domenica 28 novembre 2010

1909, Salvemini denuncia il poteredei «baroni»


di SERGIO LORUSSO
Coniata nel 1909 da due intellettuali del calibro del pugliese Gaetano Salvemini (1873-1957) e Giuseppe Prezzolini (1882-1982), la locuzione «barone universitario» ricorre ciclicamente nelle cronache italiane, a dispetto di riforme e controriforme del mondo accademico susseguitesi negli ultimi decenni.
Un secolo fa, dalle colonne della prestigiosa rivista letteraria «La Voce» (una loro creatura), i due già si interrogano sulle radici e sulle ragioni dei potentati accademici, forti delle loro esperienze in Italia e all’estero: tra gli obiettivi della rivista, afferma in un editoriale Prezzolini, vi è quello di occuparsi «della crisi morale delle università italiane», e desta clamore, in uno dei fascicoli iniziali, un articolo di Salvemini dal titolo «Cocò all’Università di Napoli, o la scuola della mala vita», che rappresenta il primo atto della campagna contro i baronati e il dogmatismo delle università dello Stivale.
Lo storico molfettese, dopo aver conseguito a soli ventotto anni la cattedra di Storia moderna nell’Università di Messina ed essere passato agli Atenei di Pisa e Firenze, emigrerà negli Stati Uniti dove dal 1933 insegna Storia della civiltà italiana nell’Università di Harvard, per poi rientrare in Italia nel 1949 – all’indomani della caduta del fascismo – e riprendere l’insegnamento a Firenze, città dei suoi studi superiori.
Anche Prezzolini, giornalista e scrittore, può godere di un punto di vista privilegiato, avendo vissuto tra Italia, Francia e Stati Uniti, paese quest’ultimo in cui si trasferisce nel 1929 per insegnare nella Columbia University di New York. «Essere baroni è una categoria dello spirito e loro hanno sempre trovato il modo di far pesare il proprio ruolo su valvassori e valvassini», ha scritto qualche giorno fa sul «Corriere della Sera» Lorenzo Salvia, additando le facoltà di Medicina e Giurisprudenza come quelle più a rischio baronie e citando il caso dell’Ateneo barese – finito sotto le lenti della magistratura – come emblema dell’Esamopoli e della Parentopoli accademica.
Il fenomeno, tuttavia, non è esclusivamente pugliese o meridionale, anche se è soprattutto al Sud che ha assunto una dimensione giudiziaria più eclatante. In Lombardia, ad esempio, dove sono concentrati alcuni tra i più prestigiosi atenei italiani, non è mai scoppiata una vera e propria Parentopoli, ma i casi di nepotismo certo non mancano, come documentano con dovizia di particolari Davide Carlucci e Antonio Castaldo nel loro volume Un paese di baroni (Chiare lettere ed., 2009), elencando le dinastie padane. E suona come una nota decisamente stonata l’asserzione del capostipite di una di esse, Walter Montorsi, che introduce un improbabile distinguo tra il nepotismo del Sud, dove «c’è la mafia», e la «naturale trasmissione del sapere del Centronord», per poi affermare, con un certo orgoglio, che «i baroni ci sono sempre stati e continueranno ad esserci», ma che «a Milano non è come giù», perché si lavora da mattina a sera. Siamo di fronte a qualcosa che andrebbe studiato piuttosto dal punto di vista antropologico, evidenziando quelle leggi non scritte che reggono il mondo universitario e le carriere accademiche nel nostro Paese, quelle regole non codificate che stanno alla base di un sistema spesso chiuso e autoreferenziale, distante anni luce dalla concezione anglosassone dell’accademia.
Regole che, proprio perché consolidate, sono più difficili da sradicare e per il cui superamento non è sufficiente una riforma legislativa, anche se animata da buone intenzioni o annunciata come «epocale». Lo ha fatto Raffaele Simone, leccese, tra i più autorevoli studiosi europei di linguistica e di filosofia del linguaggio, in un illuminante saggio del 1993 ripubblicato in versione aggiornata nel 2000 dal titolo L’Università dei tre tradimenti (Laterza ed.), che bolla il pianeta università come arretrato, tribale, inefficiente e orientato all’autoriproduzione. È la cultura della formazione d’eccellenza e del sapere, allora, che andrebbe rifondata ab imis, restituendo dignità, autorevolezza, trasparenza e competitività ad un sistema universitario in affanno.
Se il compito è estremamente arduo, e molto più facile da enunciare che da realizzare in concreto, ciò non significa che si debba rinunciare in partenza. «Ci sono uomini colti persino tra i professori», affermava con non poca ironia Prezzolini, che dipingeva l’Italia come una terra di grandi ingiustizie, nella quale «non si può ottenere nulla per le vie legali, nemmeno le cose legali», raggiungibili soltanto «per via illecita: favore, raccomandazione, pressione».
L’Università come specchio del nostro Paese, allora? Forse sì, ma solo in parte. Salvemini, il «professore sovversivo» di Molfetta costretto all’esilio durante il regime fascista, che in una lettera al rettore dell’Ateneo fiorentino aveva chiarito le ragioni della sua rinuncia alla cattedra per essere venute meno le condizioni di un insegnamento veramente libero, il censore dell’Italia dei potenti, delle inefficienze, delle lentezze e degli scandali refrattario ai compromessi, visse sempre all’insegna del motto «fa’ quello che devi, avvenga quello che può».
Salvemini tornò alle redini della «sua» cattedra fiorentina quasi vent’anni dopo – grazie all’ostinazione di Piero Calamandrei e di Ernesto Rossi – alla veneranda età di settantasei anni, per continuare a svolgere la sua battaglia contro il nozionismo e l’incapacità di formare delle vere coscienze critiche, piaga del nostro sistema formativo. Non sempre, in definitiva, «docente» fa rima con «incompetente» o con «potente».
28 Novembre 2010
Fonte: 
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=385762


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