le Provinciali e i comuni capoluogo Lega e Pdl debbano andare insieme, mentre sui comuni c’è la possibilità di qualche strappo. Ma l’impressione, dopo il vertice di ieri, è che lo strappo sia un po’ più pesante di quanto dovrebbe.
Il caso più eclatante è Chioggia. Il più arrabbiato è ovviamente Tesserin: «Lì noi non possiamo dire niente, perché il sindaco uscente era nostro e si è rovinato da solo. Ma la Lega non può considerare Chioggia come gli altri piccoli comuni: è il più popoloso di quelli che vanno al voto». Il risultato che si profila, però, è diverso: la Lega ha già indicato il suo candidato, l’assessore provinciale Massimiliano Malaspina, e non ha nessuna intenzione di tornare indietro. Su Treviso e Rovigo la situazione potrebbe anche diventare più pesante. Perché se va in frantumi l’alleanza lì, va in frantumi anche qualcosa a livello nazionale: «La Lega ha alzato il tiro, vogliono che siamo noi ad andare sui loro candidati», dice uno dei commensali. Per quello, in casa Lega e Pdl, c’è la tendenza a considerare quello di ieri solo il primo di una serie di vertici necessari per uscire dall’impasse. Su Rovigo la Lega potrebbe approfittare del caos nato intorno all’uscita dell’ex sindaco Paolo Avezzù (della corrente di Renzo Marangon). «Qualcuno pensa che Avezzù potrebbe essere un buon candidato— dice uno dei maggiorenti del Pdl — ma ne verranno testati altri». La verità è che il Pdl vuole Bruno Piva e il segretario provinciale del Carroccio Antonello Contiero sta puntando i piedi per far andare la Lega da sola, mentre Avezzù ha gettato un amo alla Lega proponendogli di correre insieme per «neutralizzare» Piva.
Un pasticcio che ieri non ha trovato soluzione. Come pure Treviso. I manifesti di Leonardo Muraro campeggiano già sui bus della città con lo slogan «Solo fatti», ma il Pdl è risentito per la campagna acquisti della Lega e per ruggini insanabili tra Maurizio Castro (Pdl) e il leghista Gianantonio Da Re. «La separazione è un dato di fatto ormai», sentenzia Tesserin. Mentre Zorzato, interessato soprattutto a Este—lì il Pdl non sa decidere se appoggiare Paola Goisis della Lega o l’ex sindaco Vanni Mengotto passato all’Udc — al solito fa il pompiere: «La politica è così. Una soluzione la troviamo». Sara D’Ascenzo
Padova. «Salveremo 700 posti di lavoro». Oggi summit in Provincia tra la Rete delle imprese del solare e i sindacati. di Felice Paduano. Crisi dell'energia fotovoltaica: oggi in Provincia è convocato un summit per evitare che la cassa integrazione per 700 dipendenti delle aziende trascinate dalla crisi per gli effetti negativi del decreto Romani, che ha tagliato gli incentivi alle energie «pulite». Intanto le aziende venete che producono pannelli solari si sono incontrate a Rovolon e hanno costituito la Rivs. Ossia la Rete delle Imprese Venete del Solare. Sono già 102 e rappresentano 2.000 dipendenti diretti, con un indotto che arriva a 5.000 lavoratori, tra i quali tantissimi laureati e diplomati per un fatturato complessivo di due miliardi di euro. Sono stati nominati coordinatori della nuova associazione Domenico Sartore, titolare della Solon, di Carmignano di Brenta (260 addetti) e Carlo Cotogni, amministratore delegato della X Group, di San Pietro Viminario (150). I due imprenditori stamattina alle 10 si recheranno in Provincia, nell'ufficio dell'assessore al Lavoro Massimiliano Barison, per partecipare al primo tavolo di sostegno al fotovoltaico di cui fanno parte i sindacati e le istituzioni locali. «Chiediamo al Governo di rispettare la legge a sostegno delle energie rinnovabili approvata nel 2010» sottolinea Sartore. «Il decreto Romani