L'attentato al re Umberto, l'anarchico Passannante e la condanna del nome
al paese di Savoia di Lucania
Controstorie, di Gigi Di Fiore
Non capita spesso che un paese debba cambiare il suo antico nome per farsi
perdonare. In Basilicata è successo. Savoia di Lucania si chiamava Salvia di
Lucania fino all'attentato al re Umberto I che proprio un figlio di quel paese
organizzò. Era il 1878 e quel nome, che doveva mondare un peccato grave, un
"tentato regicidio", da allora è rimasto nonostante l'Italia sia
diventata una Repubblica.
Il 17
novembre ricorre l'anniversario di quell'attentato. Fu l'anarchico Giovanni
Passannante a compierlo. A Napoli, in largo Carriera Grande, dove passò il
corteo reale. Le sue coltellate, però, fallirono. Umberto I, che viaggiava per
conoscere meglio il suo regno soprattutto nel Sud, non ebbe neanche un graffio,
rimase invece ferito alle gambe il presidente del consiglio Benedetto Cairoli.
L'attentatore era un giovane cuoco di 28 anni. Si era spostato a Napoli,
nell'attuale via Correra (allora via Cavone), per attuare la sua decisione di
convinto anarchico.
Negò sempre,
Passanante, che vi fosse un'organizzazione, un complotto. Quando venne
condannato a morte, con sentenza firmata dal presidente Carlo Ferri, dichiarò
di aver fatto tutto da solo. Rimase sempre riconoscente all'avvocato Leopoldo
Tarantini che lo aveva "addirittura" difeso. Era un suo diritto. La
pena venne trasformata in ergastolo, ma in carcere il giovane impazzì.
Immaginarsi
in che condizioni trascorse la sua detenzione, tra torture e isolamenti
forzati. Scrisse di lui, senza averlo mai visitato, il solito Cesare Lombroso.
Affermò che l'attentatore era pazzo e quel giudizio, naturalmente, fece scuola:
lo confermò anche il professore Gaspare Virgilio. Nessuno parlò delle torture
che dovette subire l'anarchico nel carcere di Portoferraio.
Fu un
sepolto vivo, il sindaco del suo paese andò in delegazione a Roma in cerca di
perdono. Fu votato il cambio dell'antico nome, in omaggio alla dinastia dei
Savoia. Il sacrificato visse gli ultimi anni della sua vita nel manicomio
giudiziario di Montelupo Fiorentino, dove morì a 60 anni. Il ministro Giovanni
Nicotera, proprio l'ex partecipante alla famosa spedizione di Sapri dei
"300 giovani e forti" con Pisacane, negò torture e segregazioni. Il
nuovo potere difendeva se stesso. Come tutti i poteri di tutti i periodi
storici.
Quando morì,
l'anarchico attentatore venne decapitato. Il cranio sezionato e il cervello
conservato in una teca. Tutto è tenuto al museo criminologico "Giuseppe
Altavista" a Roma. Per la gioia macabra dei visitatori e studiosi di
criminologia. Persino lo
scrittore-editore cilentano Giuseppe Galzerano, autore nel 1997 di un corposo
(811 pagine) e completo libro ricco di documenti, ristampato nel 2004
("Giovanni Passannante, la vita, l'attentato, il processo, la condanna a
morte, la grazia regale e gli anni di galera del cuoco lucano che nel 1878
ruppe l'incantesimo monarchico") è costretto ad ammettere: "La
decapitazione fu un fatto inaudito e gravissimo, che testimonia un feroce
accanimento. Agesilao Milano, per il suo tentativo di regicidio contro
Ferdinando II, non fu certamente decapitato dai Borbone. Né i Borbone né i loro
carcerieri arrivarono a tanta ferocia!"
Constatazione amara di uno scrittore, certamente mai tenero nelle sue
opere con la dinastia Borbone delle Due Sicilie. Il 17 novembre sono 135 anni
da quell'attentato. Al re, Passannante scrisse una lettera il 17 marzo del
1879, riprodotta da Galzerano. Scrisse: "Come Province meridionali non
abbiamo nulla vandaggiato (sic!) nel 18 anni del governo costituzionale, ma
molto abbiamo perduto".
Nei primi 25
anni di regno italiano crebbe il movimento socialista e quello anarchico,
filiazione delle illusioni garibaldine (nella sua componente di puro idealismo,
però). Passannante ne era espressione. L'illusione di maggiore democrazia
popolare con il mutamento politico-istituzionale si arenò, specie al Sud, con
la realtà: il Risorgimento era stata rivoluzione borghese, con vincitrice la
destra liberale di Cavour. E Passannante, che a 56 anni sembrava già un
cadavere, fu l'immagine triste di una sconfitta.
Pubblicato il 16 Novembre 2013 alle 15:28
Mongiana, nasce un museo per la memoria Così l'Italia smantellò l'azienda
calabrese
Controstorie, di Gigi Di Fiore
Mongiana non vuole dimenticare il suo passato. Ed è un bene. Due secoli
fa, Mongiana era centro siderurgico florido, tutta l'area nella piana Stagliata
di Micone in Calabria era considerata una
specie di Ruhr versione italiana. Acque e boschi in quantità: l'ideale per
questo tipo di attività industriali.
Martedì 22
ottobre, quella che fu la sede dello stabilimento, e che era diventata
monumento all'abbandono, diventa museo. Ristrutturata, recuperata nelle sue
aree principali, la ferriera potrà diventare luogo di ricordi di un sud
industriale. Mongiana come Pietrarsa, come San Leucio.
Regione
Calabria, Regione Campania, comune di Mongiana e la Fondazione
Napolinovantanove hanno creduto nel progetto di recupero e restauro.
L'inaugurazione di martedì, con uno dei principali studiosi della storia di
quest'opificio, l'architetto napoletano Gennaro Matacena, è il coronamento del
recupero.
Quella di
Mongiana è storia troppo nota e dolorosa per rievocarla in dettaglio. Il polo
siderurgico nacque negli anni del regno di Ferdinando IV di Borbone. Produceva
semilavorati e venne considerato struttura fondamentale anche nel decennio
francese. Le ferriere Nuove Regie divennero un fiore all'occhiello nel regno
delle Due Sicilie. Progettista, nel 1771, fu l'architetto napoletano Mario
Gioffredo. A Mongiana furono prodotte le materie prime per il ponte in ferro
sul Garigliano e la ferrovia Napoli-Portici.
La
fonderia aveva tre altoforni: Santa Barbara, San Ferdinando e San Francesco. Vi
si produceva ghisa di alta qualità, simile a quella inglese. Le ferriere
divennero sette, poi il complesso si ampliò con una fabbrica di armi. Nel 1860,
lavoravano 1500 operai che si insediarono nella zona con le loro famiglie.
L'unità
d'Italia portò allo smantellamento. Nel 1864, la commissione per le ferriere
favorì la vendita ai privati, privilegiando gli insediamenti siderurgici del
nord per la loro vicinanza ai complessi industriali di Piemonte, Lombardia e
Liguria. Poi, atto finale, la vendita all'ex garibaldino Achille Fazzari.
Sperava in aiuti statali, ma non arrivarono. Gli impianti furono piano piano
smantellati, le strutture vendute. Rimase l'area Ferdinandea, dove si produceva
acqua minerale, con una centrale idroelettrica e una segheria. Fu il declino,
la chiusura. L'abbandono. Il gioiello industriale della Calabria chiuse. Erano
passati appena 14 anni dall'unità d'Italia.
Pubblicato il 21 Ottobre 2013 alle 12:42
Sud. Cosa resta di questa Crisi, di Salvatore M. Pace
Nel Sud dal 2008 al 2012 si sono perse 366 mila unità di lavoro su un
totale nazionale di 535 mila unità, una concentrazione territoriale
impressionante, quasi il 70% di perdite in un’area in cui sono presenti meno
del 30% degli occupati italiani. Gli effetti del trasferimento di risorse dal
Sud verso il Nord volute dal governo Berlusconi: D.L. 93/2008; D.L. 97/2008.
D.L. 112/2008; D.L. 154/2008, gli effetti della Spending Review 2011, hanno
sottratto, in totale, al Mezzogiorno circa 20 miliardi.
Ne fanno bene sperare le aspettative future,
anche se viste in un contesto di crescita economica. La bassa produttività dei
principali settori economici, la mancanza di prospettive imprenditoriali
gettano tutti in uno sconforto senza ritorno.
La spesa per consumi delle famiglie, al 2012,
risulta al Sud diminuita di 3 miliardi di Euro rispetto al valore del 2000; nel
Centro-Nord è aumentata di 32 miliardi. Il peggioramento dei fattori economici
sta determinando un deterioramento dei fattori sociali e culturali, influendo
negativamente sul tasso di passaggio dalla scuola superiore all’università
calato dal 65% del 2004 al 58% 2011. Si interrompe quel processo di
modernizzazione così importante per il Mezzogiorno, e un peggioramento delle
prospettive occupazionali (Svimez 2012).
Il sistema economico sembra imbrigliato da anni
in una spirale che rende incapaci di utilizzare forza lavoro altamente
produttiva e l’orientamento su produzioni innovative, le uniche in grado di
produrre ricchezza e dare competitività alle imprese.
Lo stock di capitale è sceso dal 25% del 2000 al
23% del 2010 in rapporto a quello nazionale. La produttività del lavoro nel
settore industriale è del 19% più bassa di quella delle omologhe imprese del
Centro Nord. Il 90% delle imprese ha meno di 10 addetti (Banca d’Italia 2013)
La piccola dimensione dell’impresa meridionale
non permette di generare quegli investimenti necessari per sostenere la
crescita e di sviluppare buone prassi e metodi di organizzazione
imprenditoriali basati sul business development.
In relazione al tasso di industrializzazione:
fatto pari a 100 nell’Europa a 27, Sicilia e Sardegna sono ferme a 49, il resto
del Sud a 85, mentre Polonia, Romania e Bulgaria oscillano tra 110 e 154, fino
a tre volte in più del Sud. Il modello industriale meridionale è un modello che
non riesce a introdurre gli adeguamenti competitivi in grado di favorire lo
spostamento verso livelli di gamma più alti (Svimez 2013).
L’impresa meridionale guarda più al risparmio che
a situazioni appetibili di guadagno, la bassa produttività dei lavoratori in
nero e mal pagati è tale da essere diseconomica, il realtà il risparmio cela un
maggiore costo occulto e un disinvestimento vista la bassa produttività del
lavoro sottopagato. Il lavoro organizzato e regolare risulta essere più produttivo
di 2-4 volte (Svimez 2012).
Bisogna pensare oggi strutture imprenditoriali in
grado di creare rapporti socio economici, come condizione di una strategia di
presenza sul territorio, incentrata su una coscienza collettiva di collaborazione
e scambio mutualistico dei rapporti di conoscenza tra i sistemi produttivi e
culturali. Una trasformazione soggettiva capace di compiere azioni
sufficientemente forti da poter superare gli attuali limiti dell’individualismo
produttivo. Ciò è possibile non tramite un volontarismo dei singoli ma
attraverso una strutturazione delle organizzazioni imprenditoriali che cessano
di essere l’oggetto subalterno di un mercato determinato da eventi estrani al
mondo della produzione ed iniziano ad organizzarsi sulle loro potenzialità e
quelle del proprio territorio; perché se è vero che la crisi c’è bisogna anche
capire di cosa è crisi la crisi.
Le strutture produttive non sono più le
interpreti di un processo inconscio di organizzazione che va da se ed uguale
per tutti, necessitano di una progettazione voluta e pensata, in quanto essa
non è organica al modo della produzione, significherebbe cullarsi
nell’illusione della mano invisibile del mercato e il rifiuto di ogni politica
industriale, rassegnati ad un fatalismo imprenditoriale inaccettabile. Il
Mezzogiorno ha chance di cambiamento, solo con la costruzione di un nuovo modello
della cultura d’impresa.
[Salvatore M. Pace]
[10.09.2013]
14 agosto 1861: l'eccidio di
Pontelandolfo e i conti difficili con la nostra storia
Controstorie, di Gigi Di
Fiore
Eccoci
nei giorni di Ferragosto. Un anniversario particolare, per la storia dei primi
anni di unità d'Italia. 14 agosto 1861: l'eccidio di Pontelandolfo. La
cittadina, in provincia di Benevento, si è dichiarata per delibera
"martire dell'unità d'Italia". Quando, in occasione delle
celebrazioni per i 150 anni di unità, a Pontelandolfo arrivò Giuliano Amato
nella sua veste di presidente del comitato per l'anniversario, chiese scusa a
nome dell'Italia intera. E un messaggio di ricordo venne spedito anche dal
presidente Giorgio Napolitano.
Pontelandolfo. Come Pietrarsa, come Gaeta,
negli ultimi anni diventati luoghi simbolo di un'unità dai tanti lati oscuri.
Unità calata dall'alto, imposta con la forza, cui rimase estranea l'intera
classe contadina del Mezzogiorno, come osservò Antonio Gramsci.
"Giustizia è fatta su Pontelandolfo e
Casalduni, esse bruciano ancora", telegrafò il tenente colonnello Pier
Eleonoro Negri, vicentino al comando dei 400 bersaglieri che nella notte
irruppero nel paese. Diritto di rappresaglia, in una zona dove non c'era guerra
dichiarata, Era in corso, però, il più sanguinoso conflitto civile della storia
unitaria: le rivolte contadine bollate come brigantaggio.
Qualche giorno prima, nella strada verso
Casalduni, erano stati uccisi 41 soldati al comando del tenente Cesare Bracci,
inviati a controllare la zona, dove si muovevano numerose bande. La più
importante era quella guidata da Cosimo Giordano. Il comando italiano a Napoli,
con il luogotenente Enrico Cialdini, decise la rappresaglia. Una colonna,
guidata dal maggiore Carlo Melegari, si diresse a Casalduni. L'altro, quella di
Negri, a Pontelandolfo.
Immagini che ricordano il film Soldato blu,
con le giubbe azzurre a distruggere il villaggio di pellerossa cogliendo nel
sonno gli indiani. Successe anche a Pontelandolfo. Il Sud Far West dell'Italia,
nei mesi post-unitari.Tutto fu distrutto, rimasero in piedi solo tre case. E,
nel dicembre successivo, l'episodio venne ricordato in Parlamento a Torino dal
deputato milanese Giuseppe Ferrari. Parlò di "giustizia barbara".
I morti contati dai giornali dell'epoca furono
146, ma la stima esatta non si è mai conosciuta: molti furono travolti
dall'incendio delle loro case, di altri i familiari ebbero vergogna e timore a
denunciarne la scomparsa attraverso i registri parrocchiali. Eppure, la stima
comparata dei defunti in zona di quegli anni, nota un incremento tra il
1861-62. Sintomatico. Una lapide, fuori al comune di Pontelandolfo, ricorda le
vittime dai nomi certi. Anche la toponomastica è mutata due anni fa: ora strade
e piazze ricordano i nomi di alcuni di quei morti.
Anche così il Mezzogiorno fu unito all'Italia,
Sangue, repressione e violenze, da non dimenticare. E non per spirito di
nostalgia con il passato, o per seminare odio e separazioni, ma per non
rimuovere la memoria. Il quadro dell'unificazione deve essere completo e noto a
tutti. Come gli americani, dovremmo
finalmente cominciare a fare i conti con la nostra storia. Senza polemiche e
con serenità. Altrimenti, per la nostra povera Italia, non ci sarà futuro.
