sabato 27 novembre 2010

Emergenza in carcere


Articolo di Giustizia, pubblicato sabato 6 novembre 2010 in Germania.
[Sueddeutsche Zeitung]
Le prigioni italiane sono disperatamente sovraffollate, gli agenti di custodia e i detenuti si ammalano – e qualcuno muore pure.
Il direttore Claudio Piccari offre con orgoglio il corposo vino rosso. Si chiama “Le sette mandate”. Come il “Recluso”, con le grate stilizzate sull’etichetta, proviene dalla cantina del carcere di Velletri, nel Lazio. Le viti crescono sulle terre vicino al carcere, una catena di supermercati vende il vino. Tutto ciò sembra un nuovo sistema di detenzione.Eppure Velletri è afflitto dagli stessi problemi di cui soffrono gli altri 206 istituti di pena presenti in Italia e per tutti loro è scattato lo stato di emergenza.
I penitenziari sono sovraffollati: in totale ci sarebbe posto solo per 44’612 detenuti, in realtà ne contengono ben 68’527. Ciò significa che in media per ogni 100 posti disponibili le carceri ospitano in realtà 152 detenuti, quando la media europea è di 107. Troppi detenuti da un lato e poche guardie dall’altro, con conseguenze negative per tutti. “Siamo in una fase critica” dice Franco Ionta, capo della polizia giudiziaria e commissario per lo stato di emergenza nelle carceri. “Il sistema è al limite della sopportazione“. Nel suo nuovo report l’organizzazione Antigone constata che nelle prigioni sovraffollate hanno la meglio condizioni illegali. Dal 1998 e per conto del ministero della giustizia Antigone osserva l’andamento delle pene detentive. “Ci sono prigioni in cui il detenuto vive in meno di 3 metri quadrati” dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Antigone ha contato 1300 ricorsi alla Corte Europea riguardanti l’articolo 3 della convenzione sui diritti dell’uomo: il divieto a punizioni umilianti o inumane.
La morte di Simone L. nel carcere romano di Regina Coeli ha recentemente destato attenzione: il ragazzo alla fine pesava 45 kg per 180 cm. Soffriva di problemi psichici. Era stato arrestato per piccoli reati di droga, ma non era stato condannato. Ora si indaga sul motivo per cui non abbia ricevuto sufficienti cure mediche. Un altro grosso caso è stato quello di Stefano C. Dopo soli 6 giorni di detenzione a Regina Coeli, anch’egli per piccoli reati di droga, è stato trovato morto. Secondo le indagini, sarebbe stato maltrattato e malamente assistito.
Potrebbe trattarsi di casi estremi, forse, ma il sovraffollamento delle carceri ne favorisce alcuni. Anche i suicidi fanno riflettere. Nel 2009, si sono uccisi 72 detenuti; nei primi 9 mesi di quest’anno sono 55. A Velletri la situazione è meno drammatica, ma l’assistente del direttore afferma che ogni giorno succede qualcosa. Dal tetto dell’ala centrale si vedono appese a tutte le celle magliette colorate, scarpe, asciugamani. Il motivo per il quale i detenuti le mettano lì, è evidente dando uno sguardo nella cella. Nei 10 metri quadrati di spazio si trovano 2 letti di ferro, un paio di sedie, un tavolino e un cucinino. Dove sono rinchiusi due detenuti, dovrebbe essercene solo uno. Il sorvegliante capo ammette che, fortunatamente, le celle non sono più alte altrimenti sarebbero stati montati letti a castello per far posto ad altre persone. L’edificio è stato progettato per accogliere 250 persone, ma ne ospita, in realtà, 380.
La prigione non ospita solo mafiosi o criminali: questi sono solo una piccola parte. 30’000 detenuti non sono stati condannati o non lo sono ancora in via definitiva, un record in Europa. I processi possono durare anni. Secondo stime, la metà dei prigionieri viene assolta. 28’154 persone sono in carcere per reati legati alla droga. Sono così tanti perché, da qualche anno, non c’è differenza tra essere in possesso di droga pesante o leggera. C’è un continuo via vai di gente, che vengono arrestate per reati di poco conto e rilasciate poco dopo e che intasa le case circondariali. Lo stesso commissario Ionta afferma che determinati reati dovrebbero essere depenalizzati e i processi velocizzati.
Questi spera nella parità del sistema giudiziario all’interno dell’Unione Europea. Se le sentenze vengono reciprocamente legittimate, i detenuti possono scontare la pena nel paese d’origine. Un terzo abbondante dei detenuti è straniero, ma non tutti provengono da paesi della comunità europea. Il commissario speciale afferma che il governo ha introdotto dei provvedimenti per la stabilizzazione del sistema carcerario, ma non ha voluto dichiarare di aver ricevuto soldi dal governo. L’ anno scorso il ministro della giustizia Alfano ha annunciato la costruzione di 24 nuove carceri e ha promesso 2000 funzionari in più. Dovrebbero essere testate anche delle alternative al carcere, come gli arresti domiciliari, ma gli addetti ai lavori fanno sapere che la spesa derivante dai controlli sarebbe troppo elevata. Il ministro della giustizia ha parlato all’inizio di 1,4 miliardi di euro da destinare al progetto, poi di 600 milioni in quanto il bilancio statale si è stato notevolmente ridotto. In ogni caso, anche se venissero confermati gli stanziamenti per le nuove costruzioni, queste saranno pronte solo tra qualche anno.
