domenica 21 novembre 2010

Il teorema del prefetto: più insicuri con le guardie


Immaginatevi di essere una persona con un certo spirito imprenditoriale residente nella provincia di Caserta. Siete legati alla vostra terra e vi dispiace assai vederla piagata dal morbo della criminalità, organizzata e spicciola. Bing! Ecco l'idea: la criminalità. Intendiamoci, non nel senso di diventare un camorrista, ma di metter su un bell'istituto di vigilanza privata. Qualcuno ci ha già pensato, è vero, ma ritenete ci sia ancora mercato sufficiente e, in ogni caso, siete sicuri di poter offrire un servizio più efficiente e a miglior prezzo dei vostri concorrenti.
Bene. Potete smettere di immaginare, perché questa del signor Buglione è la storia vera, che scivolò nella burocrazia a primavera e benché ricorresse ai giudici angustiato, alla fine il permesso gli fu negato. Reminescenze deandreiane a parte, la sentenza del 28 settembre 2010 del Consiglio di Stato ci offre degli spunti veramente interessanti.

Ordunque, il signor Buglione - dopo 5 anni di tentativi di ottenere dal prefetto di Caserta il rilascio di autorizzazione per l'esercizio attività di vigilanza privata, trasporto e scorta valori nell' ambito provinciale - nel 1999 decide di ricorrere ai tribunali. A seguito di varie peripezie al Tar della Campania, finalmente, in appena undici anni (che vergogna, eh?), il nostro volenteroso imprenditore ha ottenuto un pronunciamento definitivo ma non nel senso sperato.
Infatti, il prefetto di Caserta, in un ulteriore provvedimento di diniego del maggio 2003 «reca - spiega la sentenza - ampia esternazione dei motivi ostativi al rilascio della licenza» così riassumibili:

1) Il tessuto imprenditoriale della provincia di Caserta, connotato dalla prevalente presenza di piccole imprese artigianali non offre una potenziale domanda sufficiente ad assorbire «il supporto di ulteriore vigilanza privata».
2) «L'accresciuto controllo sul territorio degli organi di polizia» ha stabilizzato il numero dei reati contro il patrimonio.
3) In provincia operano già 1.250 guardie giurate, numero «equo e proporzionato» rispetto a quello delle forze di polizia (2300), e un loro incremento potrebbe «introdurre un senso di sfiducia verso gli organi istituzionalmente preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica»;
4) Poiché ci sono già quattro istituti che operano in provincia, la contingenza economica sconsiglia l'ingresso di altri che potrebbero «introdurre fenomeni concorrenziali incidenti sul livello ottimale di servizio in danno alla stessa sicurezza dei beni dei cittadini».

Siete strabiliati? Ne avete ben donde. I microeconomisti della prefettura hanno deciso che il livello di reati del 2003 era ottimale e non c'era bisogno di altre guardie giurate per diminuirlo (a Caserta! Non a Siena) e che comunque non sarebbe certo aumentato; che l'offerta era sufficiente e nuovi entranti non avrebbero comunque potuto migliorare qualità e prezzi; che troppe guardie giurate potevano aumentare l'insicurezza dei cittadini (questo poi è un nonsense talmente strampalato da esser degno di un dadaista) e che, insomma, una sovrabbondanza di vigilantes nuoceva al prestigio delle forze dell'ordine perché i cittadini avrebbero potuto cominciare a chiedersi «guagliò, non è che 'sti poliziotti sono nu poco sfaticati?».

Il bello è che nel 2008 la clausola del testo unico di pubblica sicurezza che consentiva al prefetto di considerare anche il numero e l'importanza degli istituti di vigilanza presenti nel territorio per dare la licenza, era stata soppressa grazie a una sentenza del 2007 della Corte di Giustizia Europea, certificando che si trattava di una norma da sempre invalida rispetto alla libertà di stabilimento e impresa garantita dai trattati europei. Nonostante ciò il Consiglio di Stato ha dato torto al povero Buglione, ritenendo «congrua e ragionevole» la motivazione del prefetto e, in barba ai giudici europei, spiegando in lungo e in largo come troppa concorrenza possa far «scadere» il servizio «al di sotto dei livelli minimi di efficacia e tempestività, a detrimento dei delicati interessi coinvolti inerenti alla sicurezza dei beni e del patrimonio».

Dove ho già sentito questi ragionamenti? Ma certo, dal Consiglio Nazionale Forense che ha fatto approvare in Senato la sua riforma argomentando che senza tariffa minima e con accessi troppo semplici peggiorava la qualità del servizio professionale. Si sono dimenticati, tuttavia, di ricordare il senso di sfiducia che troppi avvocati potrebbero ingenerare nelle istituzioni: non è che il loro numero eccessivo significa che i tribunali sono troppo intasati?
adenicola@adamsmith.it
21 novembre 2010
Fonte:
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-21/teorema-prefetto-insicuri-guardie-064326.shtml?uuid=AYGPiYlC

Il riso scotti all’assalto dei soldi pubblici dell’energia


Solo gli arresti hanno bloccato una truffa decennale. Gli ispettori del Gestore elettrico avevano bocciato gli impianti ma furono ignorati
Possibile che un ente di Stato paghi per anni milioni e milioni di euro a una grande azienda privata senza che questa ne abbia diritto? Peggio, che questi contributi pubblici siano ottenuti in cambio di un’attività potenzialmente dannosa per l’ambiente e la salute pubblica? E che, ancora, l’ente in questione non si accorga di nulla prendendo per buoni vecchi documenti senza verificare direttamente come stanno le cose? Ebbene sì, nel mondo fatato dell’energia made in Italy tutto questo è accaduto davvero. Lo sostiene la Procura della Repubblica di Pavia che due giorni fa ha chiuso la prima parte di un’inchiesta giudiziaria che ha portato all’arresto di sette persone tra cui tre top manager della Riso Scotti. Secondo l’accusa, tra il 2005 e il 2009 il Gse, cioè il Gestore dei servizi elettrici, a controllo statale, ha indebitamente versato almeno 21 milioni di euro nelle casse dell’azienda di Pavia famosa per le sue martellanti campagne di spot con il tormentone del “dottor Scotti”. I finanziamenti pubblici sono stati erogati sulla base della legge cosiddetta Cip6 del 1992.

