martedì 9 novembre 2010

E NON POSSIAMO NEMMENO PIU’ EMIGRARE


9 novembre 2010 |  Autore: Andrea Lodato
L’odore acre di elezioni anticipate che si respira, sembra spingere il governo Berlusconi a realizzare un paio di accelerazioni che potrebbero servire per l’eventuale campagna elettorale. E se al Nord è gradito il Federalismo, per il Sud il governo sta cercando di chiudere al più presto il Piano da 100 miliardi per investimenti, rilancio e sviluppo. Berlusconi e i suoi potrebbero anche fare in tempo, bisognerà vedere se il governo reggerà ad una successiva fase operativa, ma il dubbio più grande, ancora oggi, è sulla capacità che la classe dirigente siciliana sappia, nell’eventualità che qualcosa di buono accada, ottimizzare il “regalo” del governo nazionale.
Serpeggia una sostanziale rassegnazione generale, inevitabile, perché la Sicilia sta andando alla deriva. Protestano i Comuni per i tagli ai trasferimenti di risorse. Protestano gli industriali, perché i ritardi che hanno paralizzato l’utilizzo di fondi strutturali e Fas si stanno cumulando e, nel frattempo, le imprese chiudono o scappano.
Sono al terrore i sindacati, perché tra qualche mese finiranno per strada migliaia di lavoratori, si stanno esaurendo le casse integrazioni, stanno fallendo centinaia di imprese artigiane. Ma non è tutto, drammaticamente questo elenco replicato all’infinito è solo l’inizio. Perché in questa Sicilia che affonda, c’è il Consiglio di Giustizia amministrativa che condanna la Regione a risarcire con 20 milioni un’azienda romana che voleva investire nell’Isola ma è stata danneggiata dalla burocrazia. Si può pensare: un caso. No, lasciamo stare il caso, è la regola.
Perché in questa Sicilia che annega, da circa un anno gli autotrasportatori che stanno fallendo a centinaia attendono che la Regione chiuda la convenzione con la Crias per cominciare a erogare 15 milioni di eco-bonus non assegnati e per questo destinati a prestiti agevolati. Le imprese di autotrasporto sono schiacciate dai debiti, ma dopo un anno qualche giorno fa è arrivata soltanto la garanzia che «stavolta davvero si farà presto e che i fondi non sono bloccati e che i prestiti saranno fatti. Presto».
Presto? Presto è già tardi. In Sicilia è già il giorno in cui si stanno fermando decine di Tir, è il giorno in cui tremila artigiani che aspettano i soldi del Por cofinanziato Regione-Ue aprono le porte e trovano i decreti ingiuntivi. Siamo al giorno in cui centinaia di commercianti hanno abbassato le saracinesche e i Centri commerciali stanno sotto del 30% di fatturato e licenziano un popolo di giovani. A loro diciamo ogni giorno di avere ancora speranza, di non scappare. Anche perché come fuggire? Treni da quaggiù non ne partono quasi più, le strade sono sempre quelle sfasciate, soldi per ingrandire gli aeroporti niente. Allora? Allora continuiamo a parlare di ultima speranza, finchè dura.