Nel frattempo crescono emergenze e assurdità. Vicino all’istituto di Velletri c’è una costruzione quasi identica, un carcere nuovo di zecca. Il direttore Piccardi spera che non entri in funzione. Non c’è personale. 40 celle sono vuote, senza motivo apparente. Vuota è anche la maggior parte della giornata dei detenuti. Mentre in Germania il 90% dei detenuti lavora, in Italia la percentuale è solo del 10%. Il reinserimento nella società è, quindi, più difficile. Questo perché c’è un continuo via vai dei detenuti: non vale la pena reinserirli. Ci sono però altri motivi. All’istituto di Velletri, oltre la cantina per la produzione di vino, c’è anche una serra per la coltivazione dei funghi che, però, non viene utilizzata e in cui marciscono piante di pomodoro. Non ci sono abbastanza funzionari che possano controllare questi posti. Per i datori di lavoro, i detenuti non sono considerati una forza lavoro conveniente. Ricevono la paga base e costano come dei normali lavoratori. La produzione vinicola a Velletri dà lavoro solo da 4 a 8 detenuti, e’ cosi’ lavorano solo circa 35 persone, soprattutto in campagna, su 380.
Noia e sovraffollamento rendono i detenuti più aggressivi sia tra loro che con i loro sorveglianti. Giovanni Battista De Blasis, segretario del sindacato Sappe, definisce la condizione dell’istituto esplosiva. Sappe, con 15’000 aderenti, è il più grande sindacato della polizia penitenziaria/ Lo stress dei 38’000 sorveglianti si riflette in una indennità di malattia del 30 per cento, dice De Blasis. Molti di loro richiedono il pensionamento anticipato. Per coloro che possono essere sostituiti velocemente, la formazione professionale viene ridotta. Andrea Quattrocchi, comandante della polizia giudiziaria di Velletri, è in servizio da 36 anni. Il siciliano sembra tranquillo, ma ora che tra qualche giorno andrà regolarmente in pensione, dice: “Per prima cosa devo disintossicarmi da tutto ciò che ho vissuto qui”. Dal 2001 il numero dei funzionari è diminuito di 6000 unità, attualmente è in servizio un funzionario per ogni 80-90 detenuti. Il sindacato Sappe fa sapere che mancano almeno 7000 poliziotti giudiziari, i quali vengono addestrati anche per l’uso di armi nei centri di formazione come quello di via Aurelia poco fuori Roma. Lì si possono vedere poliziotti che si allenano nel corpo a corpo con manganelli e scudi per essere pronti in caso di manifestazioni e rivolte.
Anche il Gruppo Operativo Mobile (GOM) ha qui la sua base, un’unità speciale di 600 uomini. Sorvegliano i boss mafiosi che si trovano nell’ala di massima sicurezza, scortano giudici che hanno ricevuto minacce di morte. Il loro lavoro è duro. Al massimo ogni sei mesi vengono sostituiti per evitare minacce o tentativi di corruzione. Il personale del GOM guadagna sui 1300 euro mensili, non più degli altri funzionari. I loro colleghi tedeschi guadagnano in media 2000 euro. Il segretario della Sappe, Donato Capece, ha scritte in faccia tutte le preoccupazioni. Afferma che non solo i detenuti, ma anche i funzionari hanno dovuto assuefarsi a questi disservizi. Vengono loro chiesti grossi sacrifici. Recentemente si è lamentato con il ministro della giustizia e con Ionta perchè alle promesse non sono subentrati i fatti: né aumenti di stipendio, né formazione, né riconoscimento per il contributo dato alla polizia giudiziaria per la loro sicurezza.
Il giurista e presidente di Antigone, Gonnella, è stato lui stesso un direttore di carceri. Conosce gli inconvenienti che derivano da un reinserimento in società troppo rapido o il problema degli istituti di cura che restano mezzi vuoti, mentre i tossicodipendenti affollano le carceri. Crede che al commissario Ionta manchi la copertura politica per rispondere alle emergenze, quella che ha permesso di costruire in Germania dei container per ovviare il problema dell’emergenza posti. Da qui si evincerebbe che in Italia i diritti umani non vengono considerati. Gonnella ricorda come qui, lo sconto della pena, funzionasse bene fino agli anni 90; invece, dalla fine del vecchio sistema partitico in cui attacchi arrivavano sia dai cattolici che dalla sinistra, il tema delle carceri non attrae più i politici, perché molte persone credono che in tempi difficili ci siano cose più importanti da finanziare prima delle carceri.
[Articolo originale "Not im Knast" di Andrea Bachstein]
Fonte: http://italiadallestero.info/archives/10449

