sabato 1 ottobre 2011

Federali.sera_1.10.11. Il Cipe padano distribuisce noccioline alle scimmiette meridionali.----Potenza – Sono due, per un importo di 22 milioni di euro, gli interventi previsti dal Cipe per l'Università della Basilicata, a Potenza: 15 milioni di euro saranno destinati alla realizzazione di una casa dello studente, sette milioni per la riqualificazione urbana di un’area dismessa con la realizzazione di una “piastra attrezzata” per il polo universitario di via Nazario Sauro.----Paolo Coltro: Affratellati in un Nordest più o meno economicamente coeso da lunga data, ma di nuovo conio in quanto brand, soggetto identitario da spendere nel mondo. Questo malloppo di idee e progetti è il lascito, il risultato finale di più anni di riflessioni, spinte, speranze e progettualità messe insieme per iniziativa di Nordesteuropa, casa editrice creatura di Filiberto Zovico: in realtà elemento di aggregazione di forze economiche, roulotte di idee che negli anni ha viaggiato a destra e a manca in questa nostra terra, spingendosi a mettere il naso fuori dai confini veneti per curiosare, e seminare, a Trieste, a Trento e Bolzano, nelle contigue pianure friulane.

Dal Cipe 22 milioni ad Ateneo Potenza per due progetti
Pensatoio Nordest Il dossier con le idee per diventare capitale
Vogliono salvare le guardie padane
Anche i tedeschi hanno 120 mld neri nella sola Svizzera
Ma una cosa è certa: il Ticino deve pagar meno
Svizzera. Primo passo per mantenere l’unificazione monetaria


Dal Cipe 22 milioni ad Ateneo Potenza per due progetti
POTENZA – Sono due, per un importo di 22 milioni di euro, gli interventi previsti dal Cipe per l'Università della Basilicata, a Potenza: 15 milioni di euro saranno destinati alla realizzazione di una casa dello studente, sette milioni per la riqualificazione urbana di un’area dismessa con la realizzazione di una “piastra attrezzata” per il polo universitario di via Nazario Sauro.
La sede della Casa dello Studente, è scritto in una nota dell’ufficio stampa della giunta regionale, sorgerà nei pressi del Campus Universitario di Macchia Romana: sono previsti 220 posti letto, e l’edificio sarà dotato di apparecchiature per l'autosufficienza energetica. I lavori dovrebbero essere conclusi entro novembre 2014.
Entro novembre 2013, invece, dovrebbe ultimarsi l’altro intervento, la “piastra attrezzata”: si tratta di una mensa, di una mediateca, di un centro di lettura e socializzazione con un deposito librario e un’area di deposito a supporto degli uffici dell’Università. L’area scelta è quella delle vecchie serre dell’Ateneo, in via Tansillo.
30 Settembre 2011

Pensatoio Nordest Il dossier con le idee per diventare capitale
Verrà consegnato domani a Cipolletta, coordinatore del Comitato scientifico. Una base per i progetti
di Paolo Coltro
Sono 247 grammi di carta, 52 pagine zeppe di parole fitte a interlinea uno: eccolo, il dossier che domani verrà consegnato a Innocenzo Cipolletta, coordinatore dei Comitato scientifico per la candidatura di Venezia con il Nordest a capitale della cultura europea 2019. Ma quanto pesano le idee? Moltissimo, o magari solo 247 grammi, dipende: da quel che se ne fa. Su queste carte ragioneranno i sette membri del Comitato Scientifico, e poi il direttore di candidatura, e forse anche i soci fondatori, che sono istituzioni ma incarnate in corpi di politici: i presidenti delle Province autonome di Trento e Bolzano, il presidente della Regione Veneto e quello della Regione Friuli Venezia Giulia, il presidente della Provincia di Venezia, il sindaco di Venezia. Affratellati in un Nordest più o meno economicamente coeso da lunga data, ma di nuovo conio in quanto brand, soggetto identitario da spendere nel mondo. Questo malloppo di idee e progetti è il lascito, il risultato finale di più anni di riflessioni, spinte, speranze e progettualità messe insieme per iniziativa di Nordesteuropa, casa editrice creatura di Filiberto Zovico: in realtà elemento di aggregazione di forze economiche, roulotte di idee che negli anni ha viaggiato a destra e a manca in questa nostra terra, spingendosi a mettere il naso fuori dai confini veneti per curiosare, e seminare, a Trieste, a Trento e Bolzano, nelle contigue pianure friulane. Un lavorìo nemmeno tanto oscuro, con l'idea principe di "portare a casa" quell'investitura nel 2019: un volano per il nuovo Nordest.  