Fonte:

Chi governera’ la sanita’ governera’ il federalismo. Insomma, governera' tutto

Cristina Giudici, Il Foglio

1. La Lega nel girone sanità - di Cristina Giudici
Costi standard e federalismo sono una mela avvelenata. Ecco come nasce la rivoluzione padana - 8 novembre 2010
Forse ha ragione il governatore Luca Zaia quando scandisce il suo motto: “Prima il Veneto”. Perché è proprio nel Nordest (dove spesso si anticipano esperimenti politici ed economici) che è cominciata la guerra per vincere la partita politica ed economica più importante nel nord: quella per il controllo del sistema sanitario. Una partita molto complessa, il cui esito potrebbe trasformare il federalismo fiscale prossimo venturo – giovedì 4 novembre si riunirà nuovamente la Conferenza unificata stato regioni per discutere di costi e fabbisogni standard – in un boomerang, almeno iniziale, proprio per le regioni guidate dalla Lega nord, che stanno iniziando a fare i conti con i propri deficit. Non è un caso che anche i leghisti, Roberto Calderoli tra gli ultimi, abbiano più volte affermato che per la determinazione dei costi standard i modelli di riferimento dovranno essere due regioni che non guidano, Lombardia e Toscana. Allo stesso tempo la Lega sa che, se vorrà governare a lungo nei suoi “territori” – dopo aver ottenuto il benedetto federalismo, ma ancor più se la situazione politica dovesse precipitare costringendo la Lega a una strategica “ritirata” nei suoi territori – dovrà imparare a maneggiare con cura il vero tesoro, che è anche un po’ una mela avvelenata, cioè la sanità. Per questo si è iniziato a parlare tanto di deficit. Deficit che, anche per le regioni “virtuose”, sono spesso diversi da quelli certificati dal ministero delle Finanze o verificati dalla Corte dei conti: perché fino a ora le regioni li hanno ripianati, e in verità nessuno sa interpretare bene i bilanci delle aziende ospedaliere, che talvolta nascondono sprechi, acquisti “impropri”, investimenti sbagliati, gare di appalto truccate, illeciti amministrativi, ammortamenti non accantonati. Non fosse così, non si capirebbe come mai ora che i decreti attuativi del federalismo sono in dirittura d’arrivo (“cinque settimane”, ha detto lunedì Umberto Bossi, facendo gli scongiuri sulla crisi di governo) e con i decreti anche la definizione dei costi standard e della soglia di riparto della spesa sanitaria, oltre alla quale dal 2013 non sarà più possibile andare, molte Asl hanno cominciato ad autodenunciare il proprio “buco”. A cominciare appunto dal Veneto, dove da un mese si assiste a un balletto delle cifre assolutamente incomprensibile, visto che l’assessore alla Sanità, Luca Coletto, parla di un deficit di 25 milioni di euro, mentre il governatore Zaia denuncia una voragine: addirittura “una miliardata”, che riguarderebbe soprattutto il capitolo degli ammortamenti non accantonati. Un enigma che può essere svelato solo leggendo fra le cifre, incomprensibili ai profani, della battaglia politica per il controllo dell’80 per cento dei budget regionali. Si tratta complessivamente di 105 miliardi e 148 milioni di euro, nel 2010 (di cui 8 miliardi e 137 milioni di euro trasferiti dallo stato al Veneto), che secondo il Patto sulla salute firmato nel 2009 dalla Conferenza stato regioni e il governo (confluito nell’ultima Finanziaria di Tremonti) dovrà essere razionalizzato, nonostante la spesa sanitaria nazionale aumenti ogni anno circa del 2,8 per cento (nel 2011 i milioni di euro saranno 107.303 e nel 2012 110.344) per preparare le regioni e province autonome all’asticella dei nuovi costi standard. A Venezia, il 14 ottobre scorso si è tenuto un Consiglio regionale straordinario, che è si è trasformato in una trasparente rappresentazione teatrale della lotta politica in corso. Luca Zaia ha infatti davanti a sè tre sfide prettamente politiche da vincere, che girano tutte attorno alla Sanità: deve regolare i conti con le truppe dei direttori generali delle Ulss, fedeli all’ex governatore Giancarlo Galan; deve sottrarre terreno al sindaco di Verona Flavio Tosi, gran nemico interno nella Lega, che, da ex assessore alla Sanità proprio con Galan, tenta di guidare la sanità a distanza anche da Verona. Infine deve provare a riequilibrare i conti in