Una crisi contro il Sud


Venerdì 12 Novembre 2010 16:49
Di pitagorico.
Se, come tutto lascia prevedere, la crisi di Governo e di legislatura andrà a compimento, Taranto verrà probabilmente penalizzata, perché non verranno finalizzate le scelte di investimenti e progettualità compiute negli anni passati. Verrà certamente penalizzato l’intero Mezzogiorno, perché resterà bloccato l’intero sistema allocazione di risorse, finanziamento di progetti, avvio di infrastrutture, che avrebbero dovuto dare respiro ad un Sud in forti difficoltà. Merita, però, una riflessione più generale, la condizione di inferiorità ormai strutturale che il Mezzogiorno ( e quindi Taranto), ha assunto rispetto al resto del Paese.
La geografia politica dell’Italia ed i rapporti di forza emersi dalle urne nella seconda Repubblica, vedono un Mezzogiorno che esprime il proprio consenso in maniera instabile e mutevole, secondo la logica del votarecontro, che ha favorito alternativamente le diverse coalizioni, senza alcun ritorno in termini di influenza sulle scelte nazionali.
Il Mezzogiorno si presenta perdente di fronte ad un Nord forte, sostenuto e trainato da PdL e Lega; ad un Centro tutelato dal Pd, consolidata forza di Governo nelle Regioni centrali e principale forza di opposizione nel Paese. Il sistema bipolare, artificiale e con tentati sprazzi bipartitici, ha creato, di fatto, una marginalizzazione proprio del Mezzogiorno.
Dopo quasi un ventennio, esso non ha rappresentanza politica adeguata e reale; né tantomeno può colmare tale vuoto il tentativo di improbabili ed improponibili Partiti del Sud, eredi di un meridionalismo fallimentare, fatto di sterili rivendicazioni, di richieste di trasferimenti di risorse finanziarie, senza progetti strategici di crescita e di sviluppo, e senza alcun onere di rendicontazione.
Anche il livello del confronto istituzionale, vede il Mezzogiorno debole e assente. Il Mezzogiorno è escluso dalle sedi decisionali, per logica di sistema; con la forza della volontà e della ragione, ci si può sempre opporre, ma esso risulta subalterno e passivo anche in virtù del fatto che le Regioni Meridionali non hanno la legittimazione virtuosa, per opporsi a provvedimenti che pure mettono in serio predicato l’unità sostanziale del Paese.
I fallimenti delle politiche per il Mezzogiorno, quand’anche ci siano state, negli anni in cui si sono alternati alla guida dei governi locali e nazionali maggioranze e coalizioni di segno opposto, hanno lasciato alcune Regioni del Sud esposte all’influenza nefasta dei poteri mafiosi, creando un’emergenza di ordine legalitario e democratico. In questo contesto si pone il problema di come si seleziona la classe dirigente e di come si costruisce il consenso elettorale, che è l’elemento reale per incidere e modificare gli assetti costituiti. Se è vero, infatti, che il federalismo, specie quello fiscale, può rappresentare uno strumento valido per la responsabilizzazione degli amministratori locali, è altresì illusorio pensare, che efficienza e responsabilità, si affermino solo con la minaccia della punizione dell’elettorato, che non sempre penalizza i “cattivi” (soventemente avviene il contrario); ma ricorrendo a meccanismi e sanzioni effettive, a nuovi strumenti legislativi che prevedano una netta separazione tra controllore e controllato e finanche ineleggibilità e decadenza nei casi di gestioni irresponsabili. L’attuale sistema politico– istituzionale non ha portato bene al Mezzogiorno d’Italia; ne ha aggravato le condizioni privandolo