Pubblicato
il 10 Agosto 2013 alle 18:11
La «questione meridionale»
nasce con la conquista del Sud, Domenico Bonvegna
Durante la presentazione del volume "Santa Teresa" di Saitta -
Raccuglia, ripubblicato ora dal duo Cavarra-Coglitore, uno dei relatori
presenti alla presentazione del volume, dal palco della Piazza Lungomare
Bucalo, ha ripetuto la solita vulgata di un Meridione d'Italia fortemente in
ritardo e quindi sottosviluppato rispetto a un presunto e progredito
Settentrione ben governato dagli illuminati sovrani della casa Savoia.
Quello dell'arretratezza del nostro Meridione,
è un luogo comune da sfatare, non è stato sempre così, il clichè della
marginalità del Sud in ogni momento della sua storia, scrive lo storico campano
Mario Del Treppo e della sua conclamata inferiorità - politica, economica,
civile - mai riscattata, nemmeno dall'opera del Risorgimento, è destinata a
dissolversi.
I primi
a diffondere giudizi falsi sull'inferiorità del Meridione sono gli esuli
napoletani che nel decennio 1850-60, "[...] con la loro propaganda
antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l'onore della
dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell'immagine del
sud, riproponendo secolari stereotipi sul «paradiso abitato da diavoli»"
(Francesco Pappalardo, «Come il mezzogiorno è diventato una questione», in
«Cristianità», n. 299, maggio-giugno 2000).
In seguito ad alimentare questa tesi
contribuiscono diversi storici come Pasquale Villari e Antonio Gramsci, dove il
Mezzogiorno è letto come un grande problema sociale e materiale, pur nelle
diversità delle interpretazioni, l'analisi fa sempre riferimento al modello
economico liberale del secolo XVIII, che giudica la storia del mezzogiorno
secondo il parametro della crescita della «coscienza civile», che sarebbe
giunta a maturazione solo grazie al Risorgimento, interpretato come la marcia
ineluttabile verso una superiore civiltà politica, compiuta dagli esponenti
liberali del regno contro l'incomprensione e l'ostilità della «plebe».
Da questo momento il Meridione d'Italia è
valutato come una devianza dai modelli economici liberali e viene descritto in
termini d'individualismo e di carente spirito civico, di arretratezza
tecnologica e di resistenza alla modernizzazione, di corruzione e di
clientelismo, utilizzando le dicotomie Nord/Sud, sviluppo/sottosviluppo, e
progresso/arretratezza come indicatori del livello raggiunto rispetto a una
scala ideale da percorrere. (Ibidem)
I cosiddetti meridionalisti creano
un'interpretazione sociale e culturale, dove il dualismo civiltà-barbarie
permea la loro visione, nella quale il Sud non è più un campo geografico ma una
metafora che rimanda a un'entità mitica e immaginaria, dove si possono
ritrovare sia criminalità, residui feudali e superstizione, sia tradizioni
popolari, folclore ed esotismo. E' il pessimismo dello scrittore e uomo
politico Giustino Fortunato e di altri che vedono nell'inferiorità meridionale
come una costituzionale e irreparabile inferiorità razziale.
A questo si aggiunge anche un'interpretazione
diffusa nel mondo protestante, secondo cui il Sud è impregnato di paganesimo
perenne e di cultura subalterna di una religiosità superficiale, rozza e
superstiziosa, perfino con pratiche magiche.
E' stata creata dunque una leggenda nera
sull'arretratezza economica del Regno delle due Sicilie. Non è possibile qui
approfondire ma si può fare qualche esempio della reale situazione del Regno
borbonico, nel momento in cui è aggredito nel 1860 dalle forze garibaldine e
piemontesi.
Leggo dal testo di Massimo Viglione,
«L'Identità ferita» edito da Ares. Sotto Carlo di Borbone vi fu grande attività
edilizia, in tutti i campi: la Reggia di Caserta, secondo palazzo reale al
mondo per grandezza e bellezza, strade, ponti, porti, forti militari. Creato ex
novo l'esercito nazionale e la flotta, la più importante in Italia, seconda in
Europa sola a quella inglese. A Napoli s'iniziò a costruire il primo cimitero.
Nel 1768 sotto Ferdinando IV si stabilì una
scuola gratuita per ogni Comune del Regno e per ambo i sessi; istituì inoltre
un Collegio per educare la gioventù in ogni provincia, il tutto senza tasse
supplementari. Nel 1779 fu creata l'Università di Palermo con teatro anatomico,
laboratorio chimico e gabinetto di fisica. Solo in Sicilia fondò 4 licei, 18
collegi e molte scuole normali. Per la prima volta negli ospedali si vide la
cattedra di ostetricia, scelse tra i docenti i migliori ingegni.
E' lo stesso Cavour a riconoscere che la
legislazione piemontese è arretrata rispetto a quella napoletana. Nel 1818
salpò da Napoli la prima nave a vapore italiana. La prima ferrovia inaugurata
in Italia fu la Napoli-Portici (1839), costruito il primo telegrafo elettrico
in Italia. Questa in breve la barbarie del Regno delle Due Sicilie [...] e ciò
spiega perché durante le invasioni rivoluzionarie del Regno il popolo fu sempre
massicciamente dalla parte dei legittimi sovrani.
E' vero quello che scrive lo storico Marius
Andrè nel 1927: "[...] Vi sono due Storie: la falsa e la vera. La prima è
destinata ai bambini delle scuole primarie, al popolo, e a quei borghesi che,
terminati i loro studi all'età di circa sedici anni, non li proseguono e si
accontentano di leggere opere dette di volgarizzazione [...] L'altra ha un
carattere quasi confidenziale, tanto é ristretta l'elite alla quale si
rivolge..." («Magna Europa», a cura di Giovanni Cantoni e Francesco
Pappalardo, D'Ettoris Editore).
15.8.2007.
Agosto di 150 anni fa, sì
alla legge Pica sul brigantaggio. E fu il via alle norme speciali per il Sud
Controstorie, di Gigi Di
Fiore
Tra un
mese saranno 150 anni. L'italia dell'eterna emergenza, l'Italia dei
provvedimenti speciali cominciava proprio da lì, dalla legge Pica. Era il 15
agosto del 1863, quando il neonato Parlamento di Palazzo Carignano a Torino
disse sì a quei nove articoli scritti per reprimere, con le maniere forti, la
rivolta del brigantaggio nelle regioni meridionali. Sì, la prima legge
eccezionale del nostro Paese iniziò da tribunali militari, fucilazioni senza
garanzie, controllo armato di sei regioni. Di proroga in proroga, con quelle
norme si arrivò al 1865. Dopo lo stato d'assedio del 1862, approvato anche per
frenare i colpi di coda dei garibaldini all'Aspromonte, fu di fatto una
separazione giuridica dell'Italia. Il Paese unito due anni prima veniva diviso
sulla Costituzione: nel centro-nord osservanza delle garanzie costituzionali,
al Sud lo Statuto albertino diventava carta straccia. A vantaggio del potere
militare, che calpestava il principio del giudice naturale e mortificava il
diritto alla difesa. A proporre la legge fu un deputato abruzzese: Giuseppe
Pica. Fu introdotto, per la prima volta, anche il termine di camorrista in una
norma. Bastava un sospetto, una soffiata e si poteva essere esaminati da una
commissione provinciale che poteva inviare il presunto camorrista al domicilio
coatto. Camorristi in città, briganti nelle campagne. Qualche anno fa, gli
Archivi di Stato pubblicarono dei preziosi volumi con l'elenco di tutti i
documenti conservati in Italia sul brigantaggio post-unitario. Una mole enorme
di fonti che forniscono un quadro drammatico delle lacrime e sangue di quegli
anni nel Mezzogiorno d'Italia. Commissioni provinciali, tribunali speciali,
udienze rapide. Solo fino al 1864, i tribunali militari affrontarono 3616
processi con 9290 imputati. E il generale Alfonso La Marmora, prefetto e
comandante militare a Napoli, sul periodo che aveva preceduto la legge
dichiarò: "Da maggio 1861 a febbraio 1863 abbiamo ucciso o fucilato 7151
briganti". Mano pesante. Repressione, nel Far West a Sud dell'Italia. La
legge che violava lo Statuto se la rideva sull'eguaglianza dei cittadini
italiani: quelli del centro-nord erano più uguali degli altri. Dalla legge Pica
si è arrivati alle leggi straordinarie in materia economica, poi a quelle sulla
criminalità organizzata. Scrisse Aurelio Saffi, garibaldino e componente della
commissione d'inchiesta sul brigantaggio, alla moglie: "La natura del
brigantaggio è essenzialmente sociale e, per accidente, politica. La causa
radicale e permanente è la misera condizione de' braccianti lavoratori delle campagne
e de' pastori".
Borbonico
"L'ordinamento
finanziario e quello tributario istituito dai Borbone "era (no i più
adatti) allo sviluppo della ricchezza nel Sud. In Piemonte viceversa
l'ordinamento finanziario, che poi fu esteso al resto d'Italia quasi integralmente,
era gravosissimo. (…) tutte le imposte antiche furono aumentate, molte nuove
furono introdotte e il prezzo delle polveri e dei tabacchi e della carta
bollata fa accresciuto, aumentate le successioni, le manimorte, le tasse sui
trasferimenti di proprietà, create nuove imposte sulle industrie, ritenute
sulle pensioni: tutto fu aumentato."
di Nicola Zitara
Non più
di una settimana fa, leggendo il Corriere della Sera, mi sono imbattuto per
l'ennesima volta con l'aggettivo borbonico, ovviamente usato in senso
dispregiativo. A usarlo non era uno qualunque, ma un pubblicista considerato un
esperto sui problemi della scuola.
Ciò mi
ha portato a dedurre che non la parola non era stata buttata lì per ignoranza,
ma probabilmente ubbidendo a un impulso denigratorio. Infatti l'aggettivo è
stato coniato più di un secolo fa non tanto in disprezzo ai Borbone, che ormai
avevano perduto il regno, quanto per confezionare un alibi ideologico e
culturale a copertura delle crudeltà belliche e delle malefatte politiche che i
toscopadani andavano compiendo ai danni delle popolazioni meridionali. Fra i
tanti significati di cui l'aggettivo è stato caricato, uno riguarda
l'inefficienza e la macchinosità della pubblica amministrazione. Si tratta di
un falso in piena regola. Anzi peggio: l'aggettivo attribuisce ai Borbone un
noto difetto dell'amministrazione piemontese.
Quando
ero ragazzo, c'era in paese una prosperosa popolana che non faceva alcun
mistero circa il suo mestiere. Si trattava di una persona generosa e impulsiva
che, secondo l'usanza del tempo, trasformava in un comizio, tenuto sulla porta
di casa, i litigi familiari. Quando bisticciava con il marito, lo picchiava, lo
cacciava di casa, e mentre il poveretto si allontanava arrancando, lei, dalla
soglia, gli urlava dietro: "Cornuto!….Cornuto!…Cornuto!…" Allo stesso
modo fanno i toscopadani con noi meridionali.
Ecco la
relazione scritta nel 1853 dall'onorevole Giuseppe Farina (da privato:
banchiere in Torino) per far rilevare alla Camera dei deputati del Regno di
Sardegna (Piemonte, Liguria, Valle d'Aosta, Savoja e Sardegna) la macchinosità
della pubblica amministrazione.
"L'ingegnere
provinciale, il quale riconosca l'opportunità di un'opera nuova lungo una
strada regia, che percorre la provincia nella quale esercita il suo ufficio, ne
informa l'ingegnere capo e l'Intendente provinciale, che ne avvertono l'Intendente
della divisione, il quale rassegna la cosa all'Azienda generale dell'Interno,
che, o direttamente, o previa comunicazione al Ministero dei lavori pubblici,
ordina di formare il relativo progetto.
Questa
previdenza è partecipata all'Intendente generale ed all'ingegnere capo, che
trasmettono le occorrenti disposizioni all'Intendente della provincia ed
all'ingegnere che deve compilare il progetto formale dell'opera. Il progetto
preparato è riveduto e corretto dall'ingegnere capo, e, o per il canale dell'Intendenza
generale, o direttamente viene trasmessa all'Azienda dell'Interno la quale
promuove su di esso il parere del Congresso permanente di acque, ponti e
strade, che lo approva o prescrive modificazioni o variazioni per l'inserzione
delle quali è il progetto nuovamente rimandato alla Azienda dell'Interno, e da
queste, o per la trafila dell'Intendenza, o direttamente trasmesso all'autore
con invito di conformarsi ai suggerimenti e alle prescrizioni del Congresso
permanente medesimo. Il progetto dell'autore emendato è, per il consueto
canale, nuovamente trasmesso al Congresso permanente, che approvandolo lo invia
all'Azienda generale dell'Interno, la quale previa autorizzazione del Ministero
inserisce la spesa nel bilancio".
Andiamo
a Napoli e facciamo parlare un conquistatore piemontese, il Cav. Vittorio
Sacchi.
Questi,
amico di Cavour, era il direttore dei tributi e del catasto nel Regno di
Sardegna. Cavour, ben sapendo quanto valevano i luogotenenti del re, lo stesso
re Vittorio e i suoi generali da operetta, spedì il cavaliere a Napoli come
uomo di sua fiducia, per capire come erano ordinati i tributi e le finanze
duosiciliani. Da Napoli, Sacchi spedisce una lunga lettera al mandante.
Comincia con l'annotare che era partito per la grande metropoli, che allora era
Napoli, con forti prevenzioni. Ricorda a Cavour come dubitasse se accettare, o
no, e come fosse stato proprio Cavour a insistere. Scrive F. S. Nitti, da cui
traggo il racconto: "Il Sacchi fu segretario generale delle finanze in
Napoli dal 10 aprile al 31 Ottobre 1861 e l'opera sua consacrò in una
relazione, che costituisce un documento importantissimo.
"
Nel 1862 i consuntivi (del bilancio piemontese) non giungevano che al 1853: il
disordine nella esazione delle imposte e nelle spese era notevole e mancano
ancora adesso (siamo nel 1896) molti elementi di giudizio.
Invece"
la finanza napoletana, organizzata da un uomo di genio, il cavaliere Medici,
era forse la più adatta alla situazione economica del paese. Le entrate erano
poche e grandi e di facile riscossione.
"Base
di tutto l'ordinamento fiscale era una grande imposta fondiaria. Ed era così
bene organizzata che rappresentava un vero contrasto con il Piemonte, dov'era
assai più gravosa e di difficile riscossione: "Il sistema di percezione della
fondiaria ? dice il cavaliere Sacchi, nella sua relazione ? la prima e la più
importante delle risorse dello Stato, era incontrastabilmente il più spedito,
semplice e sicuro, che si avesse forse in Italia.
"Lo
Stato, senza avervi quella minuziosa ingerenza, che vi ha in Francia e nelle
antiche Province (Regno di Sardena, ndr), ove si fece perfino intervenire il
potere legislativo nella spedizione degli avvisi di pagamento, avea assicurato
a periodi fissi e ben determinati l'incasso del tributo, colle più solide
garanzie contro ogni malversazione per parte dei contabili".