rosso, che gli fanno tremare i polsi. Il puzzle è complicato. Dopo che un potentissimo direttore generale di una Ulss veneziana, Antonio Padoan (che non poteva più contare sulla protezione di Galan e temeva, pare, gli esiti di un’indagine della Corte dei conti) ha scritto una lettera al segretario regionale alla Sanità veneta, Domenico Mantoan, per chiedere come mai la regione gli abbia vietato di mettere a bilancio come attivo i 208 milioni di debiti ancora non ripianati dall’ente (e ha ricevuto un secco rifiuto dal governatore, che deve affrontare situazioni simili in altre aziende sanitarie venete). E dopo che il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, veneto pure lui, si è messo a sventolare le tabelle degli sprechi veronesi. E’ a quel punto che tutti si sono chiesti: cosa sta succedendo? “Il Veneto ha scoperto di non poter più annoverare la sua Sanità fra quelle virtuose? Poi, gradualmente, gli arcani sono stati svelati: il Veneto ha un sistema sanitario con alcune zone d’ombra che probabilmente sono state un po’ sovrastimate, anche per mettere in difficoltà politica la cordata di Flavio Tosi, ex uomo forte del comparto. Che sta cercando di condizionare la politica sanitaria attraverso un gruppo di fedelissimi: la moglie Stefania Villanova, che lavora nella segreteria della Sanità, l’assessore in carica Luca Coletto e il suo consulente Michele Romano, ex direttore generale dell’azienda ospedaliera di Verona nonché consigliere della fondazione Cariverona. E infatti il presidente della commissione Sanità in Consiglio regionale, Leonardo Padrin, ha sintetizzato così il braccio di ferro sui presunti debiti: “Il disavanzo? E’ uguale agli anni precedenti. Di 250 milioni di euro, che prima venivano ripianati grazie all’addizionale Irpef (eliminata da Galan alla fine del suo mandato, per fini elettorali) e se siamo qui a discuterne oggi è solo perché è stata innestata una polemica dovuta a personalismi interni alla maggioranza”. Infatti durante il Consiglio regionale straordinario dedicato ai debiti sanitari l’assessore Coletto ha cercato di difendere la virtù veneta. Peccato che sia stato smentito mezz’ora dopo dal governatore, che invece ha ribadito l’esistenza di una voragine, “ma non verremo commissariati, risolveremo tutto”, ha promesso, sostenuto dal segretario generale della Sanità, Domenico Mantoan, nominato apposta per bonificare l’eredità di Galan e contrastare Tosi. In effetti il discorso di Zaia in consiglio regionale sembrava un discorso di opposizione. Al suo assessore ovviamente. E assomigliava molto a quello fatto da Diego Bottacin, ex consigliere fuoriuscito dal Pd per costruire il movimento centrista Verso nord e membro della commissione regionale Sanità. Bottacin è convinto che i debiti siano addirittura superiori al miliardo di euro e verranno alla luce quando le aziende ospedaliere saranno governate con criteri aziendali: “La sanità è sgovernata da molti anni”, ha dichiarato. Per sapere come stanno le cose veramente in Veneto, che visto dall’esterno si presenta invece come un sistema virtuoso, anzi uno dei laboratori chiamati ad anticipare la riforma federalista, bisognerà aspettare il libro bianco promesso da Zaia: si capirà forse anche chi e dove ha operato male, o addirittura in modo illecito. E cioè se il deficit è così grande. Mantoan parla di 560 milioni di euro sulla carta, “il doppio se si vanno a leggere con più attenzione i bilanci delle Ulss,”, ha detto al Foglio, “che hanno dilazionato molte spese e molti pagamenti per nascondere i loro debiti o non hanno accumulato le rate necessarie per ripagare investimenti non proprio oculati”. O se invece i conti in rosso siano stati parzialmente sovrastimati per far saltare alcuni importanti equilibri economici e politici. Infatti pare che, davanti al veto di Bossi alla sua candidatura alla guida della regione, Flavio Tosi abbia ottenuto due cose, in cambio della sua rinuncia: poter aspirare alla guida della Liga veneta al posto di Gian Paolo Gobbo, sindaco di Treviso (ma tutti sono disposti a scommettere che ciò non avverrà) e poter mantenere una sorta di guida a distanza della Sanità. Con una clausola, determinante per lui che è stato assessore alla Sanità di Galan, senza poter condizionare il