lunedì 8 novembre 2010

Pompei crolla, catastrofe culturale


di TOMASO MONTANARI - 08 novembre 2010
No, non è colpa della pioggia. L’idea che le antichità di Pompei siano state miracolosamente preservate solo per crollare per incuria nel 2010 è semplicemente pazzesca, ed è difficile trovare le parole alle quali affidare l’indignazione e la frustrazione di queste ore. L’unica cosa certa è che non si tratta di una catastrofe naturale, ma di una catastrofe culturale e politica. Pompei non è stata trascurata: è stata uno dei laboratori chiave dell’amministrazione Bondi. Il ministro dei Beni culturali ha puntato scientemente sull’esautorazione degli «uomini del sapere» (gli archeologi) a favore degli «uomini del fare», ricorrendo alla scelta estrema, irrituale e autoritaria di imporre un onnipotente commissario proveniente dai ranghi della discutibilissima Protezione civile di Guido Bertolaso. Con questa scelta il ministro ha deciso di giocarsi la faccia. E ora l’ha clamorosamente perduta. Ma il problema è drammaticamente più ampio e più serio.
Il ministro dei Beni culturali ha programmaticamente esercitato (non solo a Pompei, ma in tutta Italia) una presunta «valorizzazione» del patrimonio storico e artistico che non solo ha prostituito quel patrimonio, immolandolo sull’altare del marketing, ma ha anche assorbito le forze e le risorse destinate alla tutela di ciò che si voleva «valorizzare». Come non ricordare la vicenda del Teatro grande di Pompei? Un monumento di quel rango è stato brutalmente ridotto (a suon di protesi moderne e cemento) a location di Grandi Eventi perché un concerto di Riccardo Muti potesse celebrare il successo del ministro e del suo commissario. E, in quell’occasione, chi si mostrò scettico o decisamente contrario, venne additato come un talebano della conservazione o un erudito polveroso incapace di capire le esigenze del «grande pubblico». Che diranno ora le cinquemila personalità che hanno visto un mortale «attacco alla cultura» napoletana nel definanziamento di un effimero museo scaturito dalla demagogia clientelare di un califfato al tramonto?
Quanti altri monumenti dovranno crollare per convincerci che il patrimonio storico e artistico della nazione non è né un pozzo di petrolio, né un luna park, ma un organismo fragile, prezioso e delicato che dobbiamo conoscere, amare e trasmettere integro alle prossime generazioni?
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Fitto e' un mito, moderno


Fitto: "Non è un governo a trazione leghista"
08/11/2010 TAORMINA (MESSINA) - "Il futuro del governo? Vedremo nelle prossime ore. Questo è un governo che ha un consenso nel Paese e ha avuto un voto di fiducia proprio pochi giorni fa in Parlamento". A margine del convegno del Pdl a Taormina su Federalismo e Piano Sud ha parlato anche il ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto.
"Bisognerà trovare in Parlamento - ha aggiunto il ministro - il luogo e le modalità per verificare se le cose dette investono questa tendenza, e quindi ognuno si assumerà le proprie responsabilità".
"Governo a trazione leghista? Questa è una modalità di discussione che ci accompagna da quando questo governo ha mosso i primi passi".
"La riforma del federalismo - ha aggiunto Fitto - non è un'iniziativa mediatica ma concreta. Leggendo il provvedimento si verifica che non c'è alcunchè contro il Sud, anzi: ci sono tutti gli elementi per far riflettere il Sud e migliorarne la responsabilità e la capacità di spesa".
Commento, di grecanico.
Il Ministro Fitto e' un mito, un mito moderno. Di quelli che si innalzano alla Sfera del Mitoligico grazie al Loro Essere moderni; cioe' nella Sacra Media. Perche' - se non fosse chiaro - Fitto e' Essere, senza infamia e senza lode; e' il non uscire fuori dalle riga del Dettato impartito dal Maestro. Fitto e' Essere conformato. Conformato a chi ne sa piu' di lui, anche se questo non e' vero, purche' sia potente, anche solo un po'. Fitto e' un Mito Moderno, anche Maradona lo e'. Peccato che le motivazioni siano diametralmente opposte: Maradona, bruto anatroccolo, si muoveva e faceva in campo cose divine. Fitto, Adone di Corte, parla con l'obiettivo di dire il niente, zero tituli, e concetti svagati, inutili.

Nel Suo caso, la svagata inutilita' deve essere una modalita' normale: e' afono a Roma, e quando glielo permette il gran Maestro, atono nel Mezzogiorno. Che sa da fa', per un mezzo pezzo di insignificante ed ininfluente ruolo governativo.

Il nostro Mitico Ministro Adone svaga che la riforma del federalismo non e' una iniziativa mediatica ma concreta. E' la dimostrazione fonetica che Adone e' decisamente un Mito. Fitto, il Mito moderno del Ministro Adone, o viceversa, il Mito di Adone nel moderno Ministro Fitto. Scegliete voi.