di quel contrappeso politico rappresentato da grandi forze nazionali, con forti radici nel Mezzogiorno, rispetto ad un potere economico e finanziario concentrato nel Centro - Nord. La domanda che nasce dall’esperienza delle cose, è se vi è la possibilità di una modifica significativa degli assetti politici ed istituzionali, con una nuova legislatura; ma soprattutto il problema è in che modo e chi riuscirà a far diventare il Mezzogiorno un protagonista attivo della politica e non soltanto un passivo ricevitore di ipotetici, quanto inesistenti benefici.
Avevamo chiesto alla comunità tarantina un impegno diretto e visibile, capace di sostenere le scelte di sviluppo per il porto di Taranto che dovevano essere prese a livello di governo e di Parlamento.
Avevamo sollecitato, al di là delle collocazioni politiche e di schieramento, i soggetti responsabili nelle istituzioni, ad esprimere la loro volontà di contribuire agli interessi del territorio ed esercitare tutta l’influenza possibile nelle sedi decisionali. Avevamo chiamato alla pubblica rappresentanza di interessi economici e sociali legati al superamento della crisi di Taranto, coloro che erano stati nominati ed eletti in questa funzione. Da molto tempo non avevamo assistito ad una così convinta e diffusa partecipazione, nella comunità tarantina. Molti di coloro che hanno responsabilità dirette o mediate, si sono espressi con chiarezza sull’importanza della svolta che la realizzazione delle attività commerciali e logistiche nel porto di Taranto può avere sull’intero territorio. Politici e sindacalisti, operatori economici e figure istituzionali, esponenti del mondo culturale e dei servizi, si sono pronunciati, quasi a riprova di un vento nuovo che sembra si stia levando nella terra jonica. Probabilmente sta cambiando l’antropologia del tarantino: da un comportamento polemico o indifferente, attento piuttosto alle difficoltà del vicino che alle proprie opportunità, si comincia a delineare un tarantino impegnato nel fare, perché ottimista sulle prospettive e convinto di poter crescere sul proprio lavoro e sulle opportunità e risorse. Siamo eccessivamente benevoli? Per una volta ci fa piacere esserlo, anche perché riteniamo che il fondo sia stato ormai raggiunto e risalire sarà possibile soltanto se ne saremo tutti convinti e, soprattutto, ne saremo attori consapevoli.
“Le parole sono pietre”, scriveva Carlo Levi negli anni del meridionalismo protagonista di una nuova stagione di democrazia nel Sud. Possono essere pietre da lanciare contro qualcuno o qualcosa; ovvero pietre con le quali costruire le basi di strutture civili stabili ed importanti, nelle quali vivere. Le parole di questi giorni, potrebbero essere del secondo genere, perché rappresentano piuttosto la convergenza su un obiettivo e la condivisione di una battaglia. Per una volta non abbiamo letto insulti fini a sé stessi; e le polemiche, sono servite soprattutto a chiarire le posizioni ed a sollecitare gli impegni.
Nei prossimi giorni vedremo come andranno le cose; speriamo bene. Ma in ogni caso, vogliamo sottolineare questo passaggio positivo, nel modo di essere cittadini della comunità jonica.
Nei prossimi giorni si deciderà se il Porto di Taranto resterà una entità fisica, divisa in tante autonomie funzionali (Marina Militare, Siderurgia, Raffineria, Container); ovvero al suo interno si inserirà una componente dinamica capace di innestare dei processi innovativi e creativi che ne sviluppino la capacità commerciale e l’offerta logistica.