sistema degli appalti: e cioè ottenere per il suo uomo fidato, l’assessore Coletto, anche la delega dell’edilizia sanitaria, che nell’era Galan era governata dall’assessorato ai Lavori pubblici, in modo da creare un sistema chiuso che aveva favorito un numero molto ristretto di imprese, che progettavano e costruivano strutture sanitarie. E aveva riservato alla Lega delle cooperative il 72 per cento degli appalti per la “sanificazione” (la pulizia) degli ospedali. Un dato rilevante; in Toscana la Lega delle cooperative, per gli stessi appalti, non è mai riuscita a superare la soglia del 52 per cento. Ed ecco perché, secondo alcune indiscrezioni di fonti attendibili, dopo la vittoria di Zaia ci sarebbe stato un incontro informale durante il quale Galan avrebbe chiesto a Zaia di non modificare gli assetti per gli appalti e Tosi – che ancora qualche giorno fa ha negato l’esistenza della voragine denunciata da Zaia – gli avrebbe risposto che la Lega si comporterà esattamente come aveva fatto il Pdl con gli esponenti del Carroccio veneto. E cioè riserverà agli uomini di Galan le briciole degli appalti sanitari. Dietro a questo scenario di lotte intraleghiste e di controllo reale del sistema sanitario e del suo indotto, Zaia ha però un problema vero, che sembra voler affrontare con piglio decisionista, anche perché è decisivo per il futuro del federalismo. Cioè della “mission” stessa della Lega. Il problema è quello di ridurre il deficit prima che arrivi il federalismo fiscale. Ecco perché nel suo discorso (durissimo) in Consiglio regionale straordinario, ha dichiarato guerra a tutti quei direttori generali di strutture sanitarie che hanno accumulato debiti. I loro mandati scadono fra due anni, “ma alcuni potrebbero essere commissariati”, ci hanno fatto notare alcuni leghisti che hanno lavorato nell’assessorato. Anche perché dietro questo scontro c’è un elemento comune a tutte regioni del nord a guida leghista, o dove i leghisti dirigono le politiche sulla Sanità. E cioè l’ordine di scuderia di Bossi, che è quello di creare una sanità padana che regga l’impatto del federalismo e aumenti il peso politico del proprio partito all’interno del sistema sanitario, che drena l’80 per cento dei bilanci pubblici. Insomma la Lega vuole imitare (parzialmente) il modello della Lombardia di Roberto Formigoni: una delle poche regioni ad avere i conti a posto grazie al contributo delle strutture private accreditate, che rappresentano il 45 per cento del sistema regionale. Anche se pubblicamente la Lega demonizza il concetto della privatizzazione. Una scorciatoia, secondo i fautori del sistema sanitario pubblico, che però rappresenta l’unica strategia possibile per arginare i debiti creati dagli ospedali pubblici, anche dai più efficienti, che non riescono a gestire l’aumento progressivo della spesa sanitaria. Ed è infatti per questo motivo che il governo della regione Veneto vorrebbe trasformare la case di riposo, alcune commissariate con i conti in rosso, in fondazioni private. Ufficialmente per risanare i loro debiti. In realtà per modificare il modello sanitario veneto, per ora quasi interamente pubblico. Basta leggere fra le righe ciò che ha detto il presidente della commissione regionale Sanità, Leonardo Padrin, un passato nella Compagnie delle Opere, parlando dell’apporto minimo dei privati, che dovrebbero essere messi in condizione di offrire maggiori servizi al sistema sanitario pubblico semplicemente perché è più conveniente. Così come si dovrebbe ragionare su quel passaggio di Zaia, trascurato dai cronisti, in cui il governatore, parlando dei servizi sociali che in Veneto sono integrati con quelli ospedalieri, ha dichiarato: “Non possiamo sederci accanto ai lombardi e fare i tontoloni con il nostro debito, dicendo che noi siamo più civili perché spendiamo 260 milioni di euro extra per i Lea (i servizi elementari di assistenza) solo perché crediamo nel sociale”. Insomma, come ha detto il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, l’introduzione dei costi standard nella Sanità rappresenta con il federalismo una novità “assolutamente rivoluzionaria”, che migliorerà “la qualità del servizio sanitario nazionale”. Ma la strada per arrivarci non è così semplice. Nemmeno per la Lega.