Quel tesoro della lolla
Funziona così: l’azienda produce energia da fonti definite rinnovabili o assimilate e lo Stato compra pagando un prezzo maggiorato. Ebbene, dieci anni fa la Scotti ha costruito un inceneritore per produrre elettricità bruciando lo scarto di lavorazione del riso, cioè la lolla, che rientra nella categoria delle fonti assimilate a quelle rinnovabili. La prima convenzione con il Gse, che allora si chiamava Grtn, risale al 2002. Da allora, secondo quanto risulta al Fatto quotidiano, il gruppo alimentare guidato da Angelo Dario Scotti ha ricevuto oltre 60 milioni di euro come finanziamento pubblico Cip6. Secondo le accuse dei magistrati, però, almeno un terzo di quei soldi sono stati incassati dall’azienda senza averne diritto. Motivo? Semplice, con l’andar del tempo la lolla, cioè il rifiuto biologico e autorizzato, è stato sostituito da spazzatura ben diversa, che in alcuni casi conteneva sostanze tossiche in misura ben superiore ai limiti fissati dalle autorizzazioni rilasciate alla Scotti dalla provincia di Pavia e dalla regione Lombardia.
A un certo punto, secondo i calcoli dei tecnici del Corpo Forestale, l’inceneritore ha finito per essere alimentato da una miscela composta per il 70 per cento da plastiche, un altro 20 per cento di legnami e solo per il 10 per cento da lolla. Insomma, addio fonti rinnovabili (e assimilate). Quindi lo Stato non avrebbe dovuto pagare, dicono adesso i magistrati. Anche perchè (rifiuti a parte) l’azienda pavese non avrebbe rispettato una serie di vincoli tecnici a suo tempo prescritti dal gestore della rete. Da qui l’accusa di truffa allo Stato formulata nei confronti di tre manager arrestati mercoledì, tra cui il presidente della Scotti energia, Giorgio Radice.
Così, se verranno confermate le accuse, l’azienda pavese potrebbe essere costretta a restituire gli incentivi pubblici incassati indebitamente. Tutto questo grazie all’intervento della magistratura. E che cosa ha fatto nel frattempo il Gse, ovvero l’ente chiamato a vigilare, tra l’altro, sul rispetto di regole e autorizzazioni da parte delle aziende che ricevono i soldi del Cip6? Risposta: il Gse in pratica non si è mosso fino al 14 maggio del 2009, quindi quasi sette anni dopo la prima convenzione siglata con la società di Pavia. Quel giorno una squadra di tecnici ha bussato alla porta della Scotti energia per quella che viene definita una “verifica ispettiva”.

La denuncia (inutile) degli ispettori
Gli inviati del Gse non possono fare a meno di rilevare che l’inceneritore viene alimentato con una miscela di rifiuti diversa dalla semplice lolla. Non solo. Anche le caratteristiche dell’impianto, come emerge dalla verifica tecnica, non corrispondono a quelle fissate al momento della prima convenzione del 2002, poi modificata, ma solo in piccola parte, nel 2004. L’impianto differisce “in maniera sostanziale”, recita testualmente il rapporto ispettivo. Riassumendo: i rifiuti sono fuori norma. E anche l’inceneritore.
I dirigenti della Scotti ovviamente protestano. Nel corso di numerosi incontri il presidente Radice e i suoi collaboratori respingono le conclusioni degli ispettori del Gse. Niente da fare. “Si dichiara conclusa l’attività di verifica e sopralluogo con esito negativo”, si legge nelle carte ufficiali. Fermi tutti, allora. L’ente pubblico blocca l’inceneritore e chiede all’azienda la restituzione del maltolto, cioè quei 21 milioni di incentivi indebitamente incassati. E invece no. Passano sette mesi e il Gse fa marcia indietro. Con una comunicazione datata 10 dicembre 2009 l’esito della verifica ispettiva viene ribaltato. Da negativo diventa positivo. Non è dato sapere per quale motivo i controllori abbiano cambiato idea tra maggio e dicembre.
Sta di fatto che i contributi pubblici vengono confermati. Adesso però i magistrati sono convinti che quei soldi sono il frutta di una gigantesca truffa ai danni dello Stato. Sarà il processo a stabilire se la procura ha ragione. Nel frattempo però la Scotti energia è riuscita a portare a termine l’ennesimo trionfale bilancio della sua storia. Il 2009 si è chiuso con 2,3 milioni di utili su 12,7 milioni di ricavi. Quasi 20 euro di profitti ogni 100 di incassi. Un risultato eccezionale. Grazie alla monnezza. E ai soldi di Stato.
Dal Fatto quotidiano del 19 novembre 2010
Fonte:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/19/il-riso-scotti-all’assaltodei-soldi-pubblici-dell’energia/77610/

Lo Bello: 37 imprenditori fuori da Confindustria


Il presidente di Confindustria Sicilia parla delle infiltrazioni mafiose nel mondo delle aziende e della politica. "Auspico delle forme di autoregolamentazione interna nei partiti a prescindere dal codice penale”
PALERMO. "Auspico delle forme di autoregolamentazione interna nei partiti a prescindere dal codice penale, per restituire autorevolezza alla politica che pure ha, al suo interno, elementi di grande livello". Lo ha detto Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, a margine di un convegno in corso al tribunale di Palermo sulle infiltrazioni mafiose.
"C'é una degenerazione del nostro sistema di raccolta del consenso, inteso come clientela, che sta provocando il degrado fortissimo di un pezzo della politica - ha aggiunto - Le cosche diventano così partner e interlocutori privilegiati di certa politica che guarda poco agli interessi degli elettori e più alle clientele. Non parlo dei casi singoli, ma in Sicilia ci sono due problemi le forti connessioni tra mafia e imprese e il rapporto tra mafia e politica. Ci sono troppe imprese, soprattutto nei settori dell'edilizia, dei trasporti e movimento terre che hanno rapporti di collusione e connivenza con la mafia. Ciò provoca una distorsione del mercato perché si selezionano le imprese peggiori".
"L'ultimo dato a nostra disposizione - ha proseguito Lo Bello - parla di 37 imprenditori espulsi da Confindustria e molti sospesi per collusioni, obiettivi raggiunti in collaborazione con l'associazione antiracket Libero futuro e Addiopizzo. Sul versante di chi denuncia, invece, mi sento di dire che oggi la categoria della vittima è cambiata: chi paga il pizzo lo fa per consuetudine o per motivazioni non nobili e nei confronti di queste persone Confindustria non ha nessuna tenerezza".
Fonte: http://www.gds.it/gds/sezioni/cronache/dettaglio/articolo/gdsid/136220/