"Non
vi era quasi alcuna imposta sulla ricchezza mobiliare. Poiché questa si andava
formando, il cavaliere Medici e i suoi continuatori aveano ritenuto che vi
fosse pericolo grande a colpirla con imposte. Il commercio interno avea ogni
agevolezza: "la ricchezza mobiliare, ed il commercio in ispecie, (era)
esente in Napoli da ogni maniera d'imposizione diretta … " .
"Le
tasse del registro e del bollo, gravissime in Piemonte, erano assai tenui nel
Reame di Napoli. L'ordinamento delle fedi di credito del Banco di Napoli,
mirabilmente semplice sotto questo aspetto, rendeva inutili le registrazioni.
"Al mirabile organismo finanziero delle Province Napoletane " dice il
cav. Sacchi, si vedeva soprattutto in quanto riguardava il funzionamento del
Banco. Il Banco ? scriveva il Sacchi ? riceve il danaro contante da chiunque
voglia deporvelo, lo custodisce a sue spese e lo restituisce ad ogni richiesta
del deponente in moneta equivalente.
L'ordinamento
finanziario e quello tributario istituito dai Borbone "era (no i più
adatti) allo sviluppo della ricchezza nel Sud. In Piemonte viceversa
l'ordinamento finanziario, che poi fu esteso al resto d'Italia quasi
integralmente, era gravosissimo. (…) tutte le imposte antiche furono aumentate,
molte nuove furono introdotte e il prezzo delle polveri e dei tabacchi e della
carta bollata fa accresciuto, aumentate le successioni, le manimorte, le tasse
sui trasferimenti di proprietà, create nuove imposte sulle industrie, ritenute
sulle pensioni: tutto fu aumentato.
"Vedendo
così enormi le differenze fra le imposte del Piemonte e di Napoli, lo stesso
segretario generale delle finanze nel 1861 riputava difficile assoggettare il
popolo meridionale ai tributi piemontesi: bisognava studiare lungamente perché
il salutare sacrifizio si compiesse.
"Dell'amministrazione
finanziaria, in cui il personale inferiore era scadente, ma il personale
superiore ottimo, il segretario generale per le finanze…dava alto giudizio: trovava
il Sacchi meno costoso che in Piemonte il sistema tributario, ammirava la
semplicità dei mezzi di riscossione; lodava il sistema di tesoreria; la
direzione del debito pubblico gli pareva così buona che voleva "modellarvi
il servizio del debito pubblico nazionale". Le aziende finanziarie
"ottime dal lato del meccanismo amministrativo, lasciavano ben poco a
desiderare dal lato del personale". In generale nella finanza napoletana,
secondo il Sacchi "molte belle intelligenze vi si facevano rimarcare. E
checché voglia dirsi in contrario vi si trovavano uomini di grande istruzione.
Le
scienze economiche, altrove generalmente sconosciute alla classe degli
impiegati, erano qui generalmente professate. Facili e pronti i concetti,
purgata ed elegante la lingua, si scostavano le scritture degli uffici da
quello amalgama di parole convenzionali che altrove rimpinzano le
corrispondenze ufficiali.
"In
una parola, nei diversi rami dell'amministrazione delle finanze napoletane si
trovavano tali capacità di cui si sarebbe onorato ogni qualunque più illuminato
governo".
Malgrado
tutto questo, la prosperosa comare, con in testa l'elmo di Scipio, mentre noi
affanniamo sotto le sue farraginose leggi, continua a urlarci in faccia:
borbonici!… borbonici!…borbonici!
I cialtroni e l'Unità
d'Italia, di Luigi Capozza
Ho letto con partecipazione
e condivisione gli articoli di Franco Federico sulla politica e
l’amministrazione meridionali, comparsi sulle pagine del trisettimanale
ilCrotonese la scorsa estate. Il desiderio è di riprendere il discorso di
Federico, cercando di aggiungere un’ulteriore riflessione di carattere storico,
partendo dall’affermazione di Tremonti che la classe dirigente meridionale sia
composta da cialtroni. Tremonti, come documenta anche Federico, non ha, per
certi versi, tutti i torti; tuttavia gioverà analizzare storicamente il come
mai si sia verificata una simile condizione.
Centinaia
di paesi e città nel Sud, sono state e sono terre di emigrazione; nella sola Calabria,
dall’unità d’Italia in poi, vi sono stati circa due milioni di emigrati, tanti
quanti abitanti attualmente conta la regione; un vero e proprio esodo biblico.
Dai primi anni ’90 del ‘900 ad oggi, come rilevato dalla stampa di ogni
tendenza, da tutto il Sud sono emigrati altri 2 milioni di persone, in assoluta
maggioranza giovani diplomati e laureati. È stato sempre così, o l’esodo è
iniziato proprio con l’Unità?
Ricaviamo
alcuni dati statistici dalla oggi imprescindibile opera di Giuseppe Ressa e
Alfonso Grosso, Il Sud e l’unità d’Italia (compare anche su Internet, sulla
piattaforma Scribd):
1)
«All'epoca di Francesco II, l'ultimo re, l'emigrazione era sconosciuta, le
tasse molto basse come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo. In
campo culturale Napoli contendeva a Parigi la supremazia europea» (ciò lo
riconosceva con molta onestà Paolo Volponi nel suo discorso d’insediamento alla
Camera).
2)
«Come risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del 1856, le Due
Sicilie erano lo Stato più industrializzato d'Italia ed il terzo in Europa,
dopo Inghilterra e Francia (stessa documentazione fornisce Paolo Granzotto su
numerosi interventi sul Giornale). Dal censimento del 1861 si deduce che, al
momento dell'Unità, le Due Sicilie impiegavano nell'industria una forza-lavoro
pari al 51% di quella complessiva italiana (nonostante avesse 9 milioni di
abitanti su 22). I settori principali erano: cantieristica navale, industria
siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo,
vetraria, alimentare.
3) «Nei
pressi di Napoli, a Pietrarsa, era attiva la più grande industria
metalmeccanica d'Italia … era l'unica fabbrica italiana in grado di costruire
motrici a vapore per uso navale. A Pietrarsa fu istituita anche la "Scuola
degli Alunni Macchinisti" che permise alle Due Sicilie, unico Stato della
Penisola, ad affrancarsi dalla necessità di disporre di macchinisti navali
inglesi. A Pietrarsa venivano costruiti cannoni ed altri armamenti; venivano
realizzati prodotti meccanici per uso civile, vagoni, locomotive ed i binari
ferroviari (di cui in Italia solo Pietrarsa disponeva della tecnologia
costruttiva). … Accanto a Pietrarsa sorgevano la Zino ed Henry (poi Macry ed
Henry) e la Guppy, entrambe con 600 addetti. … Viceversa al Nord, alla vigilia
dell'Unità, solo l'Ansaldo di Genova era a livello di grande industria (aveva
480 operai contro i 1.000 di Pietrarsa)».
4) « La ferriera di Mongiana sorgeva nei
dintorni di Serra San Bruno … Poco distante, fu più tardi costruita Ferdinandea.
… Il complesso siderurgico calabrese di Mongiana e Ferdinandea era, fino al
1860, il maggiore produttore d'Italia di ghisa e semi-lavorati per l'industria
metalmeccanica. Altri impianti metallurgici erano attivi in tutti il Sud».
5) « Le
Due Sicilie disponevano di una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio
italiano ed era la quarta del mondo … fu la prima flotta italiana a collegare
l'Italia con l'America ed il Pacifico. … Il primo vascello a vapore del
Mediterraneo fu costruito nelle Due Sicilie nel 1818 e fu anche il primo al
mondo a navigare per mare e non su acque interne … l'Inghilterra dovette
aspettare altri quattro anni per metterne in mare uno, il Monkey, nel 1822. …
Il cantiere diCastellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il più grande del
Mediterraneo. Al momento della conquista piemontese stava attrezzandosi per la
costruzione di scafi in ferro. L'arsenale-cantiere di Napoli, con 1.600 operai,
era l'unico in Italia ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75
metri. … Sono patrimonio delle Due Sicilie anche: la prima compagnia di
navigazione a vapore del Mediterraneo (1836) … Nel 1847 fu introdotta per la
prima volta in Italia la propulsione a elica con la nave "Giglio delle
Onde".
6)
«Prima dell’Unità il settore cotoniero vantava quattro stabilimenti con 1.000 o
più operai (1425 alla Von Willer di Salerno, 1160 in un’altra filanda della
provincia, 1129 nella filanda di Pellazzano, 2159 in quella di Piedimonte e un
migliaio nella Aninis-Ruggeri di Messina); nello stesso periodo gli
stabilimenti lombardi a stento raggiungevano i 414 operai della filatura Ponti.
… si ebbe dal 1835 un rinnovato sviluppo dell’industria della seta e nuove
filande sorsero in Calabria, in Lucania, in Abruzzo».
Senza
tirarla per le lunghe, diciamo che gli stessi primati su tutto il resto
d’Italia il Sud li vantava, a ridosso dell’Unità, nelle seguenti industrie: a)
cartiere; b) estrattiva e chimica (provenivano dal Sud i 2/3 delle produzioni
chimiche italiane); c) conciaria; d) del corallo; e) saline; f) dei vetri e
cristalli.
7) I
dati indicano che nel 1860 il Sud, che conta il 36.7 % della popolazione
d’Italia, «pur non avendo nulla che si possa paragonare alla pianura padana
produce il 50.4% di grano; l’80.2% di orzo e avena; il 53% di patate; il 41.5%
di legumi; il 60% di olio … Per quanto riguarda l’allevamento, considerando il
numero dei capi, il Sud era in testa in quello ovino, caprino, equino e dei
maiali».
8) «Il
livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati Italiani. La contribuzione
diretta era praticamente basata solo sull’imposta fondiaria, quella indiretta
solo su quattro tributi». Il sistema bancario era il migliore che si potesse
desiderare.
Dunque,
il Sud, come risulta da statistiche e dati inoppugnabili, era, fino al 1861, lo
Stato più grande, più ricco e meglio governato dell’intera Penisola, sì da
gareggiare con le maggiori potenze economiche del tempo: Inghilterra e Francia
(sarebbe opportuno leggere tutta l’opera di Ressa e Grosso, che hanno
consultato migliaia di documenti. Bisognerebbe anche leggere o rileggere,
almeno, sia Corrado che Francesco Barbagallo, Einaudi, F. S. Nitti, Salvemini e
Zitara; leggere Simonelli, A. Pellicciari e Veneziani, Aprile e G. Bruno
Guerri, il cui saggio, Il sangue del Sud, uscirà a fine anno).
II
Come è
potuto accadere che il Meridione, già all’indomani dell’Unità, finisse pian
piano per diventare la cenerentola della “Nazione” con un tasso migratorio biblico?
Ci soccorrono per comprendere (e ci scusiamo per le continue, ma
indispensabili, citazioni) due documenti, ma vedremo altre ricostruzioni
storiche, anch’essi inoppugnabili: uno di F. S. Nitti e uno di Luigi Einaudi.
Afferma
F. S. Nitti, nel suo Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897: «In quarant’anni il
Sud ha dato ciò che poteva e ciò che non poteva, ha ricevuto assai poco,
soprattutto ha ricevuto assai male”. Insomma, il 65% di tutta la moneta
circolante in Italia era del Sud e in pochi anni, tra tributi per risanare il
deficit del Tesoro dovuto alle guerre (il Meridione con 27% di produzione della
ricchezza dovette pagare il 32% dei tributi), in conseguenza delle nuove
imposte e della vendita dei beni demaniali ed ecclesiali ai latifondisti, il regime
doganale del 1887, il Sud fu privato dei suoi capitali a esclusivo vantaggio
del Nord».
Tale
testimonianza è avvalorata, fin dai primi anni del Novecento, proprio da quello
che fu primo presidente dell’Italia repubblicana, Luigi Einaudi. Luigi Einaudi
ne Il Buongoverno riconosce apertamente che «Sì, è vero, noi settentrionali
abbiamo … profittato di più delle spese dello Stato italiano; è vero, peccammo
di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera
doganale il territorio ed assicurare così alle proprie industrie il monopolio
del mercato meridionale; è vero che abbiamo spostata molta ricchezza dal Sud al
Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti
pubblici … È vero che abbiamo ottenuto più costruzioni di ferrovie, di porti,
di scuole e di altri lavori pubblici, ma sono stati duri sacrifici imposti da
circostanze politiche ed economiche … ».
Quello
che è stupefacente, soprattutto in Einaudi, come se non se ne accorgesse, è che
egli dichiara candidamente che la vera Unità è stata fatta per il Nord e che a
questa (presunta) “necessità” si è dovuto sacrificare il Sud. Insomma, il Sud è
stato spogliato, impoverito, ridotto a territorio coloniale per … lo sviluppo
del Nord. Riconosce altresì, Einaudi, e candidamente non lo comprende, che il
Nord era povero e il Sud talmente ricco da “costruire” il Nord (la presunta
vera Italia lavoratrice, direbbero senza vergogna Bossi, Brunetta e Gelmini)
con le sue ricchezze.
III
Ma,
oltre a quanto sopra documentato, che altro è successo? Salvemini è molto
chiaro su questo fatto. Scrive il Nostro in Problemi educativi e sociali
d’Italia: «I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni
poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita,
cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa
potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana […] Qualunque gruppo di
uomini onesti […] avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità di una
sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro
di trovarsi contro tutta la marmaglia [piccolo borghese] compatta». Giordano
Bruno Guerri rincara la dose: «L’annessione del Sud fu una guerra di annessione
e di conquista, spietata e brutale … il paternalismo (?) borbonico permetteva
pure ai più poveri di vivere decentemente … La vita culturale … dera di tutto
rispetto … Le industrie erano all’altezza – e a volte superiori – a quelle del
Nord. Soprattutto, le casse dello Stato e la circolazione monetaria erano più
ricche che nel resto d’Italia messo assieme. Denaro, terre e industrie facevano
gola ai Savoia … il cui motto era: “L’Italia è un carciofo da mangiare foglia a
foglia”. Infatti l’ex Regno delle Due Sicilie venne depredato di tutto: l’oro
delle sue banche venne per lo più reinvestito al Nord, le industrie smantellate
e trasferite più vicino alle Alpi; le terre … non furono date ai contadini, ma
cedute a basso prezzo alla borghesia settentrionale o agli antichi feudatari
divenuti improvvisamente filounitari. A rimetterci fu il popolo … Il
brigantaggio …, oggi [i briganti] li chiameremmo partigiani …, fu una guerra
civile … Di certo, nascondere quello che avvenne non è servito a una crescita
del Paese e della nostra coscienza nazionale …».
Che
dire di più per spiegare lo sfascio, voluto e programmato, della nostra terra e
il processo migratorio dal Sud al Nord e nel resto del mondo? In effetti, però,
si può dire di più. Come si sa, la Sinistra storica e Giolitti non risolsero
propriamente la cosiddetta “Questione meridionale”; la grande guerra e il dopo
guerra sfasciarono ancor di più l’economia meridionale, privandola dei suoi
capitali e delle sue braccia per sostenere lo sforzo bellico e foraggiare
l’industria di guerra (e qui era già cominciata la trasformazione della mafia
in delinquenza organizzata di tipo moderno attraverso il mercato nero e poi i
fondi per la ricostruzione).