2. Chi governa la salute al nord - di Cristina Giudici
Perché la Lega un po’ imita Formigoni, un po’ lo incalza. Una partita strategica per il federalismo - 7 novembre 2010
Governare la Sanità significa governare il federalismo fiscale che verrà. E dunque assicurarsi per il futuro un governo politico stabile. Soprattutto in quelle regioni del nord dove i bilanci non sono in perfetto ordine, ma allo stesso tempo il sistema vanta standard di efficienza decorosi e non necessita delle cure da cavallo che attendono invece parecchie regioni del centrosud. E’ così per il Veneto, dove Luca Zaia è alle prese con una non semplice gestione del debito in vista dei futuri impegni federalisti. Ed è così per il Piemonte, dove l’assessorato alla Sanità è affidato a Caterina Ferrero, del Pdl, ma Roberto Cota ha nominato direttore generale della Sanità l’ex amministratore delegato dell’Iveco, Paolo Monferino, che dipenderà direttamente dal governatore, in tal modo diventando di fatto il vero uomo forte del settore. Ufficialmente il governatore leghista vorrebbe un manager che non risponda agli interessi delle diverse cricche sanitarie – uno degli slogan preferiti dal popolo padano. In realtà, l’obiettivo di Cota e della sua giunta è di aprire maggiormente, e in tempi ragionevoli, il sistema regionale al settore privato, che ora rappresenta solo una quota del 15 per cento (l’8 per cento secondo l’opposizione). Senza dimenticare che anche in Piemonte alla fine dell’anno ci saranno 21 direttori generali di Asl e Osa che dovranno essere rinnovati (due di loro sono già stati commissariati da Cota) sui quali il cardiochirurgo Claudio Zanon, direttore (leghista) dell’Ares, l’Agenzia sanitaria regionale del Piemonte, ha le idee chiare: “Non faremo prigionieri”, ha detto chiaro e tondo al Foglio. Anche Zanon, come Luca Zaia in Veneto, parla di un deficit regionale molto grande, 350 milioni di euro, che si potranno ripianare soltanto in parte, provocati dalle note storture: “Doppioni di reparti superflui, 130 piccoli presidi sanitari dove nessuno va a farsi curare, un eccesso di figure amministrative e molti, troppi, primari scelti per l’appartenenza politica e non per la qualità del curriculum”. Le nuove linee guida piemontesi studiate da Zanon guardano molto a ciò che è stato fatto di buono in Lombardia: riduzione dei piccoli presidi sanitari e delle Asl, centralizzazione delle gare di appalto per gli acquisti in modo da ridurre i costi impropri e illeciti amministrativi (sempre dietro l’angolo, ovviamente: ma soprattutto sempre pronti ad essere agitati come una minaccia sia all’interno del sistema che da parte dell’opposizione). Inoltre Zanon vuole puntare sulla razionalizzazione della rete ospedaliera e sulla eliminazione dei reparti doppioni. Inoltre, si punterà a costituire un organismo autonomo, che controlli il numero delle prestazioni che fanno lievitare i costi. Infine, e ovviamente, il tentativo di mettere sotto controllo i costi passerà da una maggiore commistione fra pubblico e privato. “Noi però ci vorremmo ispirare al modello inglese di Tony Blair”, aggiunge Zanon, dove gli ospedali appaltano servizi all’esterno in merito ai fabbisogni dei cittadini. Anche se in realtà la Sanità pubblica del Regno Unito lasciata in eredità dai governi laburisti è giusto uno dei settori disastrati del bilancio nazionale: per quanto David Cameron abbia deciso di non togliere al servizio nemmeno una sterlina. In realtà, il modello più vicino al quale Zanon si riferisce è quello lombardo. “Lei lo sa che in Piemonte c’è un reparto con sei posti letto e cinque chirurghi?”, insiste Zanon, esagerando un po’, per sottolineare la volontà leghista di dare un segnale di discontinuità e smantellare il sistema sanitario creato dalle giunte precendenti. A fronte degli allarmi razionalizzatori della Lega, c’è però uno come Roberto Placido del Pd, vicepresidente di opposizione del Consiglio regionale che durante il mandato di Mercedes Bresso ha proposto una maggiore razionalizzazione del sistema sanitario, che si dice convinto che il deficit piemontese sia molto più grande: perché nessuno fino a ora ha controllato davvero i conti. Così Placido continua a chiedersi come farà il governatore piemontese a diminuire i disavanzi di ben 50 milioni di euro ogni