Bagheria sommersa dai rifiuti, il sindaco fa il netturbino


addetti della Coinres senza stipendio in sciopero da giorni, il primo cittadino scende in strada per ripulire la città che attende l'arrivo di un gruppo di turisti
BAGHERIA (PALERMO) - Il previsto arrivo di un gruppo di turisti a Bagheria, grosso centro a pochi chilometri da Palermo, ha convinto il sindaco della città, Biagio Sciortino, a unirsi ai quattro netturbini non in sciopero del consorzio Coinres - ente fortemente indebitato, che gestisce la raccolta - a dedicarsi alla pulizia di corso Umberto I, la strada che conduce alle monumentali ville di Bagheria, la "Baaria" portata sugli schermi cinematografici da Giuseppe Tornatore. Il corso era invaso da sacchi di immondizia.
Gli addetti alla raccolta nei giorni scorsi hanno dichiarato lo stato d'agitazione che culminerà nella manifestazione annunciata per il 30 novembre, per protestare contro la mancata corresponsione degli stipendi.
"Sono quattro, con Bagheria, i comuni che hanno già versato le somme per le spettanze di ottobre: Misilmeri, Casteldaccia e Santa Flavia - spiega il responsabile dell'ufficio igiene del Comune, Corrado Conti -. Bagheria ha già versato 300 mila euro".
"Il problema è sempre lo stesso: se non si raggiunge la somma totale prevista per i pagamenti degli stipendi (circa 1 milione) nessuno viene pagato, anche se ci sono enti che hanno già versato la loro quota".
Il sindaco non ha intenzione di pagare ditte private per la raccolta. In città si sono accumulate circa 300 tonnellate di rifiuti, che non risparmiano scuole, edifici pubblici e monumenti. "Avevamo proposto di poter pagare direttamente noi i dipendenti Coinres che lavorano a Bagheria- dice il sindaco - ma pare non sia possibile. Così però non si può più andare avanti".
21/11/2010
Fonte: http://www.lasiciliaweb.it/stampa.php?id=49015

Il ricco imbroglio. Napoli Palermo Salerno. E forse Roma.


Pochi minuti fa, arriva:
Infrastrutture, non farle costa caro
Da acqua a rifiuti, da energia ad autostrade 'conto' da 331 mld
21 novembre, 14:40
(ANSA) - ROMA, 21 NOV - Il 'non fare' nei prossimi tredici anni ci costera' circa 331 miliardi di euro. Tanto dovra' pagare la collettivita' per la mancata realizzazione di qui al 2024 di opere nei settori dell'energia, dei rifiuti, della viabilita' stradale e ferroviarie e dell'idrico. Lo calcola il Rapporto 2010 su 'I costi del non fare' di Agici Finanza d'Impresa. La spesa maggiore sara' quella dovuta alla mancata realizzazione di opere nel settore ferroviario (135 miliardi) e delle autostrade (121 miliardi).
Come potete notare c'e' anche la monnezza. Ma cosa c'entra la monnezza con la collettivita', che paga una tassa annuale per il servizio di smaltimento dei rifiuti solid urbani? Per capire il nesso giustificazione-provvedimento d'urgenza bisogna andare sul sito dell'Agici. Un'entita' di cui non ho sentito parlare, ne' scrivere, sino ad oggi:
Dopo l'affabulatoria, in home page, ho cliccato sulla riga „Settore Rifiuti
risultati 2009“ e compare la seguente filastrocca:
„I CNF (vuol dire Costi del non fare) totali del settore  rifiuti, nel periodo 2009-2024, ammontano a 24,7 miliardi di €.
Circa la classe dei termovalorizzatori, con un CNF pari a circa 21,4 miliardi di €, sono state distinte le situazioni di gestione ordinaria (Locale e Provinciale) da quelle in emergenza (Lazio, Campania, Calabria e Sicilia). Per le gestioni ordinarie (Locale e Provinciale), attraverso l’ACB (vuol dire Cost-Benefit Analysis), abbiamo calcolato i CNF di due casi-tipo e assunto un CNF unitario medio di 63 €/ton. Per gli impianti in area in emergenza abbiamo stimato il CNF unitario in 84 €/ton. Abbiamo quindi moltiplicato il CNF unitario nelle situazioni con e senza emergenza per il fabbisogno impiantistico relativo. Si noti che nel 2009 le Regioni in emergenza sono Lazio, Campania, Calabria e Sicilia, per un totale del 30% dei RU (vuol dire rifiuti urbani, monnezza, ma RU fa piu' ganzo) prodotti in Italia; tale percentuale è stata utilizzata per ponderare il gap tra situazioni in emergenza e non. Per raggiungere gli obiettivi fissati dalla legge sono necessari circa 100 termovalorizzatori di medie dimensioni in grado di trattare quasi 21 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno.
Il Costo del Non Fare gli impianti di è pari a 3,3 miliardi di € è. Tale risultato deriva dal prodotto del CNF unitario di 67 €/ton per il gap complessivo del periodo 2009-2024 pari a circa 50.000 k/ton.
I nuovi CNF calcolati evidenziano la staticità del settore, non a caso sostanzialmente invariati rispetto agli studi precedenti; infatti, nel quadriennio 2005-2008 poco è stato fatto, soprattutto nel comparto dei termovalorizzatori. Il settore soffre, più di altri, le opposizioni locali alla realizzazione delle infrastrutture.
Torno alla Homa page, e rileggo la presentazione:
Gli obiettivi di sviluppo del Paese al 2020 rendono necessaria la realizzazione di una seriedi infrastrutture fondamentali per la sua modernizzazione. Una serie di lungaggini, opposizioni, problematiche amministrative, incertezze giuridiche, ritardano o bloccano la realizzazione di tali opere. Ai fini di una corretta governance del Paese è necessario che siano ben chiari i costi che si accompagnano alle ritardate o mancate realizzazioni, costi che ricadono sull'intera collettività.
Valorizzare economicamente, oltre che dal punto di vista ambientale e sociale, gli effetti degli ostacoli ad impianti ed infrastrutture in Italia.
Il progetto si basa sull’approccio della Cost-Benefit Analysis applicato agli effetti diretti e indiretti della mancata/ritardata realizzazione di predefinite classi omogenee di infrastrutture: termovalorizzatori, TAV, autostrade, centrali e altro. Per ogni gruppo di infrastrutture si individueranno, di concerto coi partner, alcuni case studies su cui realizzare un’articolata Analisi Costi Benefici basata su scenari alternativi di ritardo/mancata realizzazione per le contestazioni.
Una puntuale valutazione quantitativa dei costi per l’intero Paese delle difficoltà di realizzazione dei progetti infrastrutturali costituisce un potente strumento di comunicazione e negoziazione con gli stakeholders.
Il risultato finale messo a punto e condiviso coi partner del progetto consisterà in:
1. Report finale dei costi-benefici per il nostro Paese del non fare da presentare nelle idonee sedi Istituzionali ed ai media;
2. Base dati quantitativa da utilizzare per il confronto coi diversi stakeholders;
3. Metodologia di riferimento per ulteriori analisi su specifici progetti;
4. Attività divulgativa per rimuovere o attenuare gli effetti della sindrome Nimby.“
Faccio una rapida sintesi, senza pensarci troppo, e' domenica:
1. I cittadini del Mezzogiorno devono pagare la tassa dello smalitimento rifiuti.
2. I rifiuti non saranno raccolti, quindi non saranno smaltiti.
3. le discariche andranno in overdose.
4. Gli attuali inceneritori non inceneriranno gran che'.
5. Questi della AGICI Finanza d'Impresa, con sede a Milano -
Via Brentano, 2, dicono che questa condizione arreca un notevole danno economico alla collettivita'.
5. Quindi bisogna investire e fare 100 termovalorizzatori.
Scusate, ma c'e' qualcosa che non torna. La camorra? No, troppo semplice. La camorra, la mafia e compagnia bella vanno bene per i giornali, non per la realta'. In questa storia centra ben altro, l'Indicibile@Potere: il partito del nord. Ed i suoi yesman, a Napoli, ovvio. Ma tra poco, se va bene, anche a Salerno e Palermo. A Roma, non ci credo.
Gia', se va bene; se va bene l'urgenza sara' cosi' grave da richiedere i giusti ed immediati provvedimenti – finanziari – del caso. E Tremonti non potra' dire di no, gli bastera' far fare un giro di giostra al cash flow. Biglietto a carico dei cittadini del Mezzogiorno.
grecanico