Perché di questo si parla e si discetta: di un Nordest che deve uscire dalla vecchia pelle, consunta e sfruttata, e rigenerare cellule velocemente. Quel Nordest, quello del "modello", dei metalmezzadri, della fabbrica e del campanile, delle mille zone industriali e artigianali, dei particolarismi e delle microgenialità in serie, pare abbia fatto il suo tempo.  Per chi vede tutto attraverso gli occhiali dell'economia, altro è lo scenario non si dice futuro, ma già presente. Come competere? Ecco che un piedistallo europeo come la capitale della cultura può essere l'elemento di stimolo decisivo, quell'obiettivo in più che accorcia i tempi. Ma come? Approfittiamo della cultura, scrivono all'unisono i responsabili dei dodici gruppi di studio che le hanno pensate tutte: ma per «ridisegnare l'organizzazione del territorio, le sue funzioni, individuando le linee per un nuovo sviluppo industriale e culturale». E se pare giunto il momento di reinventarsi un Nordest che ha già inventato, ha già dato, ha già delocalizzato e ultimamente ha già sofferto, bisogna fare attenzione a non adoperare la cultura soltanto come un cavallo di Troia. Leggerà, Cipolletta, come si punti sui sistemi di comunicazione: fisici prima ancora che cerebrali. Ecco allora l'asse "autostradale" della A4 e della A22, longevo e utile ma non più solo. Perché la considerazione ora deve andare alla grande area Pedemontana, ovviamente con la sua bella arteria d'asfalto: che sarà l'ultima, giurano i pensatori del futuro, perché poi nel Nordest non serviranno più grandi strade. Ma ferrovie, piuttosto: soprattutto AC e AV, fuori dal gergo Alta Capacità e Alta Velocità, e poi la metro di superficie che dovrebbe diventare ragnatela. Discorsi già fatti, e magari sempre utili.  Ma allora, dov'è la cultura? E' soprattutto nella «svolta culturale», che impone pareti di sesto grado. Inanzitutto, bisogna convincersi gli uni gli altri che la casa è veramente la stessa, così come il dna. Bisognerà convincere un rodigino che è un po' mitteleuropeo, e uno schutzen che un lidense ragiona come lui; che si può essere carnici da due parole al giorno o ciacoloni pavani, ma è lo stesso. Buona arrampicata. Spiegano con entusiasmo i teorici: «Qualsiasi scelta identitaria si basa sulla differenziazione, su ciò che rende unico il Nordest rispetto alle altre regioni d'Italia e d'Europa». Lo dice Renzo di Renzo, direttore artistico di Treviso Design, che immagina «tutto il territorio in una veste nuova, nella quale si possano identificare tutti gli attori che vi appartengono». E quindi bisogna «individuare un sogno, un'idea, una visione in grado di rappresentare le apsirazioni della comunità». Insomma, occorre un'invenzione, che superi di slancio la storia, la nebulizzi per farla ricadere come rinfrescanti goccioline uguali per tutti.  Difficile, ma possibile, soprattutto se si guarda (con una qualche ossessione) all'economia. Si dirà: è in ballo il futuro, mica solo la candidatura europea. Ed in effetti è questa l'idea cardine: non si lavora per un evento che accadrà nel 2019, ma per una reale trasformazione che cambi molto se non tutto. Si parte comunque dall'imprenditoria, assurta a protagonista inevitabile, lo sviluppo passa tutto di lì, cervelli e portafogli del piccolo-grande capitale. L'impressione è che tutti gli altri (il settore pubblico, la società e via elencando) siano solo comprimari, il che forse non è. Dice Cristiano Seganfreddo, manager culturale: «Le nuove ville palladiane del Nordest sono le imprese creative», a suggello di uno studio puntuale sulla capacità della cultura di creare ricchezza. Ma quella di Seganfreddo è una delle riflessioni che fa tirare un respiro di sollievo: «Pensare ad una nuova economia, che veda come punto finale da raggiungere benessere e felicità. Non solo Suv e villette a schiera. Ma luoghi di lavoro e di vita intelligenti e stimolanti per costruire la ricchezza in modo inverso. Diventare sostenibili anche nel fare impresa».