Oltre sette anni fa, l’Autorità Portuale ed un gruppo di imprenditori privati, dettero vita ad un progetto di finanza finalizzato alla realizzazione di una Piattaforma Portuale logistica che consentisse al terminal container di essere qualcosa di più di una semplice stazione di smistamento, senza ritorni economici e commerciali sulla città.
Il progetto era tecnicamente ed economicamente ineccepibile; la qualità e la affidabilità degli imprenditori privati, di assoluta certezza; le disponibilità finanziarie furono reperite ed accantonate per l’utilizzo. Il Cipe approvò il progetto; il bando internazionale venne espletato in piena trasparenza  e regolarità; tutti gli stadi di progettazione vennero portati a compimento. Poi avvennero strani avvenimenti che riguardarono le nomine all’Autorità Portuale, contestate fino al commissariamento della stessa; rallentamenti e ritardi ad opera di una burocrazia incapace di cogliere il valore economico dei tempi di realizzazione di questa opera; resistenze da parte di chi aveva, all’interno del demanio portuale, nicchie di privilegio che ostacolavano obiettivamente ogni possibilità di sviluppo. Come abbiamo già ricordato, questi ritardi (non dimentichiamo che si tratta di sette anni) hanno determinato un incremento dei costi che deve essere coperto, anche per evitare contenziosi ed ulteriori ritardi. Gli accordi tecnici ed economici sono stati raggiunti, anche grazie alla attiva iniziativa del Commissario all’Autorità Portuale di Taranto. Si tratta ormai di una ratifica formale da parte del Cipe, che approvando questi accordi, attiverebbe un investimento di oltre duecento milioni, destinato a provocare in incremento di attività economica e commerciale di grande rilevanza.
Ci siamo, dunque. Ma, come sempre nel nostro Paese, non esistono certezze, anche quando tutto sembra corrispondere ad una logica economica ed all’interesse generale e di una Comunità. Pensiamo sia giunto il momento che questa Comunità si faccia sentire. Vogliamo ascoltare la voce delle Istituzioni elettive, che non hanno diretta responsabilità decisionale in questa faccenda, ma dovrebbero rappresentare gli interessi essenziali del territorio che amministrano; e quindi di questi interessi debbono farsi carico con forza e determinazione.
Vogliamo ascoltare la voce degli operatori economici, che da questa iniziativa possono ottenere riferimenti importanti, nell’immediato e nel futuro, per impostare la loro attività di impresa ed i progetti di sviluppo. Vogliamo sentire la voce dei sindacati, che hanno bisogno di più interlocutori sui quali poggiare le prospettive di crescita dell’occupazione e del reddito delle famiglie. In sostanza vogliamo vedere come l’orgoglio della città, sia capace di essere protagonista del suo avvenire, in un passaggio cruciale dal quale nessuno dovrà tirasi indietro.
Non vale, quindi, il costante richiamo agli aiuti di Stato che hanno sostenuto la fabbrica torinese per oltre 50 anni. La seconda è che la ricostruzione della Fiat avviene nel contesto del mercato globale, con tutte le sue opportunità ed i suoi rischi; non c’è quindi nessuna intenzione da parte della nuova società e dei suoi amministratori, di chiedere interventi di sostegno allo Stato italiano, ma piuttosto una politica industriale compatibile con gli obiettivi multinazionali dell’azienda. La terza, ed è la più importante dal nostro punto di vista, che il vero interlocutore di Marchionne sono i lavoratori, e quindi i sindacati che li rappresentano. Infatti, nell’intervento dell’italo-canadese, la richiesta che viene costantemente ribadita è quella di una maggiore produttività del lavoro, una migliore efficienza del sistema delle relazioni industriali, ed una più forte competitività. Se anziché ripetere i logori schemi che fanno della nostra classe politica uno dei peggiori interlocutori possibili per un processo di sviluppo, ammantandosi virtuosamente del ruolo dei difensori dei contribuenti, in questi giorni si fosse meglio riflettuto sui problemi posti da Marchionne, probabilmente si sarebbero meglio comprese alcune cose. Cioè che da questa presa di coscienza della crisi industriale ed economica del nostro Paese, emerge il ruolo del sindacato nella sua importanza innovatrice. Risulta visibile, infatti, quanto stia tornando essenziale la componente del lavoro nel processo produttivo, rilanciando la figura del nuovo lavoratore, non subalterno o marginale ma prioritario nella crescita dell’economia reale. Che queste cose ce le debba dire un manager del capitalismo industriale, è il segno dei tempi e della debolezza culturale ed intellettuale della nostra classe politica. Anziché ascoltare le stupidaggini di Calderoli, o le banalità di Fini, in risposta a Marchionne, vorremmo ascoltare i sindacati; perché aspettiamo da essi le risposte adeguate alla domanda di produttività e competitività; il rinnovamento nella cultura del lavoro e nelle sue proposte operative; l’assunzione morale di un ruolo primario nella rinascita e nello sviluppo della nostra industria e della nostra economia. Applichiamo a Taranto il linguaggio di Marchionne: sollecitiamo le forze del lavoro ad essere parte attiva di una riorganizzazione dei sistemi produttivi e delle relazioni industriali; usciamo dalla difesa dei privilegi e delle nicchie protette; rilanciamo, nella realtà jonica, una nuova cultura del lavoro, che assuma la guida del risanamento e del ri-sviluppo nella nostra comunità. Abbiamo l’occasione, nella città jonica, di partire da una base industriale importante e strutturata; abbiamo generazioni di tecnici ed operai che si sono formati nella capacità e nella coscienza in una realtà industriale che ha assunto, nel passato, livelli di eccellenza; finalmente si sta cominciando a capire che dalla crisi si esce facendo crescere l’economia reale, non dando fiato alle chiacchiere. Per questo qualcuno prenda l’iniziativa.
Fonte: http://www.tarantosera.com/