Carfagna: «Gruppi di potere nel Pdl: vado via, Silvio non mi ha convinta»


M'interessa Forza sud. La Mussolini? In napoletano si chiamano vajasse. Termovalorizzatori: minacce di Cosentino al premier
di Pietro Perone

ROMA (21 novembre) - Neanche Berlusconi l’ha convinta: «Dopo le parole attendo i fatti». Parola di Mara Carfagna, prossimo ex ministro della Repubblica, che conferma di essere pronta all’addio «il 15 dicembre», il giorno dopo il voto di fiducia sul governo.

Via da Palazzo Chigi e via dal Pdl perché, nonostante abbia superato diffidenze instaurando una proficua collaborazione con le associazioni gay, varato una legge anti-skalking, difeso i provvedimenti per la famiglia, lavorato fianco a fianco con esponenti dell’opposizione riscuotendo apprezzamenti bipartisan, in Campania il Popolo della libertà di fatto l’ha messa alla porta e coloro che sono a lei vicini - denuncia - vengono quotidianamente perseguitati.

Berlusconi non l’ha convinta?
«Il mio malessere non è recente, risale a un anno e mezzo fa circa: i coordinatori del partito ricorderanno bene che più volte mi sono rivolta a loro per sistemare una situazione campana molto tesa, una guerra tra bande dove vige la prepotenza e l’arroganza. Ho inviato anche diverse lettere ai vertici nazionali, Berlusconi compreso, per segnalare che si è agito in Campania in violazione delle norme dello statuto e per escludere coloro che fanno riferimento a me, addirittura sono state cambiate le regole e modificate la date su internet».

Alle regionali ha ottenuto un successo, 58mila voti: il partito non le è stato vicino?
«Sono scesa in campo su richiesta del premier. Una sfida difficilissima in cui ho messo la faccia mentre il Pdl ha pagato i costi della campagna di Alessandra Mussolini che non ha preso neanche un terzo dei miei voti. Questo è il motivo per cui la guerra contro di me è ripresa più forte».

Le hanno detto «Carfagna resta a Roma»?
«Ho 58mila persone che mi chiedono conto di cosa faccio per il territorio e non sono nelle condizioni di poter agire per loro».

Come incidere nella procedura per realizzare i termovalorizzatori?
«Nell’ultima seduta del Consiglio dei ministri ho fatto presente la mia preoccupazione sullo scontro istituzionale tra Comune e Provincia di Salerno che rischia di portare alla paralisi assoluta compromettendo la realizzazione dell’impianto. Non posso permettere che una guerra di potere faccia saltare un’operazione di vitale importanza per la Campania con la conseguenza che, dopo Napoli, anche Salerno possa essere sommersa dai rifiuti. Di qui l’esigenza di affidare le procedure a un commissario nella persona del presidente della Regione, Stefano Caldoro, eletto nel Pdl e di indiscussa moralità e onestà. Ma quando il Consiglio dei ministri ha accettato la mia proposta, Cosentino, Cesaro e altri si sono ribellati minacciando di non fare entrare i deputati campani in aula per votare la Finanziaria. Ho incontrato il collega Iapicca arrabbiato perché non volevano farlo entrare».

C’è un gruppo di potere in grado di condizionare le scelte del governo?
«Da come è andata la vicenda rifiuti, prendo atto che la mia presenza è pressoché inutile, visto che mi viene impedita la possibilità di battermi a favore della legalità e della realizzazione di un’opera strategica per la mia regione. Questa è la considerazione amara che mi porta all’addio».

Senza ripensamenti?
«Ho deciso che il 15 dicembre, all’indomani del voto di fiducia, che non farò mancare a Berlusconi, rassegnerò le mie dimissioni dal partito. Lascerò anche lo scranno di parlamentare perché, a differenza di altri, sono disinteressata e non voglio dare adito a strumentalizzazioni. Mi dimetterò ovviamente anche da ministro visto che il mio contributo pare sia ininfluente».

Si candiderà a sindaco di Napoli?
«Mi amareggia essere richiesta dagli elettori del centrodestra ed esclusa dal mio partito. Con i vertici del Pdl non ho alcun rapporto, un corto circuito che va risolto».

Fuori dal Pdl continuerà quindi a fare politica.
«Ho una passione vera e voglio occuparmi della Campania. So che è un lavoro abnorme, non facile, ma sento il dovere di farlo nel contatto diretto con il mio territorio. Continuerò ad occuparmi di politica, ma dove e come è prematuro dirlo».

Berlusconi le ha telefonato ma non l’ha convinta?
«Dovrà farlo con atti concreti, dimostrandomi che il partito torna nella sue mani. Le dichiarazioni di Alemanno e di altri dimostrano che gli stessi coordinatori controllano il Pdl meno che mai. Poiché credo nel progetto ma il partito non è a immagine e somiglianza del premier, dovrà convincermi che si possa costruire una forza liberale, democratica e in cui non comandano bande di potere».

Caso isolato la Campania?
«Purtroppo no. I casi di Micciché in Sicilia, Bernini in Emilia e Biancofiore in Trentino sono il segnale di un malessere ben più diffuso».

