venerdì 31 dicembre 2010

Marchionne, l'italiano scomodo

di SERGIO ROMANO
Nel discorso che Sergio Marchionne ha pronunciato a Fernambuco per l'inaugurazione del nuovo stabilimento della Fiat in Brasile, la parola Italia non esiste.


L'amministratore delegato di Fiat-ChrysIer ha ricordato l'antica presenza dell'azienda torinese nel Paese, ma non ha neppure accennato al tema - l'emigrazione italiana - che apparteneva in passato al bagaglio oratorio di qualsiasi imprenditore italiano nel continente latino-americano. Qualche critico di Marchionne sosterra' che l'omissione non e' casuale, ricordera' le sue tre appartenenze nazionali (italiana, canadese, svizzera) e ne concludera' che l'amministratore delegato dell'azienda torinese e' un corpo estraneo, un mercenario del capitalismo al soldo degli americani e un «cosmopolita», parola che nel linguaggio della sinistra e' sempre stata sinonimo di sradicamento sociale, egoismo di classe, indifferenza ai valori della solidarieta'. Qualcuno infine dira' che e' un «anti-italiano». Non conosco i sentimenti di Marchionne. Non so quale dei suoi passaporti abbia per lui maggiore importanza e se il ricordo dell'Abruzzo perduto (e' nato a Chieti) sia piu' vivo e struggente dei suoi ricordi canadesi. Mi limito a osservare che una definizione piu' precisa potrebbe essere quella di «contro-italiano» o italiano controcorrente, nel senso che la parola ha avuto nella bella rubrica giornalistica di Indro Montanelli. Non e' il solo. Appartiene a un gruppo di italiani che, ciascuno nel proprio settore e con le proprie caratteristiche, hanno avuto il merito di non lasciarsi imprigionare in quel complicato intreccio di compromessi, patti di reciproca convenienza, luoghi comuni, «correttezza» politica e sindacale che formano il retaggio di un'Italia bizantina, arcadica, conformista e contro-riformista. Per restare nell'ambito del secondo dopoguerra penso, per fare soltanto qualche esempio, a Ugo La Malfa, Guido Carli, Cesare Merzagora, Mario Monti e, nel campo dell'informazione, a Montanelli, Leo Longanesi, Mario Pannunzio. Possono commettere errori e proporre soluzioni sbagliate o poco realistiche, ma sono coraggiosi, irriguardosi, spregiudicati, e riescono a rimettere in discussione problemi di cui si parla soprattutto per non decidere e non cambiare. Ne abbiamo avuto la dimostrazione in questi mesi quando la politica aziendale di Marchionne ha forzato la mano di Confindustria, diviso il quadro politico e sindacale, spiazzato lo stesso governo e infine riaperto il dibattito sulla rappresentanza dei lavoratori nelle aziende. Abbiamo una legislazione sul lavoro che scoraggia gli investimenti stranieri e che, come Pietro Ichino ha ricordato ieri sul Corriere, non puo' neppure essere tradotta in inglese, tanto e' complicata e involuta. Abbiamo norme costituzionali invecchiate o, peggio, non applicate. Abbiamo minoranze sindacali che sviliscono i diritti delle maggioranze. Se il quadro si e' finalmente mosso e qualche sindacato si prepara a rivedere l'intera materia con nuove proposte, il merito e' in buona parte di Marchionne. Come ho scritto su questo giornale dopo il suo discorso di Rimini, so che le sue posizioni sono dettate dall'esigenza di non deludere gli azionisti americani di Chrysler e il governo degli Stati Uniti. Ma credo che gli vada riconosciuto il merito di avere scritto la nuova agenda sindacale italiana. E questo lo rende piu' italiano, ai miei occhi, di quelli che avrebbero preferito lasciarla com'era.
 

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