anno, per potersi preparare al D day pre-federalista del 2013, senza tagliare i livelli minimi di assistenza. Roberto Placido è assai critico anche sull’altra grande partita politica ed economica che Roberto Cota vuole vincere: quella della nuova Città della salute. Si tratta di un progetto che Mercedes Bresso non è mai riuscita a realizzare, e che la nuova giunta leghista vorrebbe vincere con un finanziamento piuttosto limitato, ottenuto dallo stato: 370 milioni di euro per costruire due nuovi poli sanitari in sinergia con le università. Di questi, uno sorgerà a Novara, cassaforte elettorale della Lega e gioiellino amministrativo piemontese, nonché città natale di Roberto Cota e del suo assessore più competente, Massimo Giordano, ex sindaco di Novara, che ora ha la delega alle Attività produttive. Ma anche qui, andrebbero notate le analogie tra il progetto piemontese e quello del megaprogetto formigoniano della costruenda “Città della salute, della ricerca e della didattica” che entro il 2015 dovrebbe vedere riuniti in un solo polo tre strutture d’eccellenza milanesi, l’ospedale Sacco, l’Istituto neurologico Besta e l’Istituto dei tumori. Un’impresa enorme, dal punto di vista dell’investimento pubblico nel settore dalla Sanità. Il costo complessivo del progetto è stimato in 520 milioni e sarà realizzato in project financing: metà del capitale sarà messa a disposizione subito dalla regione (228 milioni), una parte dallo stato (40 milioni) mentre gli altri 250 milioni saranno resi disponibili dai privati che recupereranno l’investimento con la gestione dei servizi e con un canone di disponibilità a carico della regione. La realizzazione del progetto farà capo a un consorzio fra i tre ospedali interessati, guidato dall’ex presidente della Fondazione Fiera Luigi Roth, storico formigoniano. Un’operazione complessa, su cui Roberto Formigoni ha scommesso molto e che, nella sua visione, dovrebbe essere, assieme al nuovo grattacielo della regione, il vero lascito alla Lombardia della sua lunga gestione politica. Progetti futuribili e faraonici a parte, è comunque proprio alla Lombardia (il cui sistema sanitario vale 16 miliardi di euro) che bisogna guardare per capire che cosa aspira a diventare la sanità padano-leghista, se saprà reggere e gestire l’impatto del federalismo fiscale. Al Pirellone, l’assessore alla Sanità è Luciano Bresciani. E’ conosciuto soprattutto per essere il medico che ha salvato Umberto Bossi dalla carrozzella dopo l’ictus (e involontariamente ha pure innescato la guerra di successione nel partito, perché ha ricordato al Senatur che presto dovrà rallentare definitivamente i ritmi di lavoro). Ma Bresciani è innanzitutto un cardiochirurgo competente, che ha studiato in Inghilterra, ha lavorato in America e in Olanda, ha studiato il modello israeliano e sta cercando di far evolvere – questo è quello che dice lui – il modello sanitario di Formigoni verso una struttura che, con un certo sprezzo tutto leghista del pericolo, definisce “polipo”.  L’idea in pratica è di creare una maggior sinergia con le strutture territoriali e sociali, dividere gli ospedali per funzioni, creare un sistema sanitario meno “ospedalocentrico” e più territoriale. E’ Bresciani, in ogni caso, che sta dettando la linea della (nascente) Sanità di modello leghista, con il benestare di Bossi. E infatti non è un caso che Bresciani abbia già firmato alcuni protocolli con il Veneto, il Piemonte, il Friuli-Venezia-Giulia. L’assessore Bresciani, attento studioso dei sistemi sanitari, cerca insomma di realizzare quella che definisce la sua “rivoluzione copernicana”. Ma nel frattempo svolge soprattutto il ruolo del revisore dei conti della spesa lombarda, per limitare gli acquisti “impropri” dei direttori generali che rispondono a Formigoni, cercando di creare una rete che sia in grado di controllare l’efficienza delle strutture sanitarie pubbliche. Alcune delle quali (come Pavia, Brescia, Bergamo, Policlinico, Niguarda) sono oggetto di inchieste giudiziarie e ministeriali proprio per via di presunti appalti edilizi poco trasparenti. Un lavoro, questo, che ovviamente tende al bilico tra il piano del puro controllo amministrativo e le implicazioni politiche che insorgono ogni volta che ci si avvicina al pianetà Sanità. E non solo in