Il
Fascismo – e la crisi di Wall Street –, con la famigerata “Quota 90”, ossia il
pareggio della lira con la sterlina, a voler parlare solo di ciò, finì con lo
buttare sul lastrico migliaia di contadini, artigiani e piccoli imprenditori
debitori delle banche del Sud, le quali, non potendo più riscuotere i prestiti
aumentati a dismisura di valore, fallirono a loro volta.
La
seconda guerra mondiale, se possibile, peggiorò ancor di più le cose nel Sud, mentre l’industria di guerra
dell’Alta Italia marciava a pieno ritmo.
Ancora
una volta, la mafia si ingrassò col mercato nero, l’usura e, avendo bloccato il
Piano Marshall appena a sud di Roma, con, di nuovo, la caotica ricostruzione e
i relativi subappalti, col mercato illegale delle armi invendute, l’incipiente
mercato di droga e fonti energetiche in cambio di prestiti neocoloniali,
tecnologia, prodotti industriali con i popoli sottosviluppati.
Chiuderanno
le chiavi di una spoliazione perfetta: 1) la famigerata Riforma agraria degli
anni cinquanta, che, invece di aiutare la trasformazione del latifondo in
aziendalità e imprenditoria, o, perlomeno, in organizzazione cooperativistica,
suddivise il latifondo in piccoli lotti, con case di “cartapesta” isolate,
privi di qualsiasi strumento meccanico, e la 2) Cassa per il Mezzogiorno (e
Organismi similari), che, coi suoi finanziamenti a pioggia ha favorito, ancora
una volta, attraverso subappalti e altre diavolerie, la mafia, lo scempio
edilizio, le truffe imprenditoriali, l’illegalità diffusa, il clientelismo, il
burocraticismo vessatorio, improvvise fortune politiche, ecc. ecc.
Non
dico che non bisogna accettare ormai l'unità, ma bisognava, dando un senso alla
ribellione dei “briganti”, bilanciare in modo paritario col resto d'Italia la
stessa forma unitaria. Cosa che neanche si sognarono di fare, né se lo sognano,
i nostri intellettuali e politici. Non capirono, e non capiscono. Purtroppo,
come si scriveva sopra, il Meridione fu messo da subito nella condizione di
minorità, complice, allora, anche il grande (?) intellettuale Croce (leggere i
suoi giudizi sulla Destra storica e su Sella) e i suoi salottieri seguaci. Fu
giudicato, il Meridione, dalla
pubblicistica dell'epoca e dai politici interessati, arretrato, barbaro,
mafioso, incapace e analfabeta, non tanto potenzialmente delinquenziale, da
conquistare e liberare (rileggere il Manzoni per capire, invece, che cos'era il
Settentrione spagnolo; e poi francese e poi austriaco). E gli fu assegnato il
ruolo di banca del Nord, di procuratore di manodopera, di bacino elettorale, di
trafficante del mercato illegale, di carne da macello delle varie guerre.
Insomma, fu distrutta la storia e la sua verità, senza le quali nessun popolo
trova identità e può costruire la sua vita e il futuro.
IV
La
solfa continua ancor oggi e non bisogna meravigliarsi che ormai sia lo Stato
ufficiale ad essere, a vivacchiare, nello Stato reale e non viceversa, come si
diceva un tempo, perché lo Stato 'dranghetista-mafioso, un tempo detto
anti-Stato, è il naturale blocco e sbocco collaborativo di uno Stato che di
legale, di ufficiale non ha mai avuto l'ombra.
Come si fa, infatti, da parte del presunto
Stato ufficiale e da parte delle imprese manifatturiere, bancarie e
finanziarie, e dalle conseguenti tasse e spese statali, a rinunciare a 150 miliardi di proventi mafiosi, a 200
miliardi di evasione ed elusione fiscale, a 100 e oltre miliardi di lavoro in
nero e al mercato delle armi e di transazione commerciale di manufatti e
tecnologia e finanze con la droga, ai subappalti edilizi lucrosi, alle rimesse
degli emigranti, al lavoro lucroso degli immigrati, alla prostituzione, tutte
cose in mano pressocché allo Stato
real-mafioso? Sono almeno 1.000.000 di miliardi di vecchie lire, insomma! Che
promettono affari sempre più lucrosi! Se non ci si crede, basta guardare ai
grandi affari che lo Stato ufficiale va facendo nell'area mediterranea, ma da
cui il Meridione è tenuto accuratamente fuori, se non per la questioni
illegali.
Ogni
tanto lo Stato ufficiale interviene, sì (come pomposamente vanta Maroni), ma
per riequilibrare i rapporti tra Stato reale e Stato ufficiale (ossia, per
ri-appropriarsi, questo, della sua parte di proventi). Si volesse risolvere
davvero la situazione, bisognerebbe reinventare un modo nuovo di far politica
unitaria e inviare per qualche anno tutto l'esercito (altro che Afghanistan!)
in assetto di guerra e far amministrare prefetti e generali (sperando che non
colludano) insieme agli amministratori locali. Ma vai a dire queste cose ai
parlamentari, amministratori e imprenditor-finanzieri collusi o che lucrano
sullo status quo, nonché alle anime belle dei "sinceramente
democratici" del garantismo sinistrorso!
Dobbiamo
scrivere, scrive e scrivere noi, lasciando almeno un'eredità spendibile per le
nuove generazioni. E al diavolo i distinguo. È tutta l'Italia che vive
dall'Unità senza storia. Abbiamo distrutto tutta l'eredità urbana e ambientale,
che pur avevamo ed era faro per il mondo almeno dal Medioevo fino all' ' 800.
Non sappiamo ancora dire perché fu scelta quel tipo di Unità, quando
contemporaneamente, per fare un solo un esempio, la Germania poteva dar lezioni
di unità equilibrata e federale.
Non
sappiamo ancora definire il perché, se non in forma demagogico-ideologica,
proprio in Italia si ebbe il più forte partito comunista occidentale (nota bene
che le due maggiori personalità fondative, Bordiga e Gramsci, erano
meridionali), che non consentì la dialettica autentica di maggioranza e
opposizione da Livorno ad oggi. Non sappiamo davvero bene addossare al PSI le
colpe per l’avvento del Fascismo, avendo esso rifiutato per ben due volte
ufficialmente di far parte dei governi Giolitti. Non sappiamo ancora
riconoscere che nel secondo dopoguerra è nata una Repubblica fondata sull'
"Anti", antifascismo, anticomunismo, anti-DC, anti questo e anti
quello, e non una Repubblica in positivo, propositiva. Non vogliamo riconoscere
che, sempre nel secondo dopoguerra, continuò la politica antimeridionalista
dell'Unità. "Anti" anche lo Spirito di un popolo e la sua cultura,
che hanno finito con lo scadere nell'imitazione anglosassone e nel
provincialismo. Ma come, noi, "figli" di Dante, di Machiavelli, di
Michelangelo e di Caravaggio, di Leopardi e di Rosmini, di Giotto e dei grandi
architetti e urbanisti, della Scuola siciliana, per tacere di migliaia di altre
personalità e cose!!!
V
Via!
Non vi può essere riscatto dell'Italia se non vi è riscatto del Meridione.
Mentre Bossi e il Berlusca ritornano ad un federalismo di tipo Comunale e delle
Signorie, cioè quanto di più antitetico rispetto alla concezione di uno Stato
nazionale e perfino della globalizzazione, il Meridione non si pone questo
problema, gli è distante anni luce, ma non perché è corrotto e mira alle
sovvenzioni, ma perché ha nel DNA storico il senso dello Stato, avendo creato
il primo vero Stato moderno fin dai Normanni. E dallo Stato, e dalla nazione
(!), vorrebbe il riconoscimento di questa antica e positiva storia. Basta
pensare che dal Meridione furono arruolati, proprio per il loro alto e sentito
senso dello Stato, le burocrazie, i maestri, i dirigenti del dopo Unità.
Federalismi, sì, ma quello dell’ ‘800, perfino del Cavour del convegno di
Plombières, rivisitato magari secondo le teorie di un Albert Dicey e di un
James Bryce, o di un K.C. Wheare, o, se si vuole salire a livello filosofico,
di un Immanuel Kant. Certo non quello degli antichi Comuni e Signorie
propugnato da un Bossi qualsiasi e seguaci.
Come si
può constatare, la situazione odierna non è gran che cambiata. Come si può
cambiare con le mafie che penetrano violentemente dappertutto, e non basta,
come abbiamo cercato di illustrare, arrestare qualche vecchio boss e incamerare
10/15 miliardi di beni, bisognerebbe assolutamente intervenire, oltre che con
esercito e prefetti, sulle banche e sulle Borse, a livello internazionale,
sulla Banca d’Italia, con la finanza a tappeto, per sequestrare i miliardi
illegali. Come si può creare e costruire una classe dirigente, anche politica,
nuova se negli ultimi 10 anni almeno 700.000 giovani laureati e diplomati sono
emigrati, e nella devastazione attuale, se i politici e i partiti nazionali,
pieni di meridionali, non si danno da fare nel senso del rinnovamento qui
auspicato? Come si può allora far finta, insomma, che la “Questione
meridionale” ormai, essendo storicizzata, in effetti non esiste più, ma che,
addirittura!, esista una questione settentrionale? Insomma, dovremmo accettare
di essere “cornuti e mazziati”? Ma va là! Cialtroni, semmai, saranno Tremonti,
Bossi e chi li segue.
[15.09.2010]
Le stragi di Pontelandolfo e
Casalduni (Benevento) compiute dall'esercito piemontese
Mercoledì 16 Marzo 2011
18:26
Scritto da Antonio Pagano
All'atto della proclamazione
del regno d'Italia vi sono rivolte in tutto il Sud contro gli occupanti
piemontesi. La notizia dei moti di Casalduni, dove in un combattimento contro
gli insorti muoiono 45 soldati piemontesi, arriva anche a San Lupo al liberale
Iacobelli. Costui, alla testa di duecento guardie nazionali bene armate, si
dirige verso la cittadina, ma accortosi che ogni strada è controllata dagli
insorti, devia verso Morcone. Da questo luogo, invia al Cialdini un dispaccio,
che in pratica decreta la fine di Pontelandolfo e Casalduni: «Eccellenza, Quarantacinque soldati, tra i
più valorosi figli d'Italia, il giorno 11 agosto 1861 furono trucidati in
Pontelandolfo. Arrivati sul luogo vennero tenuti a bada dai cittadini fino al
sopraggiungere dei briganti. Giunti costoro, i soldati avevano subito attaccato,
ma il popolo tutto accorse costringendoli a fuggire. Inseguiti si difesero
strenuamente, sempre combattendo, fino a ritirarsi nell'abitato di Casalduni
ove si arresero e passati per le armi. Invoco la magnanimità di sua eccellenza
affinché i due paesi citati soffrano un tremendo castigo che sia d'esempio alle
altre popolazioni del sud»
Il Cialdini ordina allora al
generale Maurizio De Sonnaz che di Pontelandolfo e Casalduni “non rimanesse pietra su pietra”. Costui,
il 13, col 18° reggimento bersaglieri, forma due colonne, una di 500 uomini al
comando del tenente colonnello Pier Eleonoro Negri, che si dirige verso
Pontelandolfo, l’altra di 400 al comando di un maggiore, Carlo Magno Melegari,
che si dirige verso Casalduni. Prima di entrare nei paesi, le colonne si
scontrano con una cinquantina d’insorti, che però sono costretti a fuggire nei
boschi dopo avere ucciso nel combattimento venticinque bersaglieri.
All'alba del 14,
Pontelandolfo è circondata. Dopo che un plotone, accompagnato dal De Marco, ha
contrassegnato le case dei liberali collaborazionisti da salvare, i bersaglieri
entrati in Pontelandolfo fucilano chiunque capiti a tiro: preti, uomini, donne,
bambini. Le case sono saccheggiate e tutto il paese dato alle fiamme e raso al
suolo. Tra gli assassini vi sono truppe ungheresi che compiono vere e proprie
atrocità. I morti sono oltre mille. Per fortuna alquanti abitanti sono riusciti
a scampare al massacro trovando rifugio nei boschi.
Nicola Biondi, contadino di
sessant’anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri. Costoro ne
denudano la figlia Concettina di sedici anni, e la violentano a turno. Dopo
un'ora la ragazza, sanguinante, sviene per la vergogna e per il dolore. Il
soldato piemontese che la stava violentando, indispettito nel vedere quel corpo
esanime, si alza e la uccide. Il padre della ragazza, che cerca di liberarsi
dalla fune che lo tiene legato al palo, è fucilato anche lui dai bersaglieri.
Le pallottole spezzano anche la fune e Nicola Biondi cade carponi accanto alla
figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro; con il figlio in braccio,
mentre scappa, è bloccato dai militari, che gli strappano il bambino dalle mani
e lo uccidono.
Il maggiore Rossi, con
coccarda azzurra al petto, è il più esagitato. Dà ordini, grida come un
ossesso, è talmente assetato di sangue che con la sciabola infilza ogni persona
che riesce a catturare, mentre i suoi sottoposti sparano su ogni cosa che si
muove. Uccisi i proprietari delle abitazioni, le saccheggiano: oro, argento,
soldi, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e
piatti.
Angiolo De Witt, del 36°
fanteria bersaglieri, così descrive quell'episodio: «… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l'incendio e lo sterminio
dell'intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti
i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di
bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del
giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle
baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre
di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il
terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla
ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per
incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un'intera
giornata: il castigo fu tremendo…».
Due giovani, salvati dal De
Marco perché liberali, alla vista di tanta barbarie e tanto accanimento contro
i loro compaesani e la loro città, consultatisi col padre, si dirigono verso il
Negri. I due giovani avevano appreso le idee liberali frequentando circoli
culturali a Napoli, sognavano un'Italia una, libera, indipendente; sognavano la
fratellanza. A quelle scene di terrore e di orrore aprono però di colpo gli
occhi. Il più giovane dei due aveva finito da poco gli studi all'Università di
Napoli e si avviava all'avvocatura; il fratello maggiore era un buon
commerciante di Pontelandolfo. I due fratelli sono accompagnati dal De Marco
per protestare contro quel barbaro eccidio. Il Negri per tutta risposta dà
immediatamente ordine di fucilarli tutti. Dieci bersaglieri prendono i Rinaldi,
s’impossessano dei soldi che hanno nelle tasche e li portano nei pressi della
chiesa di San Donato. I due fratelli chiedono un prete per l'ultima
confessione, ma è loro negato. Sono bendati e fucilati. L'avvocato muore
subito, mentre il fratello, pur colpito da nove pallottole, è ancora vivo. Il
Negri lo finisce a colpi di baionetta.
Il saccheggio e l'eccidio
durano l'intera giornata del 14. Numerose donne sono violentate e poi uccise.
Alcune rifugiatesi nelle chiese sono denudate e trucidate davanti all'altare.