Regione povera, dipendenti ricchi


di Lucia Russo
Privilegi. Dipendente pubblico: alla Regione è meglio.
37 per cento. Gli stipendi dei dipendenti della Regione Siciliana, dirigenti e non, costano in media il 37 per cento in più di quelli dei dipendenti dei Ministeri.
La Corte dei Conti Sicilia al Governo il 30.06.2010: “Intraprendere opportune iniziative per fronteggiare il rischio di futuri incrementi dei costi del personale”.
La situazione finanziaria della Regione è disastrosa tanto che ad ottobre è stato necessario bloccare i pagamenti perchè non c’erano più soldi nelle casse. Niente soldi per esempio ai fornitori della Regione, ma l’unica spesa che si è continuato ad erogare è stata quella per gli stipendi dei regionali. È giusto, è vero, solo che si ignora il fatto che, invece, quei fornitori, cui non vengono pagate le commesse dalla Regione, gli stipendi ai loro dipendenti e collaboratori non li hanno pagati perchè non avevano i soldi!
È doveroso dunque dare un’occhiata agli importi degli stipendi dei regionali per accorgersi che sono più alti di quelli dei ministeriali e di conseguenza viene da pensare: perchè deliberare nuovi aumenti e non bloccarli almeno fino a quando non equiparino quelli dei ministeriali? Il discorso vale soprattutto per i dirigenti che hanno avuto l’ultimo aumento doppio dei dirigenti ministeriali.
“Non si dà luogo, senza possibilità di recupero, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012 del personale” è scritto all’art. 9, co 17 “Contenimento delle spese in materia di pubblico impiego” del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78 “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” convertito in legge dall’art. 1, co 1 L. 30 luglio 2010 n. 122. Questa norma è attualmente in vigore per tutti i contratti dei dipendenti pubblici: nessuna nuova trattativa negoziale, stipendi bloccati fino a tutto il 2012. Ma ai regionali, come è noto, si applicano contratti specifici negoziati dall’Aran Sicilia in base alle linee guida del Governo regionale.
Solo che, nell’ambito della politica di contenimento dei costi, il presidente Lombardo ha deciso di non mantenere più un ente apposito solo per questo e di avvalersi dell’Aran nazionale. Questo proposito è stato inserito nell’articolo 30 “Soppressione dell’Aran Sicilia” del disegno di legge n. 631 del 29 ottobre 2010 (Finanziaria regionale 2011), che recita: “L'articolo 25 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10 e successive modifiche ed integrazioni, è abrogato. Le funzioni esercitate dall'Aran Sicilia, previa stipula di apposita convenzione, sono svolte dall'Aran nazionale”.
Il blocco degli stipendi per i dipendenti pubblici si applica dal 2010, però bisogna tener presente che gli stipendi dei regionali sono già più alti rispetto a quelli dei ministeriali (raffronto fatto alla luce dei dati 2008 pubblicati dal Conto annuale dello Stato), in media 39.830 euro pro capite contro i 28.556 euro pro capite della retribuzione media dei ministeriali .
A livello regionale, dunque le contrattazioni negoziali per l’aumento degli stipendi dei regionali andrebbero bloccate fino a quando non verrà colmato il gap, proprio nell’ottica del contenimento dei costi. E invece cosa è successo la scorsa settimana? L’assessore alla Funzione pubblica, Caterina Chinnici, ha concordato con i sindacati le linee guida per la contrattazione collettiva sia della dirigenza che del personale non dirigenziale fino al biennio economico 2008-2009. In verità ciò è nel rispetto della stessa norma nazionale che ha previsto il blocco delle revisioni contrattuali solo con valenza dal 2010, ma, come già detto, i regionali hanno degli stipendi del 37 per cento più alti di quelli dei dipendenti dei ministeri.
La stessa Corte dei Conti Sezioni riunite per la Regione Siciliana, nella  relazione al Rendiconto 2009, presentata in data 30 giugno 2010, scrive: “Tra gli oneri che hanno determinato l’aumento di spesa per il personale rientrano i rinnovi contrattuali relativi al personale dirigenziale e non dirigenziale del comparto, con oneri, come evidenziato dalla stessa Corte, sia in giudizio di certificazione, che in occasione del referto dell’Assemblea regionale siciliana, anche molto superiori a quelli garantiti a livello nazionale alla generalità dei dipendenti in servizio presso altre amministrazioni pubbliche”. Ancora la Corte nella relazione di giugno 2010: “Nel corrente anno i costi relativi al personale appaiono destinati a subire ulteriori pur se limitati incrementi” e così rivolgendosi direttamente al Governo regionale continua: “In considerazione di quanto sopra, si richiama ancora una volta, l’attenzione del Governo regionale sull’esigenza di intraprendere opportune iniziative per fronteggiare il rischio di futuri, notevoli incrementi dei costi, tenuto anche conto dell’incidenza che gli stessi hanno sulle spese correnti (6,88 per cento), specie se considerato al netto di quelle per l’assistenza sanitaria (15,49 per cento)”.
Fonte: http://www.qds.it/index.php?id=6003


Al Nord opere cantierabili, al Sud annunci


di Antonio Casa
Il Governo ha presentato un piano da 80 miliardi di euro per le regioni del Mezzogiorno. Armao gela: “Per l’Isola 1 mld in meno”. Il sogno: in Sicilia prevista l’alta velocità Palermo-Catania e il completamento dell’anello autostradale