va modificato subito, specialmente alla luce di quanto successo alla centrale di Fukushima. Una tragedia immane che sta rimettendo in discussione in tutto il mondo le scelte del nucleare a favore delle energie rinnovabili. Gli incentivi vanno mantenuti sino alla fine dell'anno perché i soldi pubblici sono indispensabili per coprire gli investimenti effettuati grazie alle banche. Rimane scontato che noi imprenditori siamo favorevoli alla revisione delle tariffe per gli anni futuri. Come è urgente rivedere i costi delle pratiche burocratiche, che incidono per il 15% sul costo finale del prodotto e i criteri per l'allacciamento alla rete Enel». I sindacati saranno rappresentanti da Antonio Silvestri e Andrea Castagna, della Cgil e da Andrea Bonato e Giani Castellan, della Cisl. «Il provvedimento Romani va ritirato subito», spiega Castagna, segretario generale Cgil. «E' un decreto scellerato che blocca in corso d'opera un intero settore in continuo sviluppo in Veneto. Questa storia è la testimonianza più evidente che il Governo non ha una vera politica industriale e naviga a vista». Significativo il commento del segretario della Fim. «Gli effetti del decreto Romani si faranno sentire nei prossimi giorni - osserva Gianni Castellan - Nella sola provincia di Padova rischiano di finire in cassa integrazione straordinaria settecento lavoratori. Ogni giorno che passa la situazione diventa sempre più grave. Deve scendere in campo anche Luca Zaia. Bisogna subito organizzare un incontro con il governatore del Veneto visto che da Roma, nonostante lo sciopero di lunedì scorso dei lavoratori e la mobilitazione degli imprenditori, non arriva nessun segnale di modifica del decreto firmato dal ministro dello Sviluppo economico». A tale proposito proprio da Palazzo Balbi arriva una nota firmata dall'assessore regionale all'Ambiente totalmente a sostegno del fotovoltaico. «I lavoratori e gli imprenditori hanno ragione - scrive Antonio Conte - Questa non è una protesta corporativa, ma una giusta mobilitazione per la costruzione di un futuro pulito che ci libererebbe dall'attuale dipendenza energetica. Le energie rinnovabili sono certo costose, ma a lungo termine offrono vantaggi ineguagliabili. Penalizzare il fotovoltaico è illogico ed economicamente disastroso».
Mantova. Aggredito de Marchi. Via la pochette verde «Sei leghista, fuori». «Se non sei comunista qui non bevi. Gira i tacchi e vattene». Questo si è sentito dire, ieri pomeriggio all'Arci Bocciofila del Te, il capogruppo della Lega, Luca de Marchi, mentre uno del gruppetto di 4-5 ragazzi sui 25 anni, che lo aveva avvicinato mentre era al banco, gli sfilava dal taschino della giacca il fazzoletto verde e lo gettava per terra con disprezzo. Il tutto davanti agli sguardi spaventati dei tre figli piccoli e della moglie dell'esponente leghista, e a quelli sorpresi di numerosi avventori. «Me ne sono andato - dice de Marchi - perché non volevo che ci andasse di mezzo la mia famiglia. So che l'Arci non c'entra, tant'è che il presidente provinciale Palazzi si è scusato. Mi preoccupa, però, il clima di intolleranza che si sta creando in vista delle elezioni. Quei ragazzi di sinistra, birra in mano, hanno cercato lo scontro. Comunque, non li denuncio». «C'è un clima di grande intimidazione - fa eco il candidato in Provincia Gianni Fava -. Forse la sinistra comincia ad avere paura. Questo è il frutto del clima creato da Fontanili che continua a dipingerci come eversivi o come ladruncoli. Mi auguro che il candidato del centrosinistra prenda le distanze da questo clima di intolleranza».
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