domenica 28 novembre 2010

L’incubo di Erode nell’affare della monnezza lucana


28 novembre 2010
Se non si possono mandare sulla luna, vuol dire che li dobbiamo bruciare, è il luogo comune che sentiamo dire in questi giorni di emergenza rifiuti anche in Basilicata.

L’emergenza non facilita un approccio sereno alla complessa dinamica della gestione dei rifiuti, ma anzi favorisce le soluzioni falsamente definitive e falsamente rapide, perché per realizzare un inceneritore, o anche semplicemente per mettere a norma quelli esistenti, oltre a cifre folli, occorrono tempi lunghi. Gli stessi del ciclo virtuoso della raccolta differenziata, che però costa molto meno ai cittadini ed è politicamente corretta verso l’ambiente del territorio e la salute dei suoi abitanti.

Motivo che con molta probabilità rende il partito degli inceneritori molto forte in Basilicata, regione nella quale, pur non vivendo livelli di allarme campani, gli scarti del consumismo della nostra era galleggiano tra l’essere un problema e un affare.

Il rifiuto solido urbano, RSU, la comunissima “monnezza”, per intenderci, resta tale solo per il cittadino, perché gli puzza in casa e non sa come disfarsene. Tanto che decide di pagare una tassa, la Tarsu, e di demandare ad altri gestione e trattamento. Dal momento in cui il cittadino se ne disfa, l’immondizia incomincia a diventare un problema amministrativo e, come ci insegnano le recenti cronache di Napoli, ma anche della nostra Potenza, diventa persino una questione sociale, di salute e di ordine pubblico.
Tra l’altro, la vecchia discarica di conferimento per rsu non esiste più, dal momento in cui il decreto legge 36/2003 con successiva modifica n. 13/2009, ha riclassificato le discariche in tre soli tipi, per inerti (scarti di edilizia), per rifiuti non pericolosi (rsu e scarti industriali non tossici) e per rifiuti pericolosi (ceneri, scarti degli inceneritori, sostante tossiche).
Una riclassificazione che rende evidente come il rifiuto prodotto dalle famiglie smette di essere un effetto collaterale del consumismo familiare per essere equiparato a scarti della lavorazione delle concerie, a rifiuti dell’industria tessile o della raffinazione del petrolio e dei processi di chimica organica.
Cioè, diventa un problema nel problema, perché questa nuova classificazione delle discariche rompe gli argini comprensoriali e territoriali delle discariche lucane aprendole anche a rifiuti non prodotti in loco, ma magari provenienti dalle concerie di Avellino, come è accaduto alla discarica poi messa tempo fa sotto sequestro di Tricarico. Tra uno sversamento e l’altro, tra un traffico e l’altro, magari capita anche che vengano liberate sostanze pericolose, trasformando il rifiuto e le discariche anche in un affare, senza escludere, purtroppo, le sue possibili implicazioni di malaffare.

La 36/2003, e la sua modifica del 2009, è una legge che rende senza confini e con maggiori difficoltà di controllo ogni discarica presente e invita a realizzarne sempre di nuove e di più grandi. Contravvenendo a quello che dovrebbe essere l’approccio più corretto in tema di sversamenti di rifiuti da fare in discariche di piccole dimensioni, poco impattanti e più facilmente controllabili, ma soprattutto orientate a gestire i rifiuti anche e solo delle attività produttive prevalenti del proprio territorio. Senza indurre in tentazione chi tra discariche e immondizia realizza affari notevoli a discapito di salute e ambiente.

Eppure è possibile pensare ai rifiuti né come affare né come problema, ma come ciclo virtuoso che riduce i volumi da conferire in discarica, produce compost verde (concime naturale – non compost grigio, differenza da rimarcare perché il compost grigio è materiale secco da inceneritore), ricicla la plastica, il vetro e la carta producendo risparmio e persino economia e occupazione.

Come inizieranno a provarci cinque comuni del Metapontino: Montalbano Jonico, Bernalda, Montescaglioso, Pisticci e Scanzano Jonico che realizzeranno un vero impianto di compostaggio per la produzione appunto di compost verde da utilizzare in un’area agricola, il Metapontino, che, guarda il caso, è stata classificata di recente da una direttiva europea proprio come area nazionale vulnerabile ai nitrati. E dunque, un po’ di compost verde naturale non gli farebbe male, anzi, ridarebbe nuovi equilibri ai terreni e agli impianti agricoli. I cinque centri lucani si apprestano ad un percorso comune che andrà anche oltre, perché cercherà di far rapportare direttamente i cittadini dei sei comuni (circa 60 mila abitanti) con il recupero della plastica, della carta e del vetro da riciclare con una collaborazione più stretta e diretta con il Conai. Il Conai è un consorzio che raccoglie aziende di riciclo e che, conferendo direttamente al consorzio plastica, carta e vetro, e non alle società di raccolta dell’immondizia, renderà tangibile alla gente i vantaggi della raccolta differenziata, distribuendo ai singoli cittadini, e non ad un ente terzo, il valore economico di quanto differenziato. Tra i cinque comuni e la Provincia di Matera, per la verità, c’è la volontà è di andare ben oltre sul versante delle buone intenzioni, con un accordo – per ora di principio – per una realizzazione in Val Basento, nell’immediato futuro, anche impianti per riciclare la plastica, la carta e il vetro prodotti in loco e nelle aree limitrofe, con lo scopo di realizzare anche occupazione e mercati dal rifiuto differenziato.

Un atteggiamento che è esattamente l’opposto di una certa cultura dell’emergenza che porta invece – strumentalmente – a sbrigativi e falsamente risolutivi percorsi di incenerimento dei rifiuti, creando facili luoghi comuni sull’efficacia distruttiva degli inceneritori. A parte gli enormi consumi di acqua (bisogna raffreddare ciò che si brucia) che possono inquinare le falde come è successo non in Kazakistan, ma con l’inceneritore di casa nostra, Fenice di Melfi, è bene sapere che l’incenerimento dei rifiuti non distrugge nulla.

Purtroppo per i fautori di questo enorme affare privato, l’inceneritore, o termovalorizzatore, si limita semplicemente a ridurre di volume i rifiuti bruciati, trasformandoli, però, da non pericolosi in rifiuti speciali e pericolosi da destinare a specifiche e costose discariche.

Quattrocento euro la tonnellata è, infatti, il costo del deposito in queste discariche, un affare nell’affare, tanto è che dovunque deve arrivare un inceneritore, si osserva in genere la presenza o la previsione di una discarica per rifiuti speciali e pericolosi. Senza dimenticare gli elevati rischi di inquinamento per l’immissione in aria di polveri pm10, diossina e cov, componenti organiche volatili. Che per quanti filtri innovativi la tecnica si possa inventare, non lascerebbero mai tranquilli gli abitanti nei dintorni di un inceneritore. Come dimostrato da diverse decine di studi di settore. Uno dei più recenti è lo studio inglese (Uk Healt Reasearch, 2009) sull’inceneritore di Kirkless, denominato “l’inceneritore di Erode” perché lo studio, durato ben 4 anni, dal 2004 al 2008, ha analizzato la mortalità infantile. Risultata 5 volte superiore rispetto alla norma. Lo studio è andato oltre il dato generico ottenuto, valutando anche la percentuale di mortalità infantile in relazione all’andamento del vento nella cittadina dello Yorkishire. Disarmante la risposta ottenuta dallo studio: le zone sottovento, più esposte alle emissioni dell’inceneritore, presentano una percentuale di mortalità del 9.6 per mille contro l’1,1 per mille delle zone sopravento. Il che vuol dire che i lucani che avranno in regalo un inceneritore sotto casa, si preparino a studiare l’andamento del vento: potrebbero statisticamente averne un vantaggio. [Articolo di Enzo Palazzo]
FONTE:
http://www.olambientalista.it/index.php/erode-monnezza-lucana/


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