di Paolo Barbuto
NAPOLI (18 novembre) - «Chi sei? Che vuoi? Vattene, vai via». All’avvicinarsi delle voci e dei passi s’è rifugiato in fondo, nel buio, e ha pensato: il pericolo passerà come al solito. Quando rumori e parole hanno cominciato a rimbombare dentro la sua «casa» è stato costretto a venire fuori, a difendersi, a proteggere il suo territorio. Non è alto, ha occhi bianchissimi e sbarrati sul volto nero pece: una grotta è l’unico rifugio che ha trovato.
Non cercateli più nel sussidiario dei vostri bimbi: gli uomini delle caverne non sono quelli disegnati sui libri di scuola, sono i nuovi disperati di oggi che cercano un riparo, qualunque esso sia. Così accade che nel 2010, nella terza città d’Italia si stia creando un nuovo popolo delle caverne.
L’incontro, fortuito, è avvenuto nel vallone San Rocco, a duecento metri di distanza dal Policlinico durante un sopralluogo per scoprire dove vanno a finire i liquami sversati dalla collina, oggi incanalati verso la nuova e avveniristica struttura di raccolta.
La strada del vallone ha un nome da giostra, si chiama «saliscendi»: per metà è rifatta di fresco ma nella parte superiore, quella che va a sbucare di fronte all’ingresso del Policlinico, è ancora devastata. La forza dell’acqua che scende con violenza a ogni acquazzone, ha scavato voragini impressionanti, larghe due metri e altrettanto profonde.
La strada si infila in un verde fitto e intenso. La vegetazione ha avvolto ogni cosa, soprattutto le tonnellate di rifiuti con le quali i napoletani, dal dopoguerra a oggi, hanno umiliato la natura. Sul fianco della collina di tufo si aprono decine di cave, oggi abbandonate. Quelle più accessibili vengono usate come riparo dai nuovi uomini delle caverne.
Aziz, dice che il suo nome è questo ma pare che stia mentendo. Lui è il re degli uomini delle caverne, il primo a insediarsi nell’area, l’unico a resistere da più di due anni lì dentro: «Guarda che non c’è freddo. In fondo alle grotte la temperatura è costante d’estate e d’inverno. Basta organizzarsi».
La caverna è organizzata secondo un ordine preciso. Nella parte più esterna ci sono la zona giorno (con tanti libri e coperte per rendere confortevole la seduta sul tufo), e la zona bagno (con la carta igienica appoggiata su un masso). I bisogni si fanno quasi all’esterno, in una parte che viene raggiunta dall’acqua piovana, così ogni tanto giovepluvio cancella escrementi e puzza.
A metà della grotta pendono i viveri: sono appesi a una busta per evitare che topi e randagi possano raggiungerli. In fondo, dove c’è buio anche di giorno, c’è il posto per dormire: «Faccio il manovale, vado a farmi ingaggiare alla rotonda degli ospedali. Chi arriva per primo trova sempre qualcuno che lo porta al cantiere, io mi presento quando è ancora buio. Qui ci torno solo di sera, mangio scatolette o panini. Mi faccio luce con una torcia, e quando non ho le batterie uso le candele. Non è male».
La tensione è stemperata, il moderno uomo delle caverne certe volte sorride. Niente foto, però «se mi riconoscono pensano che sono un senzatetto e non mi fanno più lavorare». Si lava nei cantieri dove va a lavorare, di tanto in tanto ospita qualche disperato come lui, ma solo dietro promessa che non rivelerà il segreto di quel posto «perché se diventiamo troppi finisce che ci mandano via. E io dove vado a dormire?».
Nella zona hanno imparato a conoscere «l’uomo delle caverne» che è diventato una figura familiare. È gentile e cordiale, quando incontra qualcuno è sempre il primo a salutare chinando un po’ il capo «mia mamma mi ha insegnato che è meglio salutare per primo, così gli altri avranno fiducia in te». Non parla con piacere di razzismo: «Quelli che mi chiamano sporco negro sono pochi. Ho incontrato molte più persone che mi hanno chiesto se avevo bisogno di aiuto».
I libri che raccoglie ovunque gli servono per imparare l’italiano. Legge qualunque cosa, anche i volantini dei supermercati «ma quello che preferisco sono i libri delle scuole elementari. Sono facili e insegnano bene». In una cornice azzurra la foto di una ragazza «ma è ritagliata da un giornale, faccio finta che sia la mia fidanzata». Da una parte due immagini della Madonna e di Madre Teresa: «Qui a Napoli ho scoperto che tutti si rivolgono alla Madonna, lo faccio anche io, spero che mi protegga. Ma io non sono cristiano né musulmano. Non sono niente». E quelle ultime tre parole suonano come uno schiaffo in faccia: c’è un uomo che nel 2010 vive in una caverna, dice di non essere niente, però non smette di sorridere e dice che sulla sua strada ha incontrato solo brave persone.
18 novembre 2010 | 13:54
Fonte:
http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=127255&sez=NAPOLI#
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