Lombardia, dove come è noto la mano formigoniana è da parecchi anni molto presente e riconoscibile. E infatti Bresciani si prepara anche alla lotta per il rinnovo dei direttori generali delle strutture sanitarie, poltrone eccellenti che i leghisti lombardi vorrebbero raddoppiare (ora ne hanno 10 su 45, gli altri rispondono al presidente Formigoni). “Senza dimenticare però”, precisa l’assessore Bresciani, “che se in Lombardia possiamo permetterci di migliorare il sistema sanitario e siamo più preparati ad accogliere la riforma federalista è solo grazie alla Sanità creata da Formigoni, un sistema che da 8 anni ha i conti in pareggio”, ammette. Bresciani è considerato da molti, più che un uomo di partito, un tecnico che ha fatto un accordo politico di compromesso con Formigoni. Ma all’assessore-cardiologo va anche riconosciuto il merito di aver fermato quello che la Lega e le opposizioni hanno chiamato il “blitz” della Fondazione Policlinico, che qualche mese fa voleva cedere l’intero patrimonio immobiliare del Policlinico –  un miliardo e mezzo di euro il valore – alla società Infrastrutture lombarde: la holding regionale che si occupa di sviluppo territoriale per conto del Pirellone e che guida, tra l’altro, i sette cantieri della costruzione e ristrutturazione degli ospedali lombardi, tra cui quello di Niguarda, finito sotto inchiesta per presunti appalti irregolari e incarichi d’oro, nell’ambito di uno scontro con il ministero del Tesoro di cui i formigoniani hanno apertamente indicato il contenuto politico. Eppure secondo Alessandro Ce’, ex assessore leghista predecessore di Bresciani, che si era dimesso nel 2007 proprio perché contrario all’eccessiva privatizzazione del sistema sanitario, la Lega ha finito per avallare un sistema che, secondo lui, funziona così: “Per ottenere gli appalti, si formano grandi cordate di società private, che riescono a vincere le gare imponendo le loro condizioni”. E cioè il controllo su un intero pacchetto di servizi a prezzi superiori a quelli del mercato. “Prima di dimettermi da assessore alla Sanità, mi sono opposto all’entrata della fondazione Cariplo nel servizio urgenza-emergenza del 118 per impedire che un ente privato potesse condizionare gli appalti per servizi esterni”. Così come non si deve dimenticare che se la Sanità lombarda ha conti in ordine è anche perché i cittadini si rivolgono molto ai privati, generando un flusso extra di investimenti che si aggira sui 9 miliardi di euro, e vanno aggiunti a quelli trasferiti dallo stato. “Ho sempre chiesto a Formigoni dati aggregati per poterli comparare e capire quali strutture gonfiavano i fabbisogni e le prestazioni, ma non li ho mai ottenuti”, insiste Ce’. “Perché se in una provincia con un numero di cittadini simile a quella confinante vengono eseguiti il doppio degli interventi chirurgici, allora è chiaro che il fabbisogno standard dei cittadini è gonfiato per aumentare gli introiti. Ed è chiaro che la battaglia della Lega per ottenere il raddoppio dei direttori generali delle aziende ospedaliere è solo la reiterazione della lottizzazione politica”. Una tesi smentita da Bresciani, che su Formigoni chiude con una battuta: “Lui gioca a calcio, io a rugby”. E considera di essere invece un tecnico che cerca di migliorare il sistema (è sua la delibera che sanziona le strutture che non rispettano le liste di attesa di 30 giorni sulle patologie a rischio, così come è sua l’idea di creare una struttura centralizzata per le gare d’acquisto delle Asl per ridurre sprechi e illeciti). E a chi lo accusa di voler reiterare la lottizzazione politica negli ospedali, risponde così: “I direttori generali delle strutture sanitarie pubbliche devono seguire gli indirizzi politici della Sanità, che in Lombardia spetta alla Lega. Perciò mi sembra giusto che ci sia un contrappeso politico nel sistema sanitario, che corrisponda a quello che abbiamo nel Consiglio regionale”. Sia come sia, una cosa appare chiara: chi vincerà la battaglia per il controllo del budget della Sanità, virtuosismi e storture comprese, guiderà il nord. Una considerazione che al pragmatismo politico della Lega certamente non sfugge, tanto più ora che l’idea di concentrarsi maggiormente sul governo locale, se dovessero saltare governo e federalismo, è tornata a farsi sentire.