Una, oltre ad opporre resistenza, graffia a sangue il viso di un piemontese; le
sono mozzate entrambe le mani e poi è uccisa a fucilate. Tutte le chiese sono
profanate e spogliate. Le ostie sante sono calpestate. Le pissidi, i voti
d'argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette
votive, rubati. Gli scampati al massacro, sono rastrellati e inviati a Cerreto
Sannita, dove circa la metà è fucilata.
A Casalduni la popolazione,
avvisata in tempo, fugge. Rimane in paese solo qualche malato, qualcuno che non
crede ad una dura repressione e qualche altro che pensa di farla franca
restando chiuso in casa. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione,
comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino,
circonda il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale
Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna
e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata
è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese
escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali
piemontesi. Messa a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti
trovati, il Melegari ordina al tenente Mancini di andare a Pontelandolfo per
ricevere istruzioni dal generale De Sonnaz. Dalle alture i popolani osservano
ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto
orrore.
A Pontelandolfo e a
Casalduni, i morti superano il migliaio, ma le cifre reali non sono mai svelate
dal governo. Il “Popolo d'Italia”,
giornale filogovernativo e quindi interessato a nascondere il più possibile la
verità, indica in 164 le vittime di quell'eccidio, destando l'indignazione
persino del giornale francese “La Patrie”
e dell’opinione pubblica europea. Dopo gli eccidi, Pier Eleonoro Negri aveva
telegrafato al governatore di Benevento, Gallarini: "Truppa Italiana Colonna Mobile - Fragneto Monforte lì 14 Agosto 1861
ore 7 a.m. Oggetto: Operazione contro i Briganti: Ieri mattina all'alba
giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora. Il
sergente del 36° Reggimento, il solo salvo dei 40, è con noi. Divido oggi le
mie truppe in due colonne mobili; l'una da me diretta agirà nella parte Nord ed
Est, l'altra sotto gli ordini del maggiore Gorini all'Ovest a Sud di questa
Provincia. Il Luogotenente Colonnello Comandante la Colonna; firmato Negri.".
13 Marzo 1861 l'ultima
bandiera borbonica in Sicilia
Lunedì 16 Maggio 2011 12:39
Scritto da Domenico Bonvegna
Sembra uno scioglilingua, ma
è quello che è accaduto 150 anni fa con la conquista del Sud da parte dei
cosiddetti garibaldini e fuoriusciti dell'esercito sardo-piemontese. Lo scrive
Franz Riccobono, nell'introduzione al libretto, La Real Cittadella di Messina,
sottotitolo: 13 Marzo 1861 l'ultima bandiera borbonica in Sicilia, di Nino
Aquila e Tommaso Romano, edito da Thule di Palermo (www.edizionethule.it). I
ruoli sono stati ribaltati, “chi avrebbe ragionevolmente dovuto vincere la
battaglia ha ufficialmente e sostanzialmente perso, chi non avrebbe potuto
neanche sperare nella vittoria in pratica vinse”.
Aquila e Romano, partendo
dall'ultimo baluardo borbonico della Cittadella di Messina, raccontano senza
reticenze le modalità politiche e militari che hanno portato alla fine del
Regno delle Due Sicilie. Così nella ricorrenza del centocinquantesimo
anniversario dell'Unità d'Italia oltre a ricordare l'impresa dei Mille, “sarà
bene dar voce alla parte borbonica per ristabilire finalmente la verità su
episodi ineludibili di una storia, comunque, comune”.
Il libro dopo i testi di
Aquila e Romano, presenta una selezione del “Diario” di Luigi Gaeta, 2 tenente,
aiutante di campo del maresciallo Gennaro Fergola in Messina, comandante
supremo della reale Cittadella di Messina. “Senza beceri propositi di
revisionismo fine a se stesso, ma nell'intendimento di offrire ulteriore
'nuovo' (...risalente a 150 anni fa!...) contributo alla storiografia
risorgimentale, assieme a Tommaso Romano, abbiamo deciso di ridare alle stampe
– almeno in parte – il testo redatto da Luigi Gaeta”. Per Nino Aquila occorre
conoscere ogni dettaglio della “vera Storia”, di quei giorni, soltanto così
forse si potrà sperare che prima o poi si possa pervenire alla soluzione delle
sperequazioni e delle incomprensioni che esistono fra le varie regioni
d'Italia.
Un particolare mi ha colpito
del diario quando Gaeta racconta la vicenda della battaglia di Milazzo, il
Colonnello Ferdinando Beneventano Del Bosco, comandante del Castello di
Milazzo, chiede rinforzi al generale Clary e questi glieli nega, perché ormai
aveva deciso di tradire il proprio Re, il Gaeta scrive: “perché almeno non si
scaglionano de' battaglioni fino a Spadafora e a Scala, i quali in brevissimo
tempo potrebbero accorrere in soccorso della brigata di Milazzo, minacciata da
forze superiori?” Sono esternazioni, perplessità riguardo al comportamento
delle massime autorità militari a cui sono affidate le sorti del Regno delle
Due Sicilie. Ormai sono diversi i testi dove esplicitamente si parla di
compravendita dei generali borbonici da parte di Garibaldi che era sbarcato in
Sicilia con tanto oro donato dalla massoneria inglese e da quella francese.
Aquila racconta dei generali
borbonici Francesco Landi, Ferdinando Lanza, che dovevano fermare Garibaldi a
Calatafimi e a Palermo, di Tommaso Clary letteralmente comprati per non far
combattere i propri eserciti e poi della tragica scomparsa di Ippolito Nievo,
plausibilmente legata ad una criminale volontà di far sparire i documenti
amministrativi riferentesi alla spedizione dei Mille. Così “la corruttibilità
di militari e funzionari borbonici, a 150 anni dagli eventi, appare come un
fatto incontrovertibile e determinante per l'andamento degli episodi bellici”.
E a questo punto forse “non sarebbe opportuno ridimensionare l'entità delle
vittorie sul campo ottenute da Garibaldi – almeno per quanto riguarda la
campagna in Sicilia – e dare una più circoscritta rilevanza al mito che attorno
al suo nome è stato, in buona parte artatamente costruito?”
Perfino al Giro d'Italia, a
Rai Sport 1, il giornalista sportivo (?) Bartoletti da Messina, ha lanciato un
breve documentario celebrativo di Garibaldi che tra tante altre cose, offendeva
la Chiesa e Pio IX.
Del tradimento ne parla
anche il professore Romano, c'è stata un'intera classe dirigente locale in
Sicilia e nel meridione, ad abbandonare la monarchia borbonica. Cedettero il
Regno senza colpo ferire, tranne qualche battaglia come Milazzo. “Garibaldi e i
suoi, a cominciare da Bixio, lasciarono una scia di sangue e vendetta sul suolo
siciliano e fra il popolo che, non certo in modo maggioritario, aveva creduto
nell'illusione per i contadini della cessione delle terre e in una non meglio
definita libertà e giustizia sociale”.
Con l'unificazione, il Sud
ha perso molto, dal crollo socioeconomico, alla cancellazione del tessuto
identitario, fino ai suoi figli costretti a milioni ad emigrare e a lasciare
che la criminalità e la mafia, il malgoverno, la facessero drammaticamente da
padroni. Per Tommaso Romano è fondamentale rileggere la storia, quella
veritiera, senza obliare le sue pagine. Ma questo purtroppo accade ancora oggi
nonostante siamo nel pieno delle “celebrazioni”, che secondo Romano, non
coinvolgono altro che una casta minoritaria, pregne di retorica patriottarda.
Una buona occasione per
conoscere gli eroi sconfitti e quei luoghi simbolo come la Real Cittadella di
Messina sicuramente hanno contribuito i tre giorni di manifestazioni dall'11 al
13 marzo scorso a Messina: “Una gloriosa pagina del nostro passato volutamente
cancellata dalla storia ufficiale!”, organizzate da numerose associazioni
siciliane con il patrocinio del Comune di Messina. Rilevante il convegno nel
salone delle bandiere di Palazzo Zanca, con la presentazione del libro di
Aquila e Romano, infine il giorno dopo con la S. Messa in suffragio dei caduti
presieduta dal Rev. do Don Vincenzo Castiglione Cappellano Sacro Militare
Ordine Costantiniano di San Giorgio e subito dopo al Bastione S. Stefano della
Real Cittadella con la commemorazione dei fatti d’arme, la scopertura di una
lapide celebrativa e deposizione di una corona d’alloro.
Molti siciliani ma anche
messinesi ignorano la storia centenaria della Cittadella di questi eroi
sconfitti dalla storia, umili e fedeli soldati asserragliati in una sorta di
limbo, quasi un deserto dei Tartari di buzzatiana memoria, quale per l'appunto
furono soldati e ufficiali fedeli della Real Cittadella di Messina, che
resistettero per nove mesi a garibaldini e piemontesi e che il generale
Cialdini non volle concedere l'onore delle armi, al valoroso e invitto
maresciallo Gennaro Fergola. “Era il 13 Marzo 1861, - si legge nella
presentazione della manifestazione messinese - a quattro giorni dalla
proclamazione a Torino del Regno d’Italia, quando dalla Cittadella veniva
ammainata la candida bandiera duosiciliana.
La fortezza messinese rappresentò, insieme con
quelle di Gaeta e di Civitella del Tronto, l’estrema resistenza del millenario
Regno delle Due Sicilie, dove i nostri soldati pur sapendo della inutilità di
ogni sforzo cercarono di difendere la Patria esprimendo la propria fedeltà al
Re Francesco II di Borbone. Questi uomini dimostrarono con le loro gesta
eroiche e con i 47 caduti sugli spalti che il soldato duosiciliano sapeva
combattere e morire per un ideale in contrapposizione ai tanti tradimenti e
vili defezioni che portarono alla caduta del Regno. Una gloriosa pagina del
nostro passato volutamente cancellata dalla storiografia ufficiale come la
stessa Real Cittadella, testimone inesorabile dei fatti, che ancora oggi versa
nel totale abbandono”.
La Storia della Sicilia dopo
il 1860 è da riscrivere
Mercoledì 21 Marzo 2012
19:50
Scritto da Domenico Bonvegna
Ognuno festeggia a modo suo
il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, io l’ho fatto leggendo il libro di
Tommaso Romano, Sicilia 1860 - 1870. Una storia da riscrivere, pubblicato da
ISSPE(Istituto Siciliano Studi Politici ed Economici),Palermo 2011 (pp.151).
Alcuni capitoli.soprattutto quelli riguardanti le insorgenze, le rivolte del
popolo siciliano contro il nascente Stato liberale sabaudo che dopo aver
conquistato il Regno delle Due Sicilie di Francesco II, imponeva tasse e la
leva obbligatoria indiscriminata, con città e paesi della Sicilia in stato
d’assedio, mi ricordano tanto le recenti rivolte dei forconi del gennaio
scorso. Non per nulla sui giornali, in televisione, si evocavanovecchi fantasmi
dell’indipendentismo siciliano, del brigantaggio, dell’insorgenza
clericale-borbonica degli anni subito dopo il 1860. A questo proposito scriveva
in quei giorni il quotidiano online siciliainformazioni.com: “Mentre nelle
piazze i Forconi, Forza d’Urto e Vespri agitano vecchie e nuovi problemi
siciliani e tipicamente meridionali, il web è teatro di una guerra combattuta
da sigle ‘extraparlamentari che si richiamano alle ragioni delle popolazioni
del Mezzogiorno d’Italia. Ci sono siti e blog sulfurei, che affiancano, ma non
troppo, i movimenti parapolitici: le associazioni e i movimenti duosiciliani e
borbonici. ‘Sud indipendente’, la sigla più gettonata, e Insorgenza,
culturalmente di Destra”.
Certo non intendo forzare
gli eventifacendoli diventare quello che non sono: la rivolta dei forconi
contro il caro benzina non è una rivolta legittimista borbonica,
indipendentista o autonomista, però leggendo le pagine del libro di Romano,
qualche similitudine traspare qua e là.
Il libro consta di 10
capitoli e di ben 27 pagine di bibliografia, basterebbe solo questo dato per
scrivere che il testo può essere definito culturalmente e scientificamente
corretto e ben documentato.
Il processo di conquista del
nuovo Stato liberale in Sicilia si è attuato attraverso gli apparati
burocratici a cominciare dai Prefetti giunti nell’isola affiancando
direttamente il dittatore Garibaldi, prima con Antonio Mordini e poi con tutti
gli altri. Il regime che si instaurò in Sicilia fu subito caratterizzato da
pesanti restrizioni alla libertà personale, con tasse e misure come la
coscrizione obbligatoria, che apparvero subito al popolo, logico compimento di
una sostanziale e ferrea occupazione, in cui Prefetti, Questori, Polizia e
Forze armate reprimevano anche violentemente – come si documenta nel libro –
moti popolari, insorgenze spontanee.
Di queste rivolte, il testo
di Romano fa un elenco circonstanziato dei vari movimenti più o meno
organizzati che si ritrovarono a combattere, magari strategicamente insieme,
contro il nuovo statalismo prevaricatore del neonato Regno d’Italia. Troviamo,
da una parte, repubblicani, radicali, garibaldini delusi e dall’altro fronte, clericali,
cattolici, regionisti, vecchi e nuovi autonomisti, indipendentisti, e poi il
cosiddetto Partito Borbonico e Legittimista, che “non era in realtà- scrive
Romano - composto da un gruppo ristretto di nostalgici e che comunque, forse
per comodità o per reale paura, veniva indicata dalle autorità del regno
sabaudo, nei rapporti ministeriali e in quelli di politica interna, come
‘regista’ (anche sotto mentite spoglie, addirittura repubblicane) di ogni
sommossa, di ogni critica o dissenso”.(pag. 14)
Dopo l’unificazione, per
almeno un decennio, in Sicilia, ma anche a Malta e a Marsiglia, troviamo
diversi esponenti borbonici, anche se la gran parte, in particolare i nobili
come i Tancredi Falconeri o i Consalvo Uzeda, protagonisti dei romanzi del
Gattopardo o del Vicerè, erano già transitati nel nuovo regime per difendere
vecchi e nuovi privilegi insieme ai grandi proprietari terrieri e agli
speculatori fattisi ricchi con nuovi “affari”. La Chiesa Cattolica, dopo una
prima infatuazione “patriottica” e filogaribaldina, la maggior parte si ritrovò
nel fronte conservatore e tradizionale e in più casi, in quello legittimista e
borbonico, patendo persecuzioni e arresti per tutto il decennio.
Nel Parlamento a Torino o a
Firenze a opporsi contro i misfatti e le angherie del Regno sabaudo c’era Vito
D’Ondes Reggio e Emerico Amari. Da ricordare il marchese Vincenzo Mortillaro di
Villarena, capo dei legittimisti, una grande personalità del mondo culturale
siciliano e protagonista della vita palermitana, robusto studioso e
intellettuale vivace. Buon conservatore, cattolico in politica e
tradizionalista nelle idee. Nel libro, Romano lo contrappone all’altro studioso
siciliano, Michele Amari, che essendo agli antipodi della concezione politica
ed etica di Mortillaro, ebbe maggior successo e quindi è più conosciuto.
“La Sicilia ebbe pure il suo
brigantaggio interno, originato per la gran parte da renitenti alla leva e da
contadini disperati dalle tassazioni spropositate, i quali coadiuvarono – come
avvenne per la rivolta del Sette e mezzo a Palermo nel 1866 – i ribelli.