ROMA - Una lista delle cose da fare. Visto com’è finita in precedenza, è un altro annuncio atteso alla prova dei fatti. Ieri, il Consiglio dei ministri ha dato il via libera definitivo ai due decreti he costituiscono il cosiddetto Piano per il Sud, del valore di 80 miliardi. Mentre per il Nord sono state sbloccate opere per 21 miliardi di euro, per il Mezzogiorno d’Italia si assiste a una replica del Fas, il Fondo per le aree sottosviluppate, mai entrato nella fase pratica. Il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, avverte: "La preoccupazione principale e' quella di comprendere se ci sono le risorse. Senza soldi si tratterebbe solo di chiacchiere”. Secondo i primi calcoli dell’assessore regionale all’Economia, Gaetano Armao, "il piano per il Sud comporta un taglio del 10% ai fondi Fas, cosa che per la Sicilia determina 1 mld di euro in meno".
La bozza del documento del Piano per il Sud individua una serie di interventi. Per le infrastrutture l’obiettivo prioritario “è la realizzazione, entro il prossimo decennio, di un sistema ferroviario moderno”. Perno di questa strategia e’ la realizzazione dell’Alta Capacità su tre linee: Napoli - Bari - Lecce - Taranto; Salerno - Reggio Calabria; Catania - Palermo. “Con il completamento di queste tre tratte e la realizzazione del Ponte sullo Stretto il Sud potrà contare su un moderno sistema di collegamento verso il Nord Italia e il Centro e Nord Europa essendo garantita l’interconnessione e l’interoperabilità fra i Corridoi transeuropei TEN, collegando il Corridoio I (Berlino - Palermo) con il Corridoio VIII (Bari - Sofia). Questi interventi verranno realizzati ponendo attenzione alla loro integrazione con il rafforzamento del sistema portuale. Nell’ambito del trasporto stradale, il Piano prende a riferimento le opere ricomprese tra le priorità strategiche indicate nell’allegato infrastrutture alla Dfp quali ad esempio la Olbia - Sassari, il completamento della Salerno - Reggio Calabria ed il sistema autostradale Catania - Siracusa - Gela - Trapani”.
Per quanto riguarda il settore informatico, il Piano prevede “la realizzazione di un piano di intervento per portare la banda larga a tutti i cittadini delle 8 regioni del Sud e garantire l’accesso a banda ultralarga ad almeno il 50 per cento della popolazione residente nel Mezzogiorno intervenendo in tutti i 33 capoluoghi di provincia delle 8 regioni meridionali”.
Per la scuola è stato annunciato un piano “di razionalizzazione e ammodernamento dei plessi scolastici con particolare attenzione a quelli del I e del II ciclo. A tale piano si affiancherà il completamento dell’infrastrutturazione informatica dei laboratori didattici”. Previsto, poi, “l’immediato avvio del piano straordinario di azione per la riduzione del dissesto idrogeologico in tutto il Mezzogiorno. Per la prima volta lo strumento dell’accordo di programma consentirà in tale settore di unire e concentrare le risorse nazionali destinate (FAS nazionale e risorse del Ministero dell´Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare) con quelle regionali (Fas regionale e fondi di bilancio autonomo delle Regioni)”.
Capitolo Banca del Mezzogiorno:  secondo il piano del governo “opererà come istituzione finanziaria di secondo livello, attraverso una rete di banche sul territorio che diverranno socie utilizzando la rete degli sportelli di Poste Italiane. A tal fine l’azione del governo mira a coinvolgere nell’azionariato un’ampia rete di banche con un forte radicamento territoriale, quali le banche di credito cooperativo e le banche popolari”. La Banca del Mezzogiorno potrà anche ambire a gestire, secondo gli attuali indirizzi comunitari, il Fondo rotativo europeo Jeremie per il Mezzogiorno, volto a sostenere credito agevolato, capitale di rischio e garanzie”.
Articolo pubblicato il 27 novembre 2010
Fonte: http://www.qds.it/index.php?id=5993