Prove di Federalismo, la Puglia perde 650mln


[m.sc.] - 09 Novembre 2010 - BARI - Se il meccanismo «federalista» di ripartizione del Fondo sanitario nazionale fosse basato (e non è detto che lo sarà) sui profili di spesa pro-capite per fascia d’eta, e se le cinque regioni benchmark saranno quelle di cui si parla in questi giorni, la Puglia dovrà fare a meno di circa 652 milioni di euro, pari a poco più dell’8% della dotazione 2009. A dirlo è un recente studio del Cerm, che al di là dell’ipotesi di ripartizione - peraltro interessante e suggestiva - fa emergere due aspetti interessanti. Primo (già noto): qualunque sia il criterio di standardizzazione, è fatale che la Puglia e le altre regioni del Sud scontino la propria inefficienza. Secondo: per la Puglia, quota parte di quell’inefficienza sta nell’elevato costo dei lavoratori della sanità. Che sono pochi, è vero, ma costano più di tutti. La spesa standardizzata (valutata dallo studio) è quella che ciascuna Regione dovrebbe sostenere per offrire prestazioni dello stesso livello qualitativo rispetto alle Regioni benchmark . Il Cerm propone di usare il metro di valutazione più semplice possibile: ovvero, quanto si spende per assistere ogni cittadino (secondo 21 fasce d’età di 5 anni l’una e tre capitoli: spesa per diagnostica, farmaceutica, assistenza ospedaliera), e quale sia il rapporto tra i fabbisogni delle varie fasce d’età. Il rapporto, calcolato sulla base delle cinque regioni migliori (Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Veneto e Umbria), viene poi applicato alla struttura demografica di tutte le altre: e così si può determinare la spesa standardizzata. Quello fornito dai calcoli del Cerm è un risultato interessante perché contraddice una posizione da sempre espressa dalla Puglia: ovvero che il fondo sanitario sia sottodimensionato perché la pesatura attuale non tiene conto del gran numero di anziani residenti (che sono quelli che costano di più). Eppure, applicando il benchmark, vien fuori che comunque la Puglia spende oggi 652 milioni in più rispetto alla cifra teorica, pari all’8,87%: ben più della media italiana. A fare peggio, infatti, sono soltanto Lazio e Campania, veri buchi neri per quanto riguarda la sanità. Lo studio ripartisce le spese di amministrazione secondo gli stessi profili delle fasce d’eta. E fa emergere così una caratteristica tutta pugliese. Ovvero, la spesa per il personale sanitario che nel 2009 ammontava a 2,12 miliardi, pari al 28,9% del Fondo: in percentuale è meno della Lombardia (la Regione più virtuosa in questo senso, con solo il 29,5%). La sanità pugliese ha soltanto 8,7 addetti ogni 1.000 abitanti, il dato più basso d’Italia insieme al Lazio. Ma la criticità è nel costo per addetto, che è pari a 59.930 euro: il più alto d’Italia dopo la Sicilia. Proprio l’esiguità del numero di addetti (34.390 in totale, di cui 28.794 nelle strutture pubbliche e il resto nel privato accreditato) rende ragionevole supporre che le retribuzioni siano sbilanciate verso l’alto soprattutto al vertice della piramide (quindi medici e dirigenti). Ma questo rende ancora più paradossale l’effetto della norma di blocco del turn-over imposta da Tremonti come condizione per firmare il piano di rientro. In una situazione del genere, si rischia infatti di svuotare il sistema dall’interno, portandolo alla paralisi per mancanza di addetti.
Fonte:
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=381056&IDCategoria=1