Brigantaggio che, oggettivamente, ebbe caratteri diversi rispetto al
brigantaggio meridionale, di cui molto si è già scritto, anche se in questo
ulteriore caso ricerche e ipotesi rimangono per gran parte sul tappeto e tutte
da esplorare, andando oltre i rapporti di polizia e dei Prefetti, fonti
importanti ma, certamente, di parte”. (pag.15)
Il professore Tommaso
Romano, fondatore e direttore della Casa editrice Thule, nel 2011 si è
festeggiato il quarantesimo compleanno, ci tiene a precisare che l’obiettivo di
“Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere”, non è quello di “alimentare
nostalgie incapacitanti, ma guardare all’avvenire della Sicilia e del Sud,
ripercorrendo le tappe di una realtà tragica che ancora scontiamo
pesantemente”.Pertanto ci sentiamo parte integrante della Storia italiana, ma
nello stesso tempo, vogliamo conservare l’onore del nostro essere meridionali,
non per inutili rivendicazioni o per un semplice ritorno del maltolto (che pur
ci spetterebbe!)
Nel 1° capitolo, “Dopo
l’invasione: Bronte e non solo”, già nel titolo, l’autore fa intravedere che
non c’è da ricordare solo la pur nota rivolta contadina di Brontecon
conseguente eccidio, “in quella torrida estate del 1860- scrive Romano - non pochi furono i tumulti in vari paesi
poveri della Sicilia a seguito delle mancate promesse: Regalbuto, Polizzi
Generosa, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto,
Petralia, Resuttano, Montemaggiore, Castelnuovo, Capaci, Castiglione,
Collesano, Centuripe, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Mistretta,
Cefalù, Linguaglossa, Trecastagni, Pedara. Tumulti che nascevano appunto
dall’illusione, dalla constatazione della mancata promessa di abolire la tassa
del macinato e altre imposte e balzelli, nonché dal tradimento dell’atto del 2
giugno 1860, firmato da Francesco Crispi, dall’inganno relativamente alla
divisione delle terre dei demani comunali molti dei quali, invece, assegnati ai
garibaldini combattenti o ai loro eredi, se caduti”. (pag. 20)
Il brigantaggio siciliano dopo il 1860
Sabato 24 Marzo 2012 12:45
Scritto da Domenico Bonvegna
Nella presentazione presso il Palazzo Jung a cura della Provincia di
Palermo, del libro Sicilia 1860 - 1870. Una storia da riscrivere, edito da
Isspe, l’autore Tommaso Romano, prendendo la parola ha voluto sottolineare,
quello che non ha scritto la storiografia ufficiale e cioè che la Sicilia ha
avuto il suo brigantaggio,le rivolte di popolo, non solo nelle città, ma anche
nei piccoli centri contro il nuovo Stato sabaudo. E se negli anni delle
insorgenze del popolo italiano contro gli eserciti francesi di Napoleone, la
Sicilia rimase inerte, adesso dopo il cosiddetto Risorgimento, chiamato da O’
Clery, la Rivoluzione italiana, la Sicilia si ribella. Il libro di Romano
partendo dall’impresa “garibaldina”, che fu sostanzialmente un’operazione di
pirateria internazionale, sostenuta dal piccolo Piemonte e dall’Inghilterra, in
successione racconta le stragi Bronte, dopo il naufragio e la morte di Ippolito
Nievo, che ormai aveva preso le distanze da ciò che riguardava l’Esercito
Meridionale di Sicilia e da come stava evolvendo la situazione politica e
militare dell’Italia. Il Nievo non condivideva più come si stava comportando il
nuovo Stato. Ecco perché probabilmente è stato fatto sparire insieme al suo
Resoconto sulla gestione dell’impresa garibaldina.
Segue il racconto e siamo al 3 capitolo, sull’ultima eroica resistenza
borbonica della Real Cittadella di Messina, caduta il 13 marzo 1861. Romano per
questo argomento rinvia al recente volume curato insieme a Nino Aquila, La Real
Cittadella di Messina 13 marzo 1861 l’ultima bandiera borbonica in Sicilia
(Thule, Palermo 2011).
Nel 4 capitolo il libro si occupa dei plebisciti farsa che si svolsero il
21 ottobre 1860, con ridicole votazioni, senza alcuna segretezza di voto, fra
pochi intimi notabili, dei quali molti garibaldini ammessi al voto in più
sezioni elettorali. Gli elettori furono 575.000 (il 25% di 2.232.000), votarono
432.762. Di cui soltanto 667 contro l’annessione allo Stato sabaudo. Si
racconta di un villano che gridò: Viva Francesco II…Fu ucciso all’istante.
Vittorio Emanuele presente a Palermo per la cerimonia unitaria, assicurò ai
siciliani di instaurare un governo di riparazione e di concordia. Parole
paradossali in confronto a quello che succede nei giorni successivi. “Il
governo regio - scrive Francesco Renda –fu tutto che di riparazione e di concordia(…)lo
Stato unitario nell’isola presentò subito caratteri autoritari(…)
Alle violenze e repressioni ai danni delle popolazioni siciliane, volute
prima dai garibaldini e poi dai regi piemontesi in funzione di conquista e di
dominio, rispondono i dissidenti, gli strati popolari, a cominciare dal clero
intransigente, che oppone una vera e propria resistenza, con caratteri diversi
il più delle volte dai fenomeni di brigantaggio meridionale. Tuttavia
significativi da farli ricordare“ai troppi che ancora tendono a minimizzarli
come episodi localistici, oggetto di curiosità di storiografi municipali
destinati ad essere relegati fra le sommosse anarchicheggianti e utilitariste,
capeggiate e strumentalizzate da lestofanti o da aristocratici e clericali
occulti e reazionari”.(pag.54)
Il 5 capitolo fa riferimento al 1862, un anno nodale per l’intensità
delle repressioni dell’esercito del Regno d’Italia sui civili. In questo anno i
latifondisti acquistano molto e si arricchiscono, mentre i braccianti agricoli
si impoveriscono e così molti giovani si diedero alla macchia anche per
sfuggire alla coscrizioni obbligatoria entrando, per necessità o per combattere
gli invasori piemontesi, nelle bande di campagna. Secondo Romano occorre
esaminare attentamente il fenomeno isolano del banditismo: “da un lato i
contadini poveri esasperati uniti ai piccoli proprietari disingannati da un
fisco mai tanto esoso, e dall’altro, gran parte di quanti, riuniti in bande,
spronavano la povera gente alla rivolta sociale e politica. In tutti vi era il
sistematico rifiuto della coercizione derivata dall’unificazione e la palese
delusione rispetto alle speranze e alle illusioni del 1860”. Pertanto, mettere
in luce queste cose, “non mira a donare un’aureola romantica alle bande dei
briganti siciliani, tende solamente ad evidenziare come certi mali antichi si
moltiplicarono anche esponenzialmente, al punto che una ingente massa di
uomini, e in qualche caso anche di donne, si organizzarono, con l’aiuto delle
popolazioni indigene, in cima a montagne aspre e inaccessibili, per far fronte
alla feroce persecuzione poliziesca che travalicava il mantenimento dell’ordine
pubblico divenendo, assai spesso, licenza deliberata e violenta gratuita a
spese, non solo dei briganti, ma anche delle popolazioni e financo dei bambini
inermi”. (pag. 75)
Tutto questo il professore Tommaso Romano lo attribuisce a una totale
incapacità di comprendere le tradizioni, i costumi, la psicologia, la
religiosità del popolo siciliano, inoltre quell’idea folle di voler esportare e
imporre un modello impossibile per i siciliani, quello del vecchio Regno Sardo.
Romano tranquillamenteammette che il brigantaggio siciliano si sovrapponeva in
modo nuovo dopo l’unità alla delinquenza comune, raggruppando renitenti,
scontenti, reduci di azioni oppositive al nuovo governo locale e nazionale,
sradicati, ma anche ex soldati e impiegati del passato regime borbonico…”.(pag.
76)
Il 17 agosto, Palermo e tutte le provincie della Sicilia furono
dichiarate in stato di assedio. Il 28 agosto tocca a Catania, “si intima di non
portare armi in città e che in caso di tumulto, chi fosse arrestato con le armi
indosso sarà fucilato”. Interessante la rivolta popolare che scoppiò a
Castellamare del Golfo, cittadina della provincia di Trapani. Una insorgenza contro
“le tasse esose e la leva obbligatoria, schierata ad affrontare il comune
nemico, raffigurato da rappresentanti militari e civili del nuovo stato, visiti
come oppressori decisi a tutto”.(pag.80) Per sedare la rivolta il Sottoprefetto
di Alcamo chiese rinforzi a Palermo che mandò due navi da guerra pieni di
soldati. Tra i giustiziati va ricordata Angela Romano, una bambina di appena
nove anni. La repressione del generale Savona che si scagliò contro i renitenti
di Castellamare, Alcamo e Monte San Giuliano, fu giudicata un “un bene per la
Patria”, per far uscire la Sicilia, “dal ciclo che percorrono tutte le nazioni
dalla barbarie alla civiltà”. In questo capitolo si accenna ai fatti di
Fantina, in provincia di Messina, vicino Barcellona, dove alcuni sbandati
volontari garibaldini, trovano rifugio nel piccolo centro agricolo, ma un
reparto militare al comando del maggiore Giuseppe C. De Villata, li fece
catturare e subito dichiarandoli disertori li fece fucilare. Sull’eccidio di
Fantina, Antonio Ghirelli scrisse: “l’episodio di Fantina rimase del tutto
sconosciuto alle cronache ufficiali del risorgimento italiano(…)mentre avrebbe
dovuto suggerire severe riflessioni sulla ferocia con cui i vincitori imposero
la loro legge nel Mezzogiorno, tanto nei confronti del ‘brigantaggio’ più o
meno filoborbonico, quanto e forse ancor più rigorosamente rispetto agli
esponenti del Partito d’Azione, ai volontari garibaldini e agli affiliati alla
Giovane Italia”.(pag. 88)
Pensavo di poter concludere, ma ho bisogno di un altro intervento. Alla
prossima.
Il brigantaggio siciliano
dopo il 1860
Martedì 27 Marzo 2012 12:31
Scritto da Domenico Bonvegna
Seconda parte
Nella
presentazione presso il Palazzo Jung a cura della Provincia di Palermo, del
libro Sicilia 1860 - 1870. Una storia da riscrivere, edito da Isspe, l’autore
Tommaso Romano, prendendo la parola hasottolineato, che anche sela storiografia
ufficiale non lo ha scritto, la Sicilia ha avuto il suo brigantaggio,lesue
rivolte di popolo,sia nelle città, che nei piccoli centri contro il nuovo Stato
unitario sabaudo. E se nei decenni prima, negli anni delle cosiddetteinsorgenze
del popolo italiano contro gli eserciti francesi di Napoleone, la Sicilia non
insorse, adesso con il cosiddetto Risorgimento, definito da O’ Clery, la
Rivoluzione italiana, la Sicilia insorge eccome. Il libro di Romano partendo
dall’impresa “garibaldina”, che fu sostanzialmente un’operazione di pirateria
internazionale, sostenuta dal piccolo Piemonte e dall’Inghilterra, parte dalle
stragi di Bronte,poi affronta l’argomento del naufragio e della morte di
Ippolito Nievo, che aveva preso le distanze da ciò che riguardava l’Esercito
Meridionale di Sicilia e da come stava evolvendo la situazione politica e
militare dell’Italia. Infatti, il Nievo non condivideva più come si stava
comportando il nuovo Stato. Ecco perché è stato fatto sparire insieme al suo
Resoconto sulla gestione dell’impresa garibaldina.
Segue
il racconto e siamo al 3 capitolo, sull’ultima eroica resistenza borbonica
della Real Cittadella di Messina, caduta il 13 marzo 1861. Romano per questo
argomento rinvia al recente volume curato insieme a Nino Aquila, La Real
Cittadella di Messina 13 marzo 1861 l’ultima bandiera borbonica in Sicilia
(Thule, Palermo 2011).
Nel 4
capitolo il libro si occupa dei plebisciti farsa che si svolsero il 21 ottobre
1860, con ridicole votazioni, senza alcuna segretezza di voto, fra pochi intimi
notabili, dei quali molti garibaldini ammessi al voto in più sezioni
elettorali. Gli elettori furono 575.000 (il 25% di 2.232.000), votarono
432.762. Di cui soltanto 667 contro l’annessione allo Stato sabaudo. Si
racconta di un villano che gridò: Viva Francesco II…Fu ucciso all’istante.
Vittorio Emanuele II presente a Palermo per la cerimonia unitaria, assicurò ai
siciliani di instaurare un governo di riparazione e di concordia. Parole
paradossali in confronto a quello che succede nei giorni successivi. “Il
governo regio - scrive Francesco Renda -fu tutto che di riparazione e di
concordia(…)lo Stato unitario nell’isola presentò subito caratteri
autoritari(…)
Alle
violenze e repressioni ai danni delle popolazioni siciliane, volute prima dai
garibaldini e poi dai regi piemontesi in funzione di conquista e di dominio,
rispondono soprattutto, gli strati popolari, a cominciare dal clero
intransigente, che oppone una vera e propria resistenza, con caratteri diversi
il più delle volte dai fenomeni di brigantaggio meridionale. Tuttavia sono
caratteri significativi da farli ricordare“ai troppi che ancora tendono a
minimizzarli come episodi localistici, oggetto di curiosità di storiografi
municipali destinati ad essere relegati fra le sommosse anarchicheggianti e
utilitariste, capeggiate e strumentalizzate da lestofanti o da aristocratici e
clericali occulti e reazionari”.(pag.54)
Il 5
capitolo fa riferimento al 1862, un anno nodale per l’intensità delle
repressioni dell’esercito del Regno d’Italia sui civili. In questo anno i
latifondisti acquistano molto e si arricchiscono, mentre i braccianti agricoli
si impoveriscono e così molti giovani si diedero alla macchia anche per
sfuggire alla coscrizioni obbligatoria entrando, per necessità o per combattere
gli invasori piemontesi, nelle bande di campagna. Secondo Romano occorre
esaminare attentamente il fenomeno isolano del banditismo: “da un lato i
contadini poveri esasperati uniti ai piccoli proprietari disingannati da un
fisco mai tanto esoso, e dall’altro, gran parte di quanti, riuniti in bande,
spronavano la povera gente alla rivolta sociale e politica. In tutti vi era il
sistematico rifiuto della coercizione derivata dall’unificazione e la palese
delusione rispetto alle speranze e alle illusioni del 1860”. Pertanto, mettere
in luce queste cose, “non mira a donare un’aureola romantica alle bande dei
briganti siciliani, tende solamente ad evidenziare come certi mali antichi si
moltiplicarono anche esponenzialmente, al punto che una ingente massa di
uomini, e in qualche caso anche di donne, si organizzarono, con l’aiuto delle
popolazioni indigene, in cima a montagne aspre e inaccessibili, per far fronte
alla feroce persecuzione poliziesca che travalicava il mantenimento dell’ordine
pubblico divenendo, assai spesso, licenza deliberata e violenta gratuita a
spese, non solo dei briganti, ma anche delle popolazioni e financo dei bambini
inermi”. (pag. 75)
Il
nuovo Stato unitario, attraverso i prefetti venuti da Torino, è incapace di
comprendere le tradizioni, i costumi, la psicologia, la religiosità del popolo
siciliano, inoltre ancora più grave è quell’idea folle di voler esportare e
imporre un modello impossibile per i siciliani, quello del vecchio Regno Sardo.