Perche' – per chi non lo sapesse – il federalismo non e' nato con Drive In, Italia 1, anni '80 del secolo scorso, bensi' in un anfratto Alpino, freddo, per soli uomini superiori, ed e' il frutto di un lungo e profondo meditare, dei Pensatori Alpini appunto, in uno status di transumanza mentale, concentrati come monaci buddisti sull'Essenza della Dottrina dello Stato, e su quella delle Dottrine Politiche ed Istituzionali, e sul nucleo Istituzionale del Diritto Amministrativo, come sui meccanismi esoterici, ed esotici, del Bilancio dello Stato. Costoro, Maestri Illustrissimi della Montagna Alpina, hanno suggerito all'orecchio, di uno degli innumerevoli brianzoli falliti, la Dottrina del Futuro e del Bene Comparato. Mitico, manco Enry Porter, o come cavolo si chiama. E voi che state leggendo ste' fesserie, che cavolo ci andate a fare al Liceo, all'Universita' o al Master? O peggio, al lavoro? Ascoltate il Messaggero Fitto, pardon Adone, fate come dice lui. Egli e' il portatore del Messaggio dottrinario, dell'Amore della Fratellanza ed Uguaglianza, dei popoli padani. A voi, per voi, solo per voi, terroni federati. Ma non troppo, non allargatevi. State a cuccia.
Fonte:

Il divario Nord-Sud nasce dopo l'Unità d'Italia


di MARCO ZAMBUTO, Sindaco di Agrigento
05/11/2010
Come accade quando qualcuno, come il Presidente della Regione, pone un tema essenziale, trionfano retorica e denigrazione. Che è il modo per continuare a non sapere e lasciare che le cose scorrano come sempre. Interrogarsi sul valore da attribuire all'Unità d'Italia e alle sue conseguenze rimane un passaggio imprescindibile. Ecco perché, invece di sbandierare vuoti proclami o di indossare la maschera della sudditanza, occorrerebbe stare ai fatti, nella consapevolezza che non può esistere coscienza nazionale senza verità storica. Una storia di parte sarà sempre al servizio di una parte del paese. E l'UDC, come partito della Nazione, sa che la storia non è materia da lasciare agli storici e serve ad unire, non a dividere. Secondo un'autorevole tesi il divario tra Nord e Sud si sarebbe determinato a distanza di cinquant'anni dall'Unità d'Italia, a causa dell'industrializzazione del Nord-ovest.
Non si è però spiegato perché quell'industrializzazione sia stata limitata solo a determinate aree geografiche. Si trattò di un caso o di una precisa scelta strategica? E, per esempio, Mongiana (Calabria), una delle migliori industrie siderurgiche d'Europa, con 1.200 operai all'attivo, chiusa all'indomani dell'Unità, non rientrava forse in quella politica industriale che prevedeva, fin dall'unificazione, che un'area del paese dovesse produrre i beni ed un'altra li dovesse consumare? E tale industrializzazione non ha avuto bisogno di un sistema infrastrutturale (viario, ferroviario, portuale, energetico, ecc…) che si è infatti realizzato al Nord e non al Sud? E non continua ad averne bisogno ancora oggi? Senza dire che, dal punto di vista industriale, non è vero che, al 1861, esisteva un divario tra Nord e Sud. «La percentuale di popolazione attiva addetta all'industria era superiore al Sud che al Nord», ha scritto Amedeo Lepore. Nel 1856, alla Mostra di Parigi, il Regno delle Due Sicilie veniva premiato come paese più industrializzato d'Italia. E, come hanno dimostrato Daniele e Malanima, i dati sui saggi salariali a Nord e a Sud, sia urbani che rurali, non rivelavano, al 1861, sostanziali differenze.
Tutto questo per dire che, sul piano industriale e infrastrutturale, sono state le scelte di politica economica post-unitarie a gettare le basi di quel divario che, inevitabilmente, ci portiamo appresso.
Il fascismo ha fatto solo il resto: da un lato, creando coi soldi pubblici l'IRI per salvare dalla crisi le grandi industrie del Nord e, dall'altro, obbligando, per esempio, i siciliani, che praticavano da tempo l'agricoltura specializzata, a tornare a produrre grano. Né l'Italia Repubblicana ha invertito la tendenza: si confronti quanto è stato speso al Nord e al Sud negli ultimi sessant'anni in scuole, strade, ferrovie, aeroporti, rete energetica, ecc… La tanto vituperata Cassa per il Mezzogiorno spendeva ogni anno solo lo 0,5 per cento del prodotto interno lordo.
Ma c'è un altro aspetto che non viene ricordato abbastanza e che è alla base di quello spaventoso fenomeno che ha svuotato di decine di milioni di persone le terre del Sud e che non si era mai conosciuto fino al 1861. Al Sud l'Unità d'Italia venne realizzata a vantaggio di una ristrettissima cerchia di proprietari terrieri. Lo Stato sabaudo confiscò le terre ecclesiastiche e demaniali e, infischiandosene della massa di contadini che reclamavano un pezzo di terra, le vendette per fare cassa a chi poteva comprarle. Con la conseguenza che una classe di ex gabelloti divenne più ricca e, nonostante le promesse di Garibaldi, venne impedito che nascesse una diffusa classe di piccoli proprietari terrieri. La conclusione drammatica fu la fine degli usi civici: ossia, di quell'istituto che per secoli, all'interno delle terre ecclesiastiche e demaniali, aveva consentito ai contadini di vivere. In conclusione, a volerli conoscere, i fatti dicono che la questione è reale e sentita. E che, i fatti, serve ricostruirli, metterli insieme ed evidenziare come gli uni non si spieghino senza gli altri. Serve soprattutto a capire che per troppo tempo i siciliani sono stati privati di quel complesso di infrastrutture necessario per sottrarsi all'infido giogo dell'assistenzialismo e per esprimere, anche attraverso la fiscalità di vantaggio, quelle energie che, in breve tempo, lo porrebbero al pari di qualunque popolo d'Europa.
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