Il suo rapporto con Italo Bocchino, al di là dei pettegolezzi, è però oggetto di attacchi politici visto che si tratta del più agguerrito anti-berlusconiano della pattuglia di Fli. Amicizia quantomeno inopportuna?
«Non consento a nessuno di fare illazioni sul rapporto tra me e Bocchino. Per me l’amicizia viene prima della politica e sono libera di mantenere i rapporti che credo. Non consento neanche a Berlusconi di metterlo in discussione. Trovo di conseguenza veramente di cattivissimo gusto l’azione sistematica che quotidianamente viene svolta da personaggi del mio partito per delegittimarmi utilizzando un simile argomento. Oltretutto, se si toglie a me la libertà di frequentare Bocchino, gran parte del partito dovrebbe chiudersi in casa».

A cominciare da Alessandra Mussolini che le ha scattato la foto in aula con il capogruppo di Fli?
«Quello è stato un atto di cattivissimo gusto che non merita commenti ma che si addice alla persona che l’ha commesso. A Napoli le chiamano le vajasse... La Mussolini è colei che in campagna elettorale disegnava le corna sui miei manifesti, che ha portato i cannoli alla conferenza stampa con Alfano. In un partito serio una “signora” del genere sarebbe stata messa a tacere, invece mai nessuno ha avuto il coraggio di bloccarla».

Meglio transitare in Fli?
«Escludo categoricamente un mio passaggio in quel partito, semmai mi interessa il progetto di Forza Sud di Miccichè e Prestigiacomo. La delegittimazione costante di Fini nei confronti del governo ha messo in ombra tutto ciò di positivo che è stato fatto. Non condivido neanche la tempistica e come si è mosso da presidente della Camera».

Veleni e inchieste giudiziarie: il Pdl campano è allora da rifare?
«Rispetto il principio di innocenza fino a prova contraria, ma chi fa politica deve essere al di sopra di ogni sospetto e fare un passo indietro da incarichi di responsabilità».

Cosentino dovrebbe dimettersi?
«L’ho già detto».

L’addio di Carfagna è un ulteriore colpo al berlusconismo: si assume una grande responsabilità.
«Non credo di essere un simbolo: Berlusconi ha avvicinato la politica ai cittadini stabilendo un contatto diretto con la gente. Non vedo alcun tramonto e sarebbe un male per il nostro Paese. Piuttosto è il Pdl che deve tornare ad essere a immagine e somiglianza del suo leader».

Il Cavaliere sostiene che non la fa tribolare e l’ha chiamata signora.
«Non l’ho sentito ma ha usato il termine giusto perché io con lui mi sono sempre comportata da signora e continuerò a comportami da signora».
Fonte:
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=127568&sez=HOME_INITALIA

Consultori in crisi in Italia: 186 in meno dal 2007


Dovrebbero essere tremila per legge, uno ogni 20 mila abitanti nelle città, uno ogni 10 mila nelle zone rurali, ma sono 1911. I consultori familiari in Italia sono sempre più in crisi.

Secondo i dati del rapporto del Ministero della Salute pubblicato dal Quotidiano Sanità sono diminuiti rispetto al 2007: 186 in meno. Solo Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Sardegna ne hanno di più.

Secondo Margherita De Bac che scrive sul Corriere della Sera “solo il 21% dei centri sono dotati di un numero di operatori in linea con la media ottimale, 6 o 7. Dal punto di vista della qualità della sede, il 55% dei dipendenti la giudicano ottimale. Il rapporto conferma un fenomeno che ha caratterizzato fin dalla nascita lo sviluppo dei consultori”.

E fra le difficoltà non ultima è la questione obiettori di coscienza.
21 novembre 2010 | 13:48
Fonte: http://www.blitzquotidiano.it/facebook/consultori-crisi-italia-salute-648907/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+blitzquotidiano+%28Blitzquotidiano%29

A Napoli 2550 tonnellate di rifiuti e domani sarà peggio


"Da domani la situazione sara' difficilissima - dice il Comune - ed e' chiaro che la citta' non puo' reggere ad un accumulo di 600 tonnellate al giorno di rifiuti non raccolti". Sono 2550 le tonnellate di rifiuti non raccolti domani saranno 3000.

Napoli,
Sono 2550 le tonnellate di rifiuti non raccolti accumulate nelle strade di Napoli, secondo i dati dell'assessore comunale all' igiene Paolo Giacomelli. Ieri sono state raccolte 1100 tonnellate, sversate a Chiaiano e nei due impianti Stir di Tufino e Giugliano, ormai prossimi alla saturazione.

"Abbiamo gia' circa 40 compattatori pieni, che non hanno potuto sversare - afferma l'assessore - e che questa notte non potranno raccogliere". Questa notte la raccolta sara' limitata alle 750 tonnellate che possono essere assorbite dalla discarica di Chiaiano, per cui domani saranno 3000 le tonnellate di rifiuti giacenti in citta'.

"Da domani la situazione sara' difficilissima - afferma Giacomelli - ed e' chiaro che la citta' non puo' reggere ad un accumulo di 600 tonnellate al giorno di rifiuti non raccolti". "Anche il personale - aggiunge l' assessore all'igiene - e' demotivato dopo aver recuperato da martedi' scorso a venerdi' 1000 tonnellate. Adesso torniamo indietro".

Quanto all'allarme sanitario ed ai rischi di epidemia l' assessore ha detto che il Comune "e' in stretto contatto con la Asl, a cui abbiamo chiesto di fornirci immediatamente qualunque informazione utile sugli aspetti sanitari del problema". Per martedi' e' fissato un tavolo tecnico promosso dall' Anci con i presidenti delle Regioni, alle quali sara' richieste nuovamente disponibilita' ad accogliere rifiuti provenienti dalla Campania.

La disponibilita' espressa dalla Regione Toscana - ha detto Giacomelli - "deve essere concretamente verificata". "Domani - ha aggiunto l'assessore - il sindaco Iervolino, che ha gia' informato il prefetto, chiedera' alla Regione Campania ed alla Provincia un incontro per valutare la situazione di emergenza".
Fonte: http://www.rainews24.it/it/news.php?newsid=147583

Sud, scommessa vinta. Presentate 144 idee per cambiare il Paese


di STEFANO LOPETRONE
Più di mille iscritti. Oltre le più rosee aspettative. ItaliaCamp è stato un successo anche nel Mezzogiorno. Ieri nelle aule della Facoltà di Ingegneria dell’Università del Salento si è registrato un tripudio di idee e di gente: un migliaio di persone (ma i presenti erano anche di più) si sono iscritte alla raccolta di idee per cambiare il Paese e farlo approdare finalmente nella contemporaneità. Quasi 150 i progetti, corredati da studi di fattibilità e business plan, presentati dagli atenei e dagli imprenditori delle regioni meridionali per rimettere in moto l’Italia.