Il professore Romano tranquillamente ammette che il brigantaggio siciliano si
sovrapponeva in modo nuovo dopo l’unità alla delinquenza comune, raggruppando
renitenti, scontenti, reduci di azioni oppositive al nuovo governo locale e
nazionale, sradicati, ma anche ex soldati e impiegati del passato regime
borbonico…”.(pag. 76)
Il 17
agosto, Palermo e tutte le provincie della Sicilia furono dichiarate in stato
di assedio. Il 28 agosto tocca a Catania, “si intima di non portare armi in
città e che in caso di tumulto, chi fosse arrestato con le armi indosso sarà
fucilato”. Interessante la rivolta popolare che scoppiò a Castellamare del
Golfo, cittadina della provincia di Trapani. Una insorgenza contro “le tasse
esose e la leva obbligatoria, schierata ad affrontare il comune nemico,
raffigurato da rappresentanti militari e civili del nuovo stato, visti come
oppressori decisi a tutto”.(pag.80) Per sedare la rivolta il Sottoprefetto di
Alcamo chiese rinforzi a Palermo che mandò due navi da guerra pieni di soldati.
Tra i giustiziati va ricordata Angela Romano, una bambina di appena nove anni.
La
repressione del generale Savona che si scagliò contro i renitenti di
Castellamare, Alcamo e Monte San Giuliano, fu giudicata un “un bene per la
Patria, per far uscire la Sicilia, “dal ciclo che percorrono tutte le nazioni
dalla barbarie alla civiltà”. In questo capitolo si accenna ai fatti di
Fantina, in provincia di Messina, vicino Barcellona, dove alcuni sbandati
volontari garibaldini, trovano rifugio nel piccolo centro agricolo, un reparto
militare al comando del maggiore Giuseppe C. De Villata, li cattura e subito
dichiarandoli disertori li fucila.Secondo mio fratello, i volontari di Fantina
sono morti probabilmente senza percepire il motivo. Sull’eccidio di Fantina,
Antonio Ghirelli scrisse: “l’episodio di Fantina rimase del tutto sconosciuto
alle cronache ufficiali del risorgimento italiano(…)mentre avrebbe dovuto
suggerire severe riflessioni sulla ferocia con cui i vincitori imposero la loro
legge nel Mezzogiorno, tanto nei confronti del ‘brigantaggio’ più o meno
filoborbonico, quanto e forse ancor più rigorosamente rispetto agli esponenti
del Partito d’Azione, ai volontari garibaldini e agli affiliati alla Giovane
Italia”.(pag. 88)
Repressione delle rivolte popolari e azione anticlericale contro la
chiesa in Sicilia
Lunedì 02 Aprile 2012 11:02
Scritto da Domenico Bonvegna
Sto presentando il libro di Tommaso Romano, Sicilia 1860-1870. Una storia
da riscrivere, edito da Isspe. Prima della rivolta di Palermo occorre
ricordarne altre come quella del 19 marzo 1866 di Canicattì, di Monreale, dove
i rivoltosi esibivano come loro simbolo il Crocifisso, il ritratto di Francesco
II, del Papa, le bandiere gigliate e tricolori senza stemma sabaudo. Altri
centri insorsero come Villabate, Bagheria, cruenta l’insurrezione di Misilmeri
a pochi chilometri da Palermo, dove i rivoltosi gridavano BeddaMatri, viva la
Religione, Viva S. Giusto. Dal 22 settembre al 2 ottobre si svolsero ad
Adernò(l’odierna Adrano)le cosiddette cinque giornate. Infine, altre rivolte a
Santa Maria dell’Ogliastro, Villafrati, Bisacquino, Piana dei Greci e tanti
altri centri. “Comune a tutti gli insorti era quindi il nemico principale
contro cui insorgere e contro cui ribellarsi e che il popolo, senza tante
disquisizioni ideologiche o istituzionali, sentiva come il morso impellente che
l’attanagliava, insieme alla nuova povertà frutto anche di un liberalismo
economico e centralista che privilegiava solo i possessori di capitali, i
grandi manovratori di interessi, gli usurai che pure erano attivissimi, i nuovi
capitalisti alleati con gli inglesi anche in Sicilia, trasformisti che da
repubblicani e federalisti, come Crispi, si ‘scoprirono’ monarchici e
unitaristi”. (pag.127)
Ritorniamo alla rivolta del “Sette e Mezzo” a Palermo, il generale
Cadorna ammise che dal momento dell’inizio della rivolta “le bande siano
rimaste padrone della città, eccettuato il forte di Castellamare, il carcere,
le finanze, il palazzo reale ed il palazzo di città, che restarono sotto il
controllo dell’autorità militare”.Le principali vie di Palermo erano in mano
gli insorti. “Scontri violenti si svolsero in quei giorni fra gli insorti e le
truppe di Masi, Angioletti e Riboty (quest’ultimo alla testa dei marinai)
particolarmente nella zona dell’Orto Botanico, di Piazza Marina, dei Quattro
Canti di Campagna. Dal convento di San Francesco di Paola si aprì il fuoco
contro i governativi - scrive Romano – al comando del generale Cadorna per
sedare la rivolta, gli effettivi raggiunsero la quota di 40.000 uomini.
Inoltre, la città fu cannoneggiata dalle navi della Regia Marina ed anche da
una nave inglese (!) presente nel porto di Palermo”. (pag.143)
In quei giorni Palermo fu teatro di una guerriglia vera e propria, “la
città fu un campo di battaglia, con larga partecipazione di tutti i ceti
sociali alla rivolta, ma con preponderanza del ceto popolare e con significativa
presenza di religiosi, lo stesso Cadorna attesta infatti che ‘parecchi frati
hanno preso parte nei combattimenti, in mezzo alle squadre di malandrini”. Gli
insorti gridavano indifferentemente nelle strade viva la Repubblica, evviva
Santa Rosalia e i monasteri, Evviva Francesco, innalzando bandiere rosse e
bianche, il crocefisso e gli stendardi delle Confraternite defraudate dalle
leggi avversive”. (pag.145) L’ideologo della rivolta, secondo Romano fu
monsignor Gaetano Bellavia, borbonico noto a Questure e Prefetture e poi
naturalmente Vincenzo Mortillaro. Le operazioni della rivolta erano in mano a
Francesco Bonafede. Alla fine della rivolta si contarono un migliaio di morti
tra i rivoltosi, i caduti governativi invece furono circa 200, 87 feriti gravi
e 142 leggeri. Dopo la rivolta si registrarono atti di brutale violenza,
crudeltà e vendetta da parte dei regi, con uccisioni indiscriminate. Il 25
dicembre il Questore di Palermo ripristinò la famigerata “carta di
circolazione”, un passaporto interno, per delimitare i quartieri palermitani,
oltre i quali il documento era necessario. A conclusione del capitolo VIII, il
professore Romano fa parlare Salvatore Natoli e Maria Rosaria De Stefano Natoli
che nel loro libro, La Nazione che non fu, scrivono: “sei anni dopo
l’annessione, la situazione siciliana di quel momento ha molte analogie con le
guerre di insurrezionedella Vandea e la rivolta del Sette e Mezzo ha molti
punti in comune con la battaglia di Savenay specie nelle cause; anche il fatto
scatenante è l’obbligo di leva per trecentomila francesi: è il 1793,
settantatré anni prima”. Dunque le sette giornate di Palermo del 1866 non
possono essere ridotte a un episodio anarcoide o di malandrinaggio collettivo,
certamente si trattò di vera Insorgenza popolare. (pag. 156)
Il libro di Romano dà molto spazio alla repressione e all’azione
anticlericale contro la Chiesa del nuovo governo sabaudo piemontese. Le vere
vittime della rivoluzione risorgimentista furono le case, gli istituti
religiosi, i monaci,le monache e i sacerdoti.“Mai in Sicilia, scrive Maria
Teresa Falzone, se si esclude il periodo della dominazione araba, vi era stata
una soppressione così violenta e di così ampia portata”. Il nuovo regno
d’Italia, attraverso leggi di spoliazione e di laicizzazione colpì pesantemente
la Chiesa in Sicilia e proprio queste leggi “furono ulteriori causa di
malcontento e indignazione popolare che sfociò in insorgenze vere e proprie,
per ciò che si appalesava come un attentato alla fede millenaria, alla tradizione,
all’identità profonda e alla stessa sussistenza che le opere di carità della
Chiesa favorivano per migliaia di persone con il lavoro nelle chiese e nelle
istituzioni cattoliche (circa diecimila persone solo a Palermo).
Sulla soppressione (sarebbe più esatto scrivere ladrocinio) degli
istituti religiosi, il più esaustivo e mirabile studio-ricerca è quello di
Salvatore Cucinotta, col suoSicilia e Siciliani. Dalle riforme borboniche al
rivolgimento piemontese. Soppressioni (Edizioni Siciliane, Messina, 1996).“Un
volume di oltre settecento pagine ignorato dagli storici conformisti che
nonostante abbia veramente colmato una grave lacuna risulta tuttavia assai
difficile da reperire”. Io molti anni fa ne ho visto una copia a padre Giuseppe
Tatì a S. Alessio.
Vittorio Emanuele II, il 18 febbraio del 1861, ai 47 deputati siciliani
ricordò la necessità di nuovi fonti finanziarie, che significava che “non solo
si attingeva alle riserve auree copiose sottratte dall’ex Regno delle due
Sicilie, ma si puntava al cuore delle casse e del vasto patrimonio della Chiesa
per armare lo Stato, imporre la lunghissima e costosa coscrizione obbligatoria,
onde usarla contro i briganti e i legittimisti del Sud”. (pag. 180)Non solo ma
la finalità del nuovo Regno, a detta di molti suoi esponenti, era la completa
laicizzazione dell’Italia, per Romano, ma anche per tanti altri studiosi e
storici cattolici, si puntava dritti al cuore della Cristianità, per
disintegrarla e poi annientarla. “Non sarà inutile ricordare che nel 1860 ben
sessanta vescovi furono cacciati dalle loro diocesi nel Meridione perché
accusati di legittimismo filo-borbonico e che, nel 1863, finirà in carcere per
aver difeso i diritti del Papa Pio IX, il vescovo di Spoleto Giovanni Battista
Arnaldi. Destino che toccherà nel 1867, anche al vescovo di Monreale, Benedetto
D’Acquisto”. Con le leggi sulla soppressione- cancellazione di tutti gli ordini
religiosi, secondo il Cucinotta, furono calpestati i principi del diritto
naturale, dello Statuto e del Codice Civile (…)L’obiettivo era -sempre secondo
Cucinotta – di azzerare quel tessuto socio-religioso che per secoli, in unità
di libero e gratuito servizio, aveva unito il laicato e il mondo religioso, per
cui con le soppressioni, in Sicilia non vi è più storia della Chiesa come
storia della società”. (pag. 188)
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Il debito pubblico è anche colpa del nuovo Regno d'Italia
Lunedì 13 Maggio 2013 16:54
Scritto da Domenico Bonvegna
Sul numero
366 della rivista Cristianità in un interessante articolo Francesco Pappalardo
formula una singolare tesi secondo cui il nostro grosso debito nazionale è
anche colpa del Regno di Sardegna fortemente indebitato e che una volta
divenuto Regno d'Italia passava il debito a tutto il Paese. E' una tesi di un
economista, uomo politico napoletano, il barone Giacomo Savarese, ripresa dal
Il Sole-24 Ore in occasione del centocinquantenario dell'Unità d'Italia.“(....)
è stato il Regno dei Savoia a portare nella nascente Italia la cultura del
debito facile, della finanza allegra. Si può trarre la conclusione che per il
Regno di Sardegna la creazione di un'Italia unita fosse anche modo per
aggiustare i conti”. (Morya Longo, Nord “padre” del debito pubblico, in Sole-24
Ore,Milano 17.3.2011). Aggiustare i conti, naturalmente, secondo Pappalardo,
era a danno del reame più ricco, quello borbonico.
Savarese pubblica un'opera polemica ma ben
documentata in cui compie un breve ma significativo raffronto fra le finanze
dello Stato sardo, fortemente indebitato, e quelle del più virtuoso Regno delle
due Sicilie. Il 17 marzo 1861, il Regno di Sardegna aveva un debito pubblico
pari al 67 per cento del Prodotto Interno Lordo, dilatatosi del 565 per cento,
nel periodo fra il 1847 e il 1859 per le guerre, nuovi balzelli e
l'acquisizione forzata delle proprietà ecclesiastiche. Opposta la situazione
del Regno delle Due Sicilie, che ha un debito pari al 29,6 per cento del PIL e
un bilancio rigoroso.
Tra l'altro, secondo uno studio della
ricercatrice Stéphanie Collet, lo spread,la differenza di rendimento fra i
titoli del debito pubblico degli Stati preunitari, premiava i titoli del Regno
delle Due Sicilie, che pagavano un tasso d'interesse più basso: 4,3 per cento
annuo rispetto al 5,7 per cento di quelli del Regno sardo. Nel 1866 il nuovo
Regno d'Italia aveva raggiunto addirittura il 14 per cento, riprova che i
mercati continuavano a non credere nella tenuta del nuovo regno. La Collet
individua delle analogie fra l'unificazione del debito sovrano degli Stati
italiani preunitari e il tentativo d'integrare le politiche economiche e
fiscali e anche i debiti sovrani, dei Paesi appartenenti all'area dell'euro.
Secondo Pappalardo, lo rileva anche l'economista di fama internazionale Vito
Tanzi: “La costruzione dell'unità europea sta incontrando difficoltà simili a
quelle affrontate centocinquant'anni fa nella penisola italiana, dove gli Stati
preesistenti, caratterizzati da leggi e da sistemi economici e tributari molto
differenti, sono stati messi insieme a tavolino e trasformati quasi
repentinamente in uno Stato unitario”, (F. Pappalardo, “Italica. Costi e
conseguenze dell'unificazione d'Italia”. Una lettura, ott.-dicembre 2012
Cristianità)
L'economista Vito Tanzi ritiene che “l'unificazione
italiana poteva offrire una specie di specchio storico per comprendere il
processo di integrazione europea”, osserva gli avvenimenti risorgimentali,
sotto il profilo dei costi e dei benefici, e avverte che il problema non era
l'unificazione in sé, ma alcune delle decisioni prese nei momenti cruciali da
persone che avevano una limitata conoscenza del Paese e che erano animate da
pregiudizi di natura ideologica. Pertanto, secondo Tanzi, “ (...)bisogna
chiedersi se, il modo in cui l'Italia fu unita era il solo modo possibile di
farlo; e se non c'erano altre scelte migliori, che avrebbero potuto ridurre il
costo, per i cittadini italiani, e specialmente per quelli del Meridione, che
fu pagato”. (V. Tanzi, Italica. Costi e conseguenze dell'unificazione d'Italia,
Grantorino libri, Torino 2012)
Il costo dell'Unità d'Italia è stato elevato,
soprattutto per le popolazioni meridionali che si sono visti appioppare una
serie di gravose misure restrittive di regolamenti amministrativi provenienti
da Roma senza tenere conto delle varie realtà territoriali. Tutto questo
provoca difficoltà e reazioni, fra queste il cosiddetto brigantaggio, una
resistenza armata contro i rappresentanti del nuovo centralismo statale, che
venivano visti come occupanti. “L'occupazione delle forze garibaldine, - scrive
Tanzi - seguita da quelle piemontesi, che, secondo molte testimonianze, fu
pesante, caotica e sicuramente non rispettosa delle tradizioni locali, delle
proprietà pubbliche e private, e di vari diritti dei cittadini, insieme al
peggioramento della situazione economica, che, per molte persone, accompagnò
immediatamente l'unificazione, insieme ad altri fattori, come per esempio
l'attitudine di disprezzo che Vittorio Emanuele (II di Savoia) dimostrò verso i
napoletani, durante la sua breve visita alla città nel 1861, contribuirono,
senza dubbio, ad ingrandire, se non a creare, il fenomeno”. La lotta al
brigantaggio meridionale è stata una vera e propria guerra civile, che ha
provocato decine di migliaia di vittime e che ha aggravato le precarie
condizioni delle finanze pubbliche.