Federalismo mafioso


Creata il 27/11/2010 - 18:30
Lorenzo Frigerio (libera informazione)
MAFIA. Perché è così difficile ammettere l’organicità strutturale del fenomeno mafioso nel sistema Italia? Perché nel Nord si parla di infiltrazioni criminali e non di presenze stabili, come anche l’ultima relazione della Dia rileva?
Perché  è così difficile ammettere l’organicità strutturale del fenomeno mafioso nel sistema Italia? Perché nel Nord si parla di infiltrazioni criminali e non di presenze stabili, come anche l’ultima relazione della Dia rileva? La lettura delle 466 pagine è un colpo da ko anche per chi è di stomaco forte: si documenta il furto di vite e di risorse che le mafie realizzano nel meridione, ma se ne certifica l’inarrestabile ascesa al nord. Così è fatta piazza pulita delle dichiarazioni rituali di quanti, oscillando tra complotto e negazione, leggono il fenomeno mafioso come frutto dell’arretratezza economica, figlio di un sud del Paese che ormai non c’è più.
Le mafie sono presenti da almeno quattro decenni al nord, dove si costruisce l’eccellenza d’impresa, dove si manovrano le finanze e i capitali, dove si produce la maggior parte del PIL. Gli ingenti proventi dei sequestri di persona (la Lombardia è stata la prima regione con 159 casi su 672 ma tutto il nord è stato colpito) e dal traffico di stupefacenti hanno fatto da volano alla crescita criminale. L’attivazione del meccanismo di riciclaggio dei capitali sporchi non è stata realizzata da un manipolo agguerrito di criminali in trasferta, portatori di una cultura dell’illegalità che ha ammorbato territori sani e immuni.
No, al contrario, il lento contagio delle mafie si è avvalso del contributo fattivo di lombardi, piemontesi, veneti, liguri, toscani, emiliani che hanno visto nel denaro e nel potere delle cosche il mezzo per arrivare prima, per sedere nei luoghi del comando, fossero scranni di un ente locale o poltrone di una banca o di un consiglio d’amministrazione. Un nome per tutti, Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano che finì “suicidato” a Londra. Chi occupa oggi il posto di Calvi sulla piazza milanese?
Per rispondere alle domande iniziali, va detto che si continua a preferire la favola del lupo cattivo (le mafie) e di Cappuccetto Rosso (il nord prospero e onesto), perché, in caso contrario, si dovrebbe ammettere la propria responsabilità in questa quotidiana opera di rimozione del problema. Il mondo dell’associazionismo antimafia in questa nuova fase non deve chiamarsi fuori. Un conto è sostenere le cooperative del sud che lavorano sui terreni confiscati, con le cene della legalità e la vendita dei prodotti realizzati in Sicilia, Campania, Calabria, Puglia.
Un conto è, invece, monitorare il proprio territorio, scoprire i focolai d’infezione, denunciare e informare su quello che le mafie fanno a Milano, Pavia, Monza, Torino, Genova, Bologna, Parma, Modena, solo per citare le ultime grane del rosario mafioso. Con questo non vogliamo dire che le cooperative di Libera Terra e le altre esperienze di lavoro e legalità grazie all’utilizzo sociale dei beni sottratti alle cosche non debbano essere più sostenute, anzi al contrario vanno incoraggiate e supportate allo stremo. Solo è tempo che al nord, il fronte antimafia si configuri come vera e propria trincea nel contrasto alle cosche e si organizzi per reggere la sfida prima di essere spazzata via.
È tempo cioè che, nelle attività impostate sul doveroso binomio “memoria - impegno”, gli sforzi maggiori si concentrino sul secondo termine, sapendo che il miglior modo di ricordare le vittime e aiutare chi lavora al sud è combattere le mafie al nord, attrezzandosi in termini di analisi e di risposte. Le 150.000 presenze di Milano lo scorso 20 marzo per la giornata nazionale di Libera sono un segnale importante in questa direzione. Ormai la linea della palma ci ha superato, è tempo di prenderne atto.

URL di origine: http://www.terranews.it/news/2010/11/federalismo-mafioso

 

Per i rifiuti di Napoli due compattatori a disposizione da Bari


BARI – La città di Bari mette a disposizione per l’opera di pulizia di Napoli due autocompattatori immediatamente e altri due nei prossimi giorni, non appena saranno sottoposti ad alcune riparazioni. Inoltre ne può reperire sul mercato, per l’acquisto, altri sette.
E' questa la risposta che il sindaco di Bari, Michele Emiliano, ha dato al Premier durante la telefonata che Berlusconi ha fatto personalmente ieri ad alcuni sindaci per avere mezzi a disposizione che aiutino a risolvere la situazione di emergenza a Napoli.
Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, in televisione a «Le invasioni barbariche» ha inoltre annunciato che in Puglia potranno essere smaltite 50.000 tonnellate di rifiuti di Napoli.
«Aspetto – afferma Michele Emiliano – di avere un incontro con Vendola per fare il punto della situazione. È chiaro che tocca un pò di sacrificio a tutti».
«Siamo ben consapevoli infatti – aggiunge Emiliano – che la situazione di Napoli e la nostra disponibilità mette prima la parola fine alla vita delle nostre discariche di tal quale. In Puglia è stata fatta la scelta dei termovalorizzatori per chiudere il ciclo dei rifiuti e non tutta la rete per il combustibile derivato dai rifiuti (cdr) di qualità è completa». «Occorre quindi – conclude Emiliano – incontrