Venerdì 12 Novembre 2010 16:49
Di pitagorico.
Se, come tutto lascia prevedere, la crisi di Governo e di legislatura andrà a compimento, Taranto verrà probabilmente penalizzata, perché non verranno finalizzate le scelte di investimenti e progettualità compiute negli anni passati. Verrà certamente penalizzato l’intero Mezzogiorno, perché resterà bloccato l’intero sistema allocazione di risorse, finanziamento di progetti, avvio di infrastrutture, che avrebbero dovuto dare respiro ad un Sud in forti difficoltà. Merita, però, una riflessione più generale, la condizione di inferiorità ormai strutturale che il Mezzogiorno ( e quindi Taranto), ha assunto rispetto al resto del Paese.
La geografia politica dell’Italia ed i rapporti di forza emersi dalle urne nella seconda Repubblica, vedono un Mezzogiorno che esprime il proprio consenso in maniera instabile e mutevole, secondo la logica del votarecontro, che ha favorito alternativamente le diverse coalizioni, senza alcun ritorno in termini di influenza sulle scelte nazionali.
Il Mezzogiorno si presenta perdente di fronte ad un Nord forte, sostenuto e trainato da PdL e Lega; ad un Centro tutelato dal Pd, consolidata forza di Governo nelle Regioni centrali e principale forza di opposizione nel Paese. Il sistema bipolare, artificiale e con tentati sprazzi bipartitici, ha creato, di fatto, una marginalizzazione proprio del Mezzogiorno.
Dopo quasi un ventennio, esso non ha rappresentanza politica adeguata e reale; né tantomeno può colmare tale vuoto il tentativo di improbabili ed improponibili Partiti del Sud, eredi di un meridionalismo fallimentare, fatto di sterili rivendicazioni, di richieste di trasferimenti di risorse finanziarie, senza progetti strategici di crescita e di sviluppo, e senza alcun onere di rendicontazione.
Anche il livello del confronto istituzionale, vede il Mezzogiorno debole e assente. Il Mezzogiorno è escluso dalle sedi decisionali, per logica di sistema; con la forza della volontà e della ragione, ci si può sempre opporre, ma esso risulta subalterno e passivo anche in virtù del fatto che le Regioni Meridionali non hanno la legittimazione virtuosa, per opporsi a provvedimenti che pure mettono in serio predicato l’unità sostanziale del Paese.
I fallimenti delle politiche per il Mezzogiorno, quand’anche ci siano state, negli anni in cui si sono alternati alla guida dei governi locali e nazionali maggioranze e coalizioni di segno opposto, hanno lasciato alcune Regioni del Sud esposte all’influenza nefasta dei poteri mafiosi, creando un’emergenza di ordine legalitario e democratico. In questo contesto si pone il problema di come si seleziona la classe dirigente e di come si costruisce il consenso elettorale, che è l’elemento reale per incidere e modificare gli assetti costituiti. Se è vero, infatti, che il federalismo, specie quello fiscale, può rappresentare uno strumento valido per la responsabilizzazione degli amministratori locali, è altresì illusorio pensare, che efficienza e responsabilità, si affermino solo con la minaccia della punizione dell’elettorato, che non sempre penalizza i “cattivi” (soventemente avviene il contrario); ma ricorrendo a meccanismi e sanzioni effettive, a nuovi strumenti legislativi che prevedano una netta separazione tra controllore e controllato e finanche ineleggibilità e decadenza nei casi di gestioni irresponsabili. L’attuale sistema politico– istituzionale non ha portato bene al Mezzogiorno d’Italia; ne ha aggravato le condizioni privandolo di quel contrappeso politico rappresentato da grandi forze nazionali, con forti radici nel Mezzogiorno, rispetto ad un potere economico e finanziario concentrato nel Centro - Nord. La domanda che nasce dall’esperienza delle cose, è se vi è la possibilità di una modifica significativa degli assetti politici ed istituzionali, con una nuova legislatura; ma soprattutto il problema è in che modo e chi riuscirà a far diventare il Mezzogiorno un protagonista attivo della politica e non soltanto un passivo ricevitore di ipotetici, quanto inesistenti benefici.
Avevamo chiesto alla comunità tarantina un impegno diretto e visibile, capace di sostenere le scelte di sviluppo per il porto di Taranto che dovevano essere prese a livello di governo e di Parlamento.
Avevamo sollecitato, al di là delle collocazioni politiche e di schieramento, i soggetti responsabili nelle istituzioni, ad esprimere la loro volontà di contribuire agli interessi del territorio ed esercitare tutta l’influenza possibile nelle sedi decisionali. Avevamo chiamato alla pubblica rappresentanza di interessi economici e sociali legati al superamento della crisi di Taranto, coloro che erano stati nominati ed eletti in questa funzione. Da molto tempo non avevamo assistito ad una così convinta e diffusa partecipazione, nella comunità tarantina. Molti di coloro che hanno responsabilità dirette o mediate, si sono espressi con chiarezza sull’importanza della svolta che la realizzazione delle attività commerciali e logistiche nel porto di Taranto può avere sull’intero territorio. Politici e sindacalisti, operatori economici e figure istituzionali, esponenti del mondo culturale e dei servizi, si sono pronunciati, quasi a riprova di un vento nuovo che sembra si stia levando nella terra jonica. Probabilmente sta cambiando l’antropologia del tarantino: da un comportamento polemico o indifferente, attento piuttosto alle difficoltà del vicino che alle proprie opportunità, si comincia a delineare un tarantino impegnato nel fare, perché ottimista sulle prospettive e convinto di poter crescere sul proprio lavoro e sulle opportunità e risorse. Siamo eccessivamente benevoli? Per una volta ci fa piacere esserlo, anche perché riteniamo che il fondo sia stato ormai raggiunto e risalire sarà possibile soltanto se ne saremo tutti convinti e, soprattutto, ne saremo attori consapevoli.
“Le parole sono pietre”, scriveva Carlo Levi negli anni del meridionalismo protagonista di una nuova stagione di democrazia nel Sud. Possono essere pietre da lanciare contro qualcuno o qualcosa; ovvero pietre con le quali costruire le basi di strutture civili stabili ed importanti, nelle quali vivere. Le parole di questi giorni, potrebbero essere del secondo genere, perché rappresentano piuttosto la convergenza su un obiettivo e la condivisione di una battaglia. Per una volta non abbiamo letto insulti fini a sé stessi; e le polemiche, sono servite soprattutto a chiarire le posizioni ed a sollecitare gli impegni.
Nei prossimi giorni vedremo come andranno le cose; speriamo bene. Ma in ogni caso, vogliamo sottolineare questo passaggio positivo, nel modo di essere cittadini della comunità jonica.
Nei prossimi giorni si deciderà se il Porto di Taranto resterà una entità fisica, divisa in tante autonomie funzionali (Marina Militare, Siderurgia, Raffineria, Container); ovvero al suo interno si inserirà una componente dinamica capace di innestare dei processi innovativi e creativi che ne sviluppino la capacità commerciale e l’offerta logistica.
Oltre sette anni fa, l’Autorità Portuale ed un gruppo di imprenditori privati, dettero vita ad un progetto di finanza finalizzato alla realizzazione di una Piattaforma Portuale logistica che consentisse al terminal container di essere qualcosa di più di una semplice stazione di smistamento, senza ritorni economici e commerciali sulla città.
Il progetto era tecnicamente ed economicamente ineccepibile; la qualità e la affidabilità degli imprenditori privati, di assoluta certezza; le disponibilità finanziarie furono reperite ed accantonate per l’utilizzo. Il Cipe approvò il progetto; il bando internazionale venne espletato in piena trasparenza e regolarità; tutti gli stadi di progettazione vennero portati a compimento. Poi avvennero strani avvenimenti che riguardarono le nomine all’Autorità Portuale, contestate fino al commissariamento della stessa; rallentamenti e ritardi ad opera di una burocrazia incapace di cogliere il valore economico dei tempi di realizzazione di questa opera; resistenze da parte di chi aveva, all’interno del demanio portuale, nicchie di privilegio che ostacolavano obiettivamente ogni possibilità di sviluppo. Come abbiamo già ricordato, questi ritardi (non dimentichiamo che si tratta di sette anni) hanno determinato un incremento dei costi che deve essere coperto, anche per evitare contenziosi ed ulteriori ritardi. Gli accordi tecnici ed economici sono stati raggiunti, anche grazie alla attiva iniziativa del Commissario all’Autorità Portuale di Taranto. Si tratta ormai di una ratifica formale da parte del Cipe, che approvando questi accordi, attiverebbe un investimento di oltre duecento milioni, destinato a provocare in incremento di attività economica e commerciale di grande rilevanza.
Ci siamo, dunque. Ma, come sempre nel nostro Paese, non esistono certezze, anche quando tutto sembra corrispondere ad una logica economica ed all’interesse generale e di una Comunità. Pensiamo sia giunto il momento che questa Comunità si faccia sentire. Vogliamo ascoltare la voce delle Istituzioni elettive, che non hanno diretta responsabilità decisionale in questa faccenda, ma dovrebbero rappresentare gli interessi essenziali del territorio che amministrano; e quindi di questi interessi debbono farsi carico con forza e determinazione.
Vogliamo ascoltare la voce degli operatori economici, che da questa iniziativa possono ottenere riferimenti importanti, nell’immediato e nel futuro, per impostare la loro attività di impresa ed i progetti di sviluppo. Vogliamo sentire la voce dei sindacati, che hanno bisogno di più interlocutori sui quali poggiare le prospettive di crescita dell’occupazione e del reddito delle famiglie. In sostanza vogliamo vedere come l’orgoglio della città, sia capace di essere protagonista del suo avvenire, in un passaggio cruciale dal quale nessuno dovrà tirasi indietro.
Non vale, quindi, il costante richiamo agli aiuti di Stato che hanno sostenuto la fabbrica torinese per oltre 50 anni. La seconda è che la ricostruzione della Fiat avviene nel contesto del mercato globale, con tutte le sue opportunità ed i suoi rischi; non c’è quindi nessuna intenzione da parte della nuova società e dei suoi amministratori, di chiedere interventi di sostegno allo Stato italiano, ma piuttosto una politica industriale compatibile con gli obiettivi multinazionali dell’azienda. La terza, ed è la più importante dal nostro punto di vista, che il vero interlocutore di Marchionne sono i lavoratori, e quindi i sindacati che li rappresentano. Infatti, nell’intervento dell’italo-canadese, la richiesta che viene costantemente ribadita è quella di una maggiore produttività del lavoro, una migliore efficienza del sistema delle relazioni industriali, ed una più forte competitività. Se anziché ripetere i logori schemi che fanno della nostra classe politica uno dei peggiori interlocutori possibili per un processo di sviluppo, ammantandosi virtuosamente del ruolo dei difensori dei contribuenti, in questi giorni si fosse meglio riflettuto sui problemi posti da Marchionne, probabilmente si sarebbero meglio comprese alcune cose. Cioè che da questa presa di coscienza della crisi industriale ed economica del nostro Paese, emerge il ruolo del sindacato nella sua importanza innovatrice. Risulta visibile, infatti, quanto stia tornando essenziale la componente del lavoro nel processo produttivo, rilanciando la figura del nuovo lavoratore, non subalterno o marginale ma prioritario nella crescita dell’economia reale. Che queste cose ce le debba dire un manager del capitalismo industriale, è il segno dei tempi e della debolezza culturale ed intellettuale della nostra classe politica. Anziché ascoltare le stupidaggini di Calderoli, o le banalità di Fini, in risposta a Marchionne, vorremmo ascoltare i sindacati; perché aspettiamo da essi le risposte adeguate alla domanda di produttività e competitività; il rinnovamento nella cultura del lavoro e nelle sue proposte operative; l’assunzione morale di un ruolo primario nella rinascita e nello sviluppo della nostra industria e della nostra economia. Applichiamo a Taranto il linguaggio di Marchionne: sollecitiamo le forze del lavoro ad essere parte attiva di una riorganizzazione dei sistemi produttivi e delle relazioni industriali; usciamo dalla difesa dei privilegi e delle nicchie protette; rilanciamo, nella realtà jonica, una nuova cultura del lavoro, che assuma la guida del risanamento e del ri-sviluppo nella nostra comunità. Abbiamo l’occasione, nella città jonica, di partire da una base industriale importante e strutturata; abbiamo generazioni di tecnici ed operai che si sono formati nella capacità e nella coscienza in una realtà industriale che ha assunto, nel passato, livelli di eccellenza; finalmente si sta cominciando a capire che dalla crisi si esce facendo crescere l’economia reale, non dando fiato alle chiacchiere. Per questo qualcuno prenda l’iniziativa.
Fonte: http://www.tarantosera.com/
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