«Siete la generazione che ha il compito di rimettere in piedi un paese smarrito», ha detto in videoconferenza il governatore Nichi Vendola, rivolgendosi ai giovani che hanno partecipato alla tappa leccese del BarCamp (metodologia innovativa che porta nella realtà le logiche di discussione del web). «L’Italia è in crisi: siamo come un bruco, chiusi nel bozzolo e troppo spaventati per diventare farfalla. L’innovazione deve partire da voi».

Con Vendola, hanno introdotto i lavori anche il sindaco Paolo Perrone; il presidente della Provincia Antonio Gabellone; il rettore Domenico Laforgia; Pier Luigi Celli e Fabrizio Sammarco, presidente e vicepresidente di ItaliaCamp. Dopo i saluti e prima di tuffarsi nelle loro idee, i giovani partecipanti ad ItaliaCamp sono stati invitati a ragionare sulle sfide del futuro. Attorno alle sollecitazioni di Giuseppe De Tomaso, direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno, si è sviluppato un dibattito che Alessandro Laterza (Commissione Cultura di Confindustria), Gabriele Giudice (direzione generale Affari economici dell’Unione Europea e capo dell’unità Regno Unito, Estonia e Lettonia), Pier Luigi Celli (direttore generale della Luiss e presidente di ItaliaCamp), Gianfranco Viesti (professore di Politica Economica dell’ateneo barese) e Domenico Giorgi (direttore generale per i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente della Farnesina) ha introdotto molti dei temi poi sviluppati nelle 7 aule dibattito, dove i 144 progetti sono stati illustrati. Un esempio del collegamento tra vecchie e nuove generazioni auspicato da ItaliaCamp.
Eccone la prova: Giorgi, sollecitato da De Tomaso, ha spiegato che la via italiana al federalismo non indebolirà il Meridione di fronte alle dinamiche della globalizzazione: «Il Mediterraneo è di nuovo al centro degli interessi globali, la nostra sfida deve essere salvaguardare il patrimonio culturale, colmare il gap con il Nord e spingere sulle energie rinnovabili, consapevoli che nell’area mediterranea il Sud Italia è centrale». Una sfida poi raccolta nell’aula tematica che si è occupata di «Euromediterraneo: progetti di connessione», dove la presentazione dei progetti si è alternata agli interventi di personalità istituzionali, come Adriana Poli Bortone (come presidente dell’Agenzia per il Patrimonio culturale Euromediterraneo) e Sergio Blasi. Celli dà la propria chiave di lettura dello stallo in cui si ritrova l’Italia: «La crisi è frutto dell’egoismo della società. Serve più coraggio, servono persone che si assumano il rischio di cambiare, al Nord come al Sud. Gli unici che possono riuscirci sono i giovani che hanno meno di 35 anni».
21 Novembre 2010
Fonte:
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=384122

I Beni culturali fanno soldi, ma tutti i governi tagliano i fondi: 100 euro investiti nell’arte ne attivano 249 nell’economia


La cultura è una macchina da soldi, fa girare l’economia eppure tutti i governi hanno pensato a dare una sforbiciata proprio ai Beni culturali.

Secondo una stima diffusa agli incontri di Florens 2010, non 100 euro investiti nell’arte attivano 249 euro nell’intera economia. «Hanno tagliato i fondi per i beni culturali e non hanno avuto la saggezza e il coraggio di guardare più il là del contingente verso una prospettiva di lungo termine», ha spiegato Corrado Passera di Intesa SanPaolo che vanta di rappresentare il primo gruppo bancario a investire nel restauro di opere d’arte.

«Certo, i beni culturali non sono replicabili, sono un tesoro sul quale abbiamo una responsabilità verso noi stessi e verso l’umanità», ha detto ancora Passera. «Mettono in moto lavoro, mestieri, tecnologia e indotto di saperi e competenze che l’Italia può giocarsi in tutto il mondo».

Il presidente di Confindustria Firenze, Giovanni Gentile ribadisce i dati e aggiunge che se ogni 100 euro di incremento di Pil nel settore culturale attivano 249 euro di Pil nel sistema economico generale, 75 euro nell’industria vanno all’industria. «Se si dovessero ridurre 500 milioni di euro di Pil del settore culturale, ciò equivarrebbe alla mancata attivazione di 1,2 miliardi di euro di Pil nazionale di cui 375 milioni di euro in meno nell’industria», ha spiegato Gentile.
21 novembre 2010 | 09:27
Fonte:
http://www.blitzquotidiano.it/economia/beni-culturali-fanno-soldi-ma-tutti-governi-648614/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+blitzquotidiano+%28Blitzquotidiano%29

Confindustria perde pezzi in Campania


domenica 21 novembre 2010, 08:00
Parlare di bufera è dire poco. Siamo a Napoli. E la questione per una volta non riguarda le divisioni della politica e la sua incapacità di gestire il problema dei rifiuti. No, questa volta la tempesta è in casa dei privati.
Uno dei più importanti imprenditori campani, Gianni Punzo, il leader del Gruppo Cis-Interporto, 7 miliardi di fatturato, sbatte la porta ed esce da Confindustria. Mica roba da ridere. Punzo nei prossimi giorni sarebbe dovuto diventare uno dei vicepresidenti della nuova giunta dell’Unione industriali di Napoli, che ha già presidente designato dai saggi nella persona di Paolo Graziano.
Ma qualcosa si deve essere incrinato negli assetti del potere privato napoletano e i piani sono stati sconvolti. Punzo ha preso carta e penna e ha scritto una lettera di fuoco indirizzata in primis al presidente designato Paolo Graziano e per conoscenza ad Emma Marcegaglia, alla sua vicepresidente per il Mezzogiorno Cristiana Coppola e a Giorgio Fiore, leader della Confindustria Campana. «Nelle prossime ore - scrive Punzo, formalizzerò il ritiro del Gruppo CIS-Interporto dall’Unione degli industriali di Napoli». Ad majora, saluta Punzo.
La questione, leggendo la ricostruzione che lo stesso Punzo fa, sembra piuttosto infima. «Stando a quanto da te riferito - scrive l’imprenditore campano nella lettera indirizzata a Graziano - il veto sul mio nome sarebbe giunto dalla Presidente Emma Marcegaglia per una mia eccessiva vicinanza al precedente presidente di Confindustria Montezemolo e dall’amministratore delegato del gruppo Fs, Mauro Moretti, per il gravissimo crimine di essere un suo concorrente attraverso la società NTV di cui sono azionista». Ricorda poi come la stessa Marcegaglia in fondo sia stata vicepresidente di Montezemolo per quattro anni e come non «dovrebbe essere in contrasto con lo spirito della Confindustria» mettere in piedi un’azienda in concorrenza con «un monopolista pubblico». Punzo è davvero furibondo e scrive: «non posso non notare che è certamente un triste spettacolo quello di una Confindustria che pratica così apertamente i vizi di quella politica verso la quale rivendichiamo continuamente distanza in termini di metodi e pratiche». Punzo, tra gli altri, sfiora un tasto davvero delicato: il peso delle imprese pubbliche o controllate in parte dal Tesoro negli affari interni di Confindustria. La questione non è nuova. Qualcuno (ad esempio il numero uno di Amplifon) l’aveva già posta esplicitamente anche a mille chilometri di distanza, nella potente Assolombarda.
Difficile pensare che la questione finisca qua. Insieme a Punzo, il nuovo presidente designato degli imprenditori napoletani avrebbe dovuto portare con sè in giunta altri bei nomi degli affari: Carlo Pontecorvo, proprietario delle acque Ferrarelle, Luciano Cimmino, leader di Yamamai-Carpisa, Manuel Grimaldi. In queste ore si stanno rincorrendo le telefonate per recuperare il possibile. Non è improbabile, infatti, che domani alla riunione che deve ratificare la nuova presidenza e la squadra di Graziano, si moltiplichino le defezioni in giunta. E la diaspora sarebbe solo all’inizio.
Fonte: 
http://www.ilgiornale.it/economia/confindustria_perde_pezzi_campania/21-11-2010/articolo-id=488387-page=0-comments=1

Il migrante che si reinventò imprenditore


21 novembre 2010
Lunedì scorso la Fondazione Italiadecide ha presentato al Presidente della Repubblica il rapporto "L'Italia che c'è", già anticipato da Giuliano Amato nella sua rubrica domenicale su questo giornale. Due sono le tesi che lo innervano. Una economica: senza modernizzazione delle reti territoriali, infrastrutturali, finanziarie, telematiche, per arrivare a quelle della sanità, dell'università e delle istituzioni pubbliche, non reggeremo l'urto della globalizzazione e della sua crisi. Una politica: le reti per la modernizzazione, come la storia dimostra, producono anche l'humus che alimenta il comune sentire, il convivere, l'identità di un popolo.
Da qui la centralità del ragionamento a 150 anni dall'unità del paese. Reti che fanno economia e nazione, ma anche società. Per questo occorre volgere lo sguardo anche alle reti che canalizzano il magma della nuova composizione sociale. Dove si agitano 5 milioni di immigrati che lavorano e vivono nel nostro paese, producendo l'11% del Pil. Alcuni di loro li abbiamo visti a Brescia e a Milano in cima alle gru e alle ciminiere, che protestavano per il permesso di soggiorno, alla stessa maniera usata dalla nostra classe operaia quando sceglie forme estreme per tutelare il lavoro. Sono parte del nostro capitalismo molecolare, della nostra imprenditoria di popolo. Una ricerca condotta da Cna e Caritas su dati Infocamere ci dice che nel pieno della crisi il saldo tra imprese nate e cessate è sempre risultato positivo, benché fiaccato da minore proliferazione complessiva.
A fine maggio 2010 le imprese a guida di persone nate fuori dal paese sono oltre 213mila, che diventano quasi 390mila se si considerano soci (spesso di cooperative) e amministratori. La quasi totalità di questo parco imprese è a titolarità individuale, metà di esso iscritto all'albo delle imprese artigiane, con una presenza femminile che si avvicina al 20%. Due sono gli ambiti privilegiati nel quale operano queste micro imprese: edilizia e piccolo commercio, settori nel complesso tra i più colpiti dalla crisi. Insieme fanno quasi il 75% delle attività, mentre un altro 10% è fatto di imprese che operano nel comparto della subfornitura industriale. Così come sembra delinearsi una certa specializzazione produttiva, i dati evidenziano una stabile tendenza anche in rapporto alla provenienza dei titolari stessi, che fanno capo ai gruppi nazionali più rappresentati nel paese: marocchini, romeni e albanesi, cui si affianca la componente cinese sul versante delle imprese commerciali, per un totale di circa 2,5 miliardi di euro di redditi dichiarati.
A conferma che l'imprenditoria straniera in Italia appare un fenomeno che si evolve secondo direttrici sempre più definitive vi è la componente della distribuzione territoriale. Quasi il 90% delle imprese è concentrato nell'Italia centro-settentrionale, ricalcando la geografia delle piattaforme produttive più importanti del paese: Milano e pedemontana lombarda, pedemontana veneta, via Emilia, Torino-Canavese, Grande Roma e Valle dell'Arno. La Lombardia, da sola, ospita quasi un quarto del totale delle imprese secondo una ripartizione territoriale e di settore a sua volta ormai piuttosto definita.
Se si prendono i dati raccolti ed elaborati da Ismu, che riguardano gli occupati in genere, è evidente come la loro distribuzione tenda sempre più a ricalcare le vocazioni produttive dei sottosistemi regionali: l'area metropolitana milanese vede una preponderanza di cinesi e sudamericani (commercio, piccola logistica, servizi di pulizie e manutenzione); l'area pedemontana dell'industria manifatturiera è quella maggiormente presidiata dalla componente nordafricana; l'area della bassa padana centro-occidentale a forte concentrazione edile vede prevalere la componente est europea, mentre l'area della bassa padana centro-orientale a vocazione agricola è maggiormente presidiata dalla componente asiatica indo-pakistana.
La distribuzione territoriale, la specializzazione produttiva e l'omogeneità nazionale rappresentano altrettanti indizi della presenza di reti corte, network familiari e di comunità etno-nazionale attraverso i quali passa anche il dinamismo imprenditoriale, oltre che le reti di solidarietà e di mutualità, magari secondo principi che ai nostri occhi possono apparire ben poco "democratici", ma efficaci di fronte a un contesto legale poco accogliente. Fin qui la storia delle prime generazioni di immigrati, quelle impegnate ad adattarsi nel modo più efficace possibile a un sistema di opportunità confinato ai piani bassi dell'economia e della società. Ma così non sarà per le seconde generazioni, quelle che oggi si affacciano numerose nelle nostre scuole condividendo un percorso educativo con i figli degli autoctoni. Questa popolazione giovanile, molto probabilmente, non avrà la stessa tempra adattiva dei padri e delle madri, nutriranno aspettative di vita e desiderio di partecipazione economica e sociale più sofisticata, costituiranno un potenziale bacino di creatività e innovazione, anche in senso imprenditoriale. Ciò, ovviamente, se il sistema sarà capace di introdurre dinamiche di accesso, inclusione, valutazione e valorizzazione del merito del talento dei giovani che riconoscano l'opportunità di porre a valore la diversità e la varietà all'interno di una cornice regolativa riconosciuta e comune.
Il tutto sarà possibile se nel costruire le reti sociali sapremo confrontarci, sia nel mondo del lavoro sia in quello dell'impresa, con quelle cose che chiamiamo: genere, nazionalità, etnia, culture, religoni...
Fonte:
http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-11-21/migrante-reinvento-imprenditore-063946.shtml?uuid=AYgQhYlC