30 settembre 2011

Vogliono salvare le guardie padane
di Guidobaldo Sestini  
Il ministro alla Semplificazione, Roberto Calderoli, quando aveva innescato il famoso rogo di migliaia di norme inutili, c'aveva messo anche quella: la legge che introduceva il reato di associazione a struttura militare.
La norma però teneva sottoprocesso 36 militanti leghisti veneti che si erano «arruolati» nella Guardia nazionale padana e per questo indagati a suo tempo dal procuratore veronese Guido Papalia, lo spauracchio dei lumbard. Un errore, si disse, tant'è vero che nell'ottobre del 2010, il ministro delle Difesa, Ignazio La Russa, ne chiese il ripristino, mentre il Tribunale di Verona, avanti il quale pendeva il giudizio, aveva fatto ricorso alla Corte costituzionale.
Oggi, che il governo starebbe apprestandosi a reintrodurre il reato, insorge l'Italia dei Valori, col deputato veneto Massimo Donadi che ha coinvolto lo stesso Tonino Di Pietro. Secondo l'Idv il decreto governativo non sarebbe altro che un escamotage per bloccare il pronunciamento della Suprema corte contro l'abrogazione: torna la legge, argomenterebbe in sostanza l'esecutivo, e la sentenza non è più necessaria. Fatto che, secondo i dipietristi, introdurrebbe un vuoto legislativo entro il quale la difesa delle guardie padane riuscirebbe a portarle fuori dal giudizio.
La vicenda, nel 1996, registrò perquisizioni della polizia nella sede veronese del Carroccio e in quella milanese di Via Bellerio, con corpo a corpo furiosi fra dirigenti leghisti, fra cui Roberto Maroni che ne uscì contuso, e gli uomini della Digos.

Anche i tedeschi hanno 120 mld neri nella sola Svizzera
di Riccardo Ruggeri  
Per cercare di capire fenomeni complessi mi sono sempre avvalso di «segnali deboli», chiedendomi spesso perché leadership inette come quelle dei Quattro Grandi abbiano scelto come strategia prioritaria la «caccia all'untore», individuandolo nell'evasore fiscale. A parte gli evasori totali, autentici criminali, evasori parziali (attivi o passivi) ve ne sono moltissimi.
La classe dominante, attraverso i suoi media, si è focalizzata sugli evasori attivi, quelli che non denunciano i ricavi, convinta che «untori» siano solo i lavoratori autonomi (partite iva: 6 milioni). Pensano forse che i nostri giovanili prepensionati passino il tempo (30 anni) a fare volontariato o ai giardinetti? Per non parlare dei lavoratori attivi che sono contribuenti onesti (forzosi) per otto ore, alcuni (molti) disonesti per le altre, se svolgono attività retribuite. Poi ci sono gli evasori «passivi» (i più numerosi). Un esempio, limitato alla sola Torino e a un solo prodotto, la cocaina. Le classi medio-alte della città ne consumano, lo dice l'ente comunale preposto al controllo delle acque del Po, 365 chili all'anno (dato certo), si immagina che le classi medio-basse non siano da meno con gli altri tipi di droghe. Aggiungete il consumo di sesso mercenario nelle sue diverse varianti, moltiplicate per i cittadini e avrete, per solo due prodotti (sesso-droga) numeri spaventosi di evasione attiva (venditori) e passiva (compratori). Le leadership, negli anni, hanno messo a punto strumenti sofisticati di controllo, adottato il carcere, alcuni di noi si entusiasmiamo a leggere del carcere di Butner, ove alberga Madoff, l'unico criminale del sistema bancario anglosassone (dimenticano che gli altri sono a Walls Street perché «too big too jail»).
Nessuno che si chieda come fa la Svizzera ad avere un'evasione irrilevante, malgrado in Costituzione ci sia scritto che il segreto bancario è assoluto, l'evasione fiscale comporta solo una sanzione amministrativa. Entrate in un loro ufficio pubblico, confrontate gli indici dipendenti-attività svolte-qualità servizio, capirete che i cittadini pagano le tasse solo se hanno la certezza che lo Stato sia sobrio e efficiente, non certo per il timore di sanzioni. Invece, queste leadership euro-americane, con sistemi statali costosissimi (troppi dipendenti, pagati troppo, poco attivi), si stupiscono della scarsa civiltà fiscale dei concittadini. Usa, Germania, Francia, Inghilterra sono arrivati al punto di pagare tangenti (lo Stato!) a funzionari-delinquenti di banche svizzere per avere dati personali di loro concittadini evasori.
Mai le élites politiche occidentali erano scese così eticamente in basso, per quattro soldi. Ora scopriamo che i tedeschi hanno 120 miliardi «neri» nella sola Svizzera. A leggere l'Economist, il NYT, Der Spiegel pareva che solo gli italiani fossero evasori. Gli Usa sono oltre. Obama ha fatto approvare, operativa dal 2013, la legge Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act). Velleitario l'impianto: in pratica il Fisco Usa considera tutti i clienti (di qualsiasi nazionalità) degli intermediari finanziari del mondo intero (oltre centomila fra Banche, Assicurazioni, gestori, fondi) potenziali contribuenti americani (6,3 miliardi di individui!): spetta a costoro, a loro spese, dimostrare che non è vero. Essendo un rapporto fra uno Stato e privati la comunicazione sarà volontaria, però, se non l'adotti, non puoi più operare con gli Usa: vecchio ricatto imperialista. Cosa succederà?
Da uomo di mondo faccio due ipotesi.
1. I grandi applicheranno la normativa: costo di 50 dollari-cliente (americano e no). È chiaro che i clienti americani, nel frattempo, saranno «evaporati» e i «nuovi» non si presenteranno più. Dove andranno? Hong Kong e Cina che, da un lato applicheranno la normativa con scarso rigore e orientale lentezza, dall'altro si faranno un baffo di un debitore disperato e ridicolo.
2. Concentrare la clientela americana in apposite strutture, non aderire al Fatca, subire il ricatto. Certo, non investiranno più nel mercato finanziario americano ma a Hong Kong: la clientela americana si sentirà protetta, Wall Street ci rimetterà fantozziane commissioni. Solo menti politiche malate potevano inventarsi leggi come questa, che creerà enormi flussi informatici fra il mondo e Irs (l'agenzia delle entrate americana, che aumenterà i dipendenti), ma neppure un dollaro tornerà all'ovile, anzi. È il «facimme a muina» di borbonico ricordo, ma almeno i napoletani (attori e spettatori che fossero) sapevano che era una buffonata. A quando Fatca in Europa? Ineccepibile il giudizio del Governatore Chris Christie: «Obama non è troppo di sinistra, non è un dittatore, è un semplice spettatore». Come gli altri suoi tre suoi colleghi europei, governatori centrali, regolatori. È un dramma essere al potere (Presidente o Podestà forestiero), sapere tutto del mondo accademico, nulla del mondo reale.

Ma una cosa è certa: il Ticino deve pagar meno
di Marco Bernasconi e Donatella Ferrari
L’apertura dei negoziati fiscali tra Svizzera e Italia annunciata da Eveline Widmer-Schlumpf dopo l’incontro con Tremonti potrebbe costituire il primo passo concreto verso la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Bisogna ora vedere, al di là delle intenzioni e delle aspettative, quali saranno i tempi e soprattutto le modalità.
Il contenzioso è costituito dallo scambio di informazioni e dal ristorno dei frontalieri che sono tra di loro strettamente legati nel senso che una soluzione è possibile soltanto se si troverà un accordo su entrambe le questioni.
Per quanto riguarda lo scambio di informazioni, che sino a ieri era l’ostacolo più rilevante, sembrerebbe che si possa addivenire, anche in tempi rapidi, ad una soluzione. Infatti la Svizzera ha pattuito recentemente due trattati con la Germania e il Regno Unito con il quale si rinuncia allo scambio di informazioni automatico poiché la Svizzera preleva per conto di questi Paesi sia un’imposta liberatoria per le sottrazioni commesse nel passato, sia un’imposta ricorrente sul reddito dei capitali. Un’impostazione analoga potrebbe essere trovata con l’Italia, anche e soprattutto perché questo Paese si trova in una situazione finanziaria estremamente difficile che le impone, a breve, di incassare un importo considerevole. L’imposta liberatoria per i residenti in Italia che hanno depositato in Svizzera capitali sottratti al fisco potrebbe essere anche di alcuni miliardi di euro. La difficoltà principale è di stabilire un’aliquota per la regolarizzazione dei capitali che costituisca per i residenti in Italia un incentivo sufficiente a mettersi in regola con il fisco. Impresa difficile questa poiché è nota la reticenza del contribuente italiano a dichiarare i propri elementi imponibili. Negli ultimi dieci anni anche se sono stati istituiti in Italia tre condoni con aliquote estremamente ridotte , vale a dire del 2.4%, del 5% e del 7%, solo una parte dei capitali neri è stata dichiarata. Da un profilo politico tuttavia il Parlamento italiano dovrà, almeno in qualche modo, tener presente le aliquote per lo “sbiancamento” stabilite dalla Svizzera con il Regno Unito e la Germania, comprese tra il 19% e il 34%. Vi è quindi una contrapposizione di non facile soluzione tra l’esigenza di stabilire un’aliquota sufficientemente attrattiva, e la necessità di non allontanarsi in modo clamoroso dalle aliquote stabilite negli accordi tra la Svizzera con Germania e con Regno Unito. Ammesso che si trovi un consenso tra le due parti, l’accordo con l’Italia potrebbe essere per le banche svizzere più vantaggioso di quello pattuito con Germania e Regno Unito. Questo perché i capitali “sbiancati” non tornerebbero probabilmente in Italia, se non in minima parte, a dipendenza della difficile situazione politica e finanziaria di questo Paese.
Vi è anche la necessità di regolare, contestualmente allo scambio di informazioni, la misura del ristorno per i frontalieri che attualmente è del 38.8%. È inutile ribadire tutte le ragioni, ormai ampiamente note agli addetti ai lavori, che motivano una riduzione del ristorno. La questione è soprattutto politica poiché la Svizzera nell’intento di favorire l’accordo sullo scambio di informazioni potrebbe continuare a riconoscere ai Comuni di frontiera un ristorno più elevato di quello che le contingenze attuali giustificherebbero. Siccome il problema è più politico che tecnico e finanziario, al Ticino, e anche a Grigioni e Vallese che sono marginalmente toccati da questo problema, deve essere riconosciuto un trattamento particolare. Il beneficio di un accordo sullo scambio di informazioni va a favore di tutta la Svizzera e il Ticino, nel caso in cui l’ammontare del ristorno abbia un significato prevalentemente politico, deve essere adeguatamente indennizzato da parte della Confederazione. Quindi se non vi è una base legale federale bisogna istituirla.
La parità di trattamento tra gli altri Cantoni e il Ticino, nel caso in cui il ristorno fosse stabilito in base a considerazioni politiche, può essere salvaguardata soltanto attraverso un riconoscimento finanziario da parte della Confederazione. Le modalità tecniche per regolare con l’Italia un’indennità adeguata per i Comuni di frontiera i cui residenti lavorano come dipendenti in Svizzera possono essere diverse: la riduzione del ristorno, altre soluzioni previste dagli accordi pattuiti dalla Svizzera con gli Stati confinanti, o altre ancora. L’Italia potrebbe però avere anche interesse ad eliminare la possibile disparità di trattamento, vale a dire l’eventuale violazione del principio di eguaglianza, tra i residenti nella zona di frontiera e i residenti nel resto dell’Italia, che lavorano in Svizzera, i quali sono sottoposti a una ben diversa pressione fiscale. Infatti, ad esempio, una persona che risiede a Milano e consegue un reddito per lavoro dipendente svolto a Lugano di 100.000 franchi, paga un’imposta netta considerevolmente superiore, rispetto a quella a carico di un residente nella fascia di frontiera che consegue lo stesso reddito in Svizzera. Chi risiede fuori dalla fascia di frontiera, secondo il diritto interno italiano, deve includere nella propria base imponibile anche il reddito da lavoro dipendente conseguito in Svizzera, al netto di una franchigia e beneficiando del credito dell’imposta pagata in Svizzera. Il residente nella fascia di frontiera italiana invece, in base all’art. 1 dell’Accordo sui frontalieri, paga soltanto le imposte in Svizzera. Tra le numerose soluzioni quindi vi potrebbe essere anche quella di un’imposizione in Italia del reddito dei lavoratori residenti nella fascia di frontiera; l’imposta prelevata in Svizzera verrebbe riconosciuta come deduzione. Da un profilo politico potrebbe però essere necessario che la Svizzera riconosca una compensazione finanziaria ai Comuni di frontiera italiani. Tale importo dovrebbe essere suddiviso tra tutti i Cantoni svizzeri poiché il vantaggio derivante da una soluzione riferita allo scambio di informazioni va a beneficio di tutti. I frontalieri verrebbero però a pagare un’imposta superiore di quella attuale sul reddito del lavoro dipendente svolto in Svizzera. È quindi necessario che l’autorità politica abbia a valutare, nell’eventualità che entrasse in considerazione questa ipotesi, le relative conseguenze economiche e del mercato del lavoro.
Diverse quindi sono le soluzioni possibili al fine di trovare un’intesa con l’Italia riferita tanto allo scambio di informazioni quanto al ristorno per i frontalieri. Quel che conta però è che, indipendentemente dal sistema scelto, il Ticino abbia a pagare una somma inferiore di quella attuale.
Per raggiungere questo scopo è necessaria non soltanto una disponibilità da parte italiana ma anche da parte della Confederazione nei confronti del nostro Cantone.
Gli sviluppi delle negoziazioni, che potrebbero essere anche notevolmente complesse, devono quindi essere seguiti passo per passo, da parte delle autorità competenti, con una costante attenzione, al fine salvaguardare gli interessi del nostro Cantone che in questi ultimi trent’anni non sono stati tutelati adeguatamente.

Svizzera. Primo passo per mantenere l’unificazione monetaria
di Generoso Chiaradonna - 09/30/2011
Era l’ostacolo più temuto sul cammino per la riforma delle istituzioni monetarie e finanziarie europee ed è stato superato in modo abbastanza brillante, nonostante i dubbi e i timori della vigilia. Stiamo parlando del voto del parlamento tedesco sull’Efsf (European financial stability facility) meglio noto come fondo salva-Stati e dell’aumento di dotazione di capitale da 250 a 440 miliardi di euro. L’ostacolo è stato superato con un’ampia maggioranza. È però soltanto uno dei 17 voti parlamentari – tanti quanti sono i Paesi membri della moneta unica – necessari affinché la nuova istituzione possa portare a termine gli obiettivi che le sono stati dati a maggio dello scorso anno.
Il principale di questi compiti è quello di emettere obbligazioni con rating tripla A. La raccolta tramite il collocamento sui mercati internazionali degli Efsf-bond – una sorta di embrione di quegli ‘Eurobond’ che da più parti si chiedono e che soprattutto la Germania non vuole e che difficilmente vedranno la luce, almeno fino a quando le politiche economiche degli altri Paesi non convergeranno veramente e in modo duraturo a quella del Paese più virtuoso.
Ma rimaniamo al funzionamento del fondo. I capitali raccolti verrebbero utilizzati unicamente per aiutare temporaneamente gli Stati dell’eurozona in difficoltà. L’aiuto consiste nell’erogazione di un prestito allo Stato che lo richiede a patto che quest’ultimo si impegni a rientrare nei ranghi il più presto possibile: l’obiettivo, come detto, è preservare la stabilità finanziaria dell’unione monetaria e quindi dell’euro.
Il fondo salva-Stati però non è da confondere con l’Efsm (European financial stabilization mechanism) che invece mette a disposizione degli Stati in difficoltà 60 miliardi di euro della Commissione europea, garantiti dal bilancio dell’Unione europea. Gli aiuti finora forniti alla Grecia (110 miliardi di euro) non provengono da questa istituzione, ma da prestiti bilaterali dei singoli Stati dell’Unione europea. Ai 440 miliardi dell’Efsf e ai 60 miliardi dell’Efsm si aggiungono altri 250 miliardi di euro del Fondo monetario internazionale in modo da portare a 750 miliardi i capitali a disposizione per ‘tranquillizzare’ i mercati resi nervosi da un’assenza di politica finanziaria comune. Una sorta di opzione ‘nucleare’ per spegnere la fame della speculazione che negli ultimi mesi ha azzannato con dolore i Paesi deboli dell’Europa mediterranea. Non è ancora la soluzione definitiva a tutti i problemi di finanza pubblica degli Stati in difficoltà, ma è un passo fondamentale per dare all’euro – una moneta con 17 teste, troppe – quella credibilità che i mercati richiedevano.

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