Per maggiori informazioni in merito a quegli anni
in questi giorni ho letto i “Verbali della Commissione parlamentare di
inchiesta sui moti di Palermo del 1866” della Camera dei deputati Segreteria
generale, Ufficio stampa e pubblicazioni del 1981 a cura e con una introduzione
di Magda Da Passano. Un grosso volume di 526 pagine che ho trovato nella solita
outlet del libro milanese. Palermo nella metà del settembre 1866, per una
settimana, fu scossa da sanguinosi moti popolari, che il professore Tommaso
Romano nel suo libro, chiama l'insorgenza palermitana del “Sette e mezzo”. Si
trattò di una rivolta, non più contenibile, fra gli strati più poveri della
popolazione, un malcontento e delusione verso il nuovo ordine di cose, che si
era instaurato dopo l'avventura garibaldina.
A questo riguardo è stata nominata una
“Commissione d'inchiesta sulle condizioni morali ed economiche della provincia
di Palermo”. Nel volume a cura dell'Archivio storico della Camera vengono
interrogati una folla di amministratori locali, piccole autorità militari e di
pubblica sicurezza, uomini d'affari e di legge, artigiani e religiosi. Spiccano
personaggi autori della repressione della rivolta come il questore Felice
Pinna, il prefetto Torelli, il sindaco di Rudinì, il commissario straordinario
del Governo, generale Cadorna. Naturalmente tutti di parte, quella del nuovo
Regno, ma nonostante questo traspare nei loro racconti molte verità, i
siciliani erano stanchi e illusi della nuova amministrazione del nuovo regno
sabaudo. “In quella breve serie di giorni - scrive Magda da Passano- tuttavia
si svolge una storia densa di elementi. Le plebi si sono sollevate
apparentemente senza capi e costituiscono, al momento del breve successo del moto,
i loro Comitati con nomi illustri e di fama per l'isola. L'anarchia dei sette
giorni vista attraverso i documenti sembra essere veramente lo sfogo della
delusione e dell'abbandono, della sfiducia che va radicandosi contro
l'amministrazione centrale ma anche della separazione del moto popolare dalla
classe intellettuale e potenzialmente dirigente, per varie vicende 'lontana' –
e per lunghi esili sofferti e per la sua in parte compiuta
settentrionalizzazione – dalla realtà vera del proprio paese siciliano”. Così
gli stessi deputati siciliani non sembrano inseriti nella società siciliana, al
contrario “del vecchio feudatario borbonico che guarda ironicamente
all'avventura dell'unità d'Italia come a un fatto temporaneo che sarà presto
risolto”.
Una digressione a margine, tra i verbali del
volume della Camera dei deputati c'è quella di un deputato, un certo Castiglia,
a pagina 51 e fa riferimento a Giovanni Interdonato, Procuratore generale della
Corte d'appello a Palermo, a Milano e a Messina, cugino omonimo del patriota
garibaldino di Nizza di Sicilia, recentemente scoperto dagli amministratori
della cittadina del messinese. Ecco cosa si scrive qui nel testo di Interdonato
e di Pinna, “Col loro procedere co' loro soprusi, co' loro arbitri e colle idee
preconcette e false vessarono, destarono malumore, seminarono germi di
disordine, popolarono colle ammonizioni e persecuzioni le campagne di
latitanti(...)Riempirono le carceri con supposti reati e arbitrarie
interpretazioni delle leggi: riempirono le campagne di malcontenti; sommossero
la pubblica opinione”. E ancora nella nota su Giovanni Interdonato, in merito a
un rapporto dei carabinieri del 1861, viene così definito: “E' di colore
repubblicano, protettore dei cattivi, popolare colli accoltellatori, tra i quali
travansi persone anche d'alto ceto, epperciò non gode d'alcuna influenza sulla
popolazione, da cui anzi è detestato”
San Giovanni in Fiore,
Calabria (Italia?)
«Rubano è qui, e lucemi
dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato.» (Dante
Alighieri, Paradiso, vv. 139-141).
“Gioacchino … propone un
messaggio riformistico-escatologico, una sorta di renovatio morale e religiosa
… ed esprimeva il diffuso desiderio di rinnovamento radicale, nella liberazione
dal peso di istituzioni e problemi di ordine terrestre» (Reale-Antiseri, Il
pensiero occidentale …, I vol. pag. 370, 1989).
«Dalla vastissima orma
lasciata da Gioacchino … nasceva il gioachinismo … che finì poi col pervadere
con il suo potente fermento spirituale la religiosità del secolo XII …» (A.
Crocco, in vol. e opera sopra citati).
«Gioacchino sia colui che,
per noi oggi, realizza nel modo più pieno il senso del cristianesimo per la
filosofia … Meditazione sulla storia “Evento dell’Essere” … “La salvezza
consiste nella piena comprensione della storia che si realizza”» (Gianni
Vattimo, Primo incontro del Centro internazionale di studi Gioachimiti).
Dunque, la spiritualità
calabrese si consolida proprio con Gioacchino (senza dimenticare S. Francesco
di Paola) e parte da S. Giovanni in Fiore. Un popolo sempre invaso e non
guerriero per natura, si difendeva al massimo, trovava e trova il suo riscatto
nella forma della più alta spiritualità, rivoluzionaria nel pensiero e nei
sentimenti comuni e comunitari e non certo in quella delle armi. Una lezione di
“potente fermento” per tutti coloro che disprezzano la Calabria e il Meridione
per fini inconfessabili e storicamente distorti.
Ma come mai tanta
spiritualità “rivoluzionaria” oggi sembra essere scemata se non addirittura
smarrita? Come mai San Giovanni in Fiore, capitale della Sila, cioè del
territorio più ricco e appetito dalle varie dominazioni, dai Greci ai Bruzi ai
Signori della II Guerra mondiale, appare poco capace di porsi di nuovo come
portabandiera di riscatto spirituale ma anche di “problemi di ordine
terrestre”?
Come mai la Calabria (e il
Meridione tutto) sembra aver dimenticato la lezione gioachimita e la sua
propria natura?
«La razza – dice Salvemini
[contro le teorie, razziali se non razziste, di Lombroso e Niceforo] – si forma
nella storia ed è effetto di essa, non causa, e nella storia si trasforma;
spiegare la storia di un paese con la parola razza è da poltroni e da
semplicisti» (Gaetano Salvemini, in La questione meridionale, A. Renda).
E invece che cosa ancor oggi
accade? Ancor oggi i Calabresi e Meridionali veniamo trattati come una “razza”
debosciata, tesa alla delinquenza, incapace di progredire. Eppure: la Calabria
è «Una bella donna che quando ne sei lontano ti fa soffrire di nostalgia …
Questa terra di antiche civiltà ha dato alla storia e alla letteratura italiana
tanti uomini illustri che, purtroppo, molti calabresi, ancor oggi neppure
conoscono» (da un articolo di Giuseppe Berto, un veneto vissuto tanti anni in
Calabria).
Ma dunque, qual è stata
questa storia che sta trasformando, se non lo ha già fatto, la storia calabrese
e la sua spiritualità?
Vediamo. «Il brigantaggio è
la sola guerra che la classe contadina riesce a condurre quando lotta da sola.
Non è soltanto una reazione alla repressione statale e contro i gravami imposti
dallo Stato unitario, ma anche violenza armata per vendicare le sopraffazioni e
i tradimenti dei “galantuomini”» (F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo
l’Unità, Milano).
La Sinistra storica – nota
Leopoldo Franchetti in “Nuova Antologia” – cercò di migliorare il livello
politico del Sud con l’estensione del voto, ma il fatto fu contro produttivo
perché si risolse a vantaggio dei cosiddetti galantuomi, cioè dei prepotenti
locali.
Ne consegue che la storia
del popolo meridionale comincia a cambiare e, come dire, ad ammosciarsi, con
impoverimenti, emigrazione, vessazioni e distruzione-denigrazione della sua
storia passata, proprio a partire dall’Unità d’Italia e dal predominio dei
galantuomini.
Quanto ciò sia vero ce lo
confermano studiosi e politici seri e coscienziosi.
“I governi italiani per
avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia,
delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di
favori personali, ostile a qualunque iniziativa … Qualunque gruppo di uomini
onesti di qualsiasi partito avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità
di una sola delle clientele che faceva capo a un deputato meridionale, era
sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia compatta [non fischiano le
orecchie a qualcuno ancor oggi?]. Il nostro sistema politico e amministrativo
si fondava sull’asservimento della piccola borghesia intellettuale … ai gruppi
politici prevalenti nell’Italia settentrionale e sul consenso sistematico …
alla malvagità bestiale delle clientele meridionali [ripetiamo: non fischiano
le orecchie a qualcuno ancor oggi?].
Ma che vuol dire che la
storia del Sud e della Calabria in particolare è cambiata, non hanno forse
ragione gli intellettuali di cui sopra, i nordisti e i governativi ad affermare
che il Sud è sempre stato povero, spiantato, iniquo e vessato? Quanta
malacoscienza! (La questione sarebbe troppo lunga da dipanare qui e rinviamo a
precedenti nostri saggi e articoli comparsi nelle riviste e on line della
nostra provincia, e non solo). Qui bastino altre due autorevoli testimonianze.
«In quarant’anni il Sud ha
dato ciò che poteva e ciò che non poteva … Per effetto della politica di Stato,
della forma che l’annessione del Mezzogiorno ebbe, parecchi miliardi … [è vero
che] si siano trasferiti dal Sud al Nord … il Mezzogiorno contribuiva assai più
del Settentrione alle entrate dello Stato … Il 65% di tutta la moneta
circolante in Italia era del Sud e in pochi anni … emigrò al Nord e fu impiegata
per lavori pubblici nel Settentrione … Il Sud fu privato dei suoi capitali a
esclusivo vantaggio del Nord … e non poté pensare a se stesso» (F. S. Nitti,
Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, in Scritti sulla questione meridionale).
«I milioni dati in premio a un gran numero di fabbriche e di cantieri dell’alta
Italia sono estorti, nella massima parte alle moltitudini del Mezzogiorno» (G.
Fortunato, Dopo il misfatto, in Il mezzogiorno e lo Stato Italiano).
Dunque, almeno da questo
versante, il Sud era ricchissimo: possedeva il 65% dei capitali circolanti in
tutt’Italia e l’Unità servì allo sviluppo del Nord, impoverendo il Sud. Lo
riconosce perfino Luigi Einaudi: «Sì, è vero, noi settentrionali … peccammo di
egoismo … ad assicurare alle nostre industrie il monopolio del mercato
meridionale, con la conseguenza di impoverire l’agricoltura del Sud; è vero che
abbiamo spostato molta ricchezza dal Sud al Nord» (L. Einaudi, Il Buongoverno,
Bari 1954). Ricchezza che continua ad essere rapinata con l’acquisizione delle
nostre banche da parte di quelle del Centro-Nord e dai mercanti,
eufemisticamente chiamati imprenditori, del Nord (non per niente le mafie si
sono spostate colà).
Non sappiamo, ma temiamo che
sì, forse, se i giovani sangiovannesi (e meridional-calabresi) seguono ancora
le sirene sulla Calabria terra di miseria e ‘ndrangheta. Ma li invitiamo, oggi
che l’emigrazione è impossibile perché con mille euro al mese non si vive bene
neanche da noi, a recuperare in loco lo spirito gioachimista, profetico e rivoluzionario
della storia e dell’uomo, per ridiventare il faro della propria città,
intraprendendo e costruendo e facendo sana politica, e il faro della Calabria,
senza dimenticare l’humus che ancora portiamo dentro, nonostante tutto, nella
nostra indomita anima, per quanto sconquassata dalle culture importate e
omologanti, invitanti al conformismo.
Quel Gioacchino e
quell’humus che rimandano almeno a Cassiodoro, Aristippo, Filolao, Ibico,
Nosside, Stersicore, Democede, Prassitele, Clearco e da cui discendono Telesio
e i vari grandi monaci e sacerdoti, Jordano, Santanna, Mattia Preti, Rotella,
fra’ Umile da Bisognano, Campanella, Galluppi, Foscarini e Viglierolo, Lilio,
Leonardo Vinci, Cilea, Rendano, Padula, per finire con Alvaro, La Cava,
Costabile, Calogero, Calabrò. E chi più ne ha più ne metta.
Certo la città di San
Giovanni in Fiore fu devastata dal sacco edilizio tra gli anni ’60 e ’90 (non
fosse che per le stazioni turistiche di alta montagna, crediamo che pochi
andrebbero a visitare la cittadina, non bella se non in certi scorci storici) e
dall’insipienza di tanti amministratori provinciali e poi regionali, senza
dimenticare i comunali, che non seppero, e non sanno forse, o non vollero,
chissà, “sfruttare” tanta eredità culturale e spirituale, ma soprattutto di
ricchezza territoriale (bacini per l’energia idroelettrica – Garga, Iunture,
Redisole – castagno e vigneti, fiumi e laghi, vigneti, fichi d’India, loto,
ulivo, melo e pero, pini, faggi e pioppi, abete bianco) e di tradizione di
tanti opifici e artigianato (mobili, tappeti orientali, ecc.). Con tanta
ricchezza, non vi sono fabbriche di mobili e tappeti, spendibili a livello
nazionale e internazionale, non vengono sfruttate adeguatamente le risorse
agricole, pastorali e montane (intendiamo col termine “adeguatamente” la
mancata promozione industriale e commercializzazione almeno a livello
nazionale. Il vostro legname, per esempio, al di là di un povero uso
artigianale, se lo vengono a prendere le industrie del Nord). E, parafrasando
il regista Allen, “se Dio è morto, neanche il terziario se la passa bene”.
Allora, giovani
sangiovannesi, e calabresi, alla riscossa, datevi da fare per un “evento
dell’Essere”, che giustifichi gli enti, affinché, nello spirito gioachimita,
“La salvezza consista nella piena comprensione della storia che si realizza”.
E’ un augurio e una speranza in voi.
[Luigi Capozza] [05.05.2013]
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