Così il Duce tagliò con l’Italia liberale


domenica 21 novembre 2010, 08:00
La trasformazione dello Stato iniziò solo dopo il fallito attentato di Zaniboni a Mussolini, col varo di quei provvedimenti repressivi che Alfredo Rocco definì leggi di difesa dello Stato e che furono affiancati dalle leggi fascistissime emanate tra la fine del 1925 e il 1926, le quali, indipendentemente dalla rilevanza costituzionale dei singoli provvedimenti, rappresentarono, sul terreno normativo, la discriminante che individua il trapasso dallo Stato liberale allo Stato fascista. In esse Rocco riversò una indiscussa competenza giuridica e una precisa visione dello Stato dalle connotazioni autoritarie e conservatrici. Questa legislazione, infatti, mirò ad accrescere i poteri dell’esecutivo a danno del legislativo, delle autonomie locali, dei diritti individuali secondo un modello autoritario funzionale al nuovo ruolo acquisito dalle masse nella società moderna. Non a caso Rocco, proveniente dal nazionalismo, aveva dichiarato di concepire il fascismo come una modalità di «restaurazione dello Stato» e, non a caso ancora, amava citare il celebre slogan mussoliniano: «Tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato, nulla contro lo Stato». Lo Stato che si veniva così costruendo definiva un modello in contrasto con i progetti riformatori di quanti, come Giovanni Gentile, si erano proposti di operare all’interno della tradizione liberale.
***
I primi importanti provvedimenti di rilevanza costituzionale (provvedimenti-quadro atti a delimitare i muri portanti o le aree confinarie del nuovo edificio costituzionale) furono la legge sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo primo ministro segretario di Stato (1925) e la legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche (1926). La prima sanciva la preminenza dell’esecutivo: creando la figura del «capo del governo primo ministro segretario di Stato» in sostituzione del presidente del Consiglio, primus inter pares, svuotava il principio di collegialità, alterava i rapporti fra i ministri e segnava la fine del sistema costituzionale-parlamentare, sostituito da un sistema inedito, solo in prima approssimazione assimilabile, come qualcuno sostenne all’epoca, al cancellierato germanico. Spirito e lettera della legge corrispondevano bene all’ottica autoritario-conservatrice perché il rafforzamento dell’esecutivo avveniva a danno delle istituzioni parlamentari e non della Corona. Non a caso Rocco avrebbe ribadito il principio «che il governo del Re è emanazione del potere regio e non già del Parlamento e deve godere la fiducia del Re». La seconda legge attribuiva poteri enormi all’esecutivo conferendo al governo, in alcuni campi, la possibilità di surrogare il Parlamento. Illustrandone la ratio, Rocco disse che il principio di separazione dei poteri, fondamentale nell’ordinamento dello Stato moderno, non era, nella prassi degli Stati civili, né assoluto né inderogabile perché funzioni amministrative erano in realtà affidate a organi del potere giudiziario e funzioni legislative a organi amministrativi, cioè al potere esecutivo.
***
L’esame del rapporto fra partito e Stato ha suggerito a Renzo De Felice una considerazione importante sulla differenza tra regime fascista e regimi totalitari propriamente detti. In questi ultimi (Unione Sovietica e Germania nazionalsocialista), il partito costituì la pietra angolare del regime, la conquista del potere non ne sminuì il ruolo e anzi lo rafforzò subordinandogli l’apparato dello Stato. Il regime fascista percorse la strada opposta: lo Stato ebbe una posizione di primo piano mentre il partito fu subordinato ad esso, in esso integrato con funzioni secondarie, burocratiche e transeunti. La «costituzionalizzazione» del Gran Consiglio del fascismo e la nuova legge sulla rappresentanza politica (1928) sanzionarono la liquidazione definitiva del sistema parlamentare e segnarono un passo decisivo verso il consolidamento di un regime centrato sulla figura del capo del Governo, nel quale il Parlamento veniva ridotto al ruolo di mero collaboratore nell’esercizio della funzione legislativa. Lo stesso plebiscito, che ne era la conseguenza pratica, implicava che al corpo elettorale spettasse non più il compito di esprimere un diritto di scelta fra indirizzi politici concorrenti quanto piuttosto quello di sanzionare l’accettazione o l’improbabile rifiuto di un solo indirizzo politico. In questo quadro mutarono figura e ruolo dei deputati, che non potevano più essere considerati rappresentanti in Parlamento della volontà popolare, ma come scrisse Giuseppe Bottai, «dei fascisti comandati dal regime alla funzione legislativa».
L’ultimo atto della strategia costituzionale del fascismo fu, all’inizio del 1939, la creazione della Camera dei fasci e delle corporazioni. Il nuovo istituto aveva un fondamento teorico ben diverso da quello che aveva sostenuto la vecchia Camera dei deputati. Essa si basava infatti sul principio non della rappresentanza politica ma sul quello della rappresentanza istituzionale o funzionale delle forze produttive del Paese: della nuova Camera non facevano più parte deputati eletti in base a un meccanismo elettorale, ma consiglieri nazionali, che vi erano designati per la carica rivestita nella struttura gerarchica del partito o per l’ufficio ricoperto all’interno dell’organizzazione corporativa e che ne facevano parte o ne uscivano in ragione della permanenza in un determinato ufficio politico o corporativo. Si trattava, quindi, di una Camera di durata illimitata perché non soggetta a rinnovazioni periodiche, operante soprattutto attraverso Commissioni legislative: una Camera, insomma, che completava il distacco definitivo del regime fascista dal tipo di ordinamento previsto dallo Statuto albertino e attuato in età risorgimentale e liberale.
Fonte:
http://www.ilgiornale.it/cultura/cosi_duce_taglio_litalia_liberale/21-11-2010/articolo-id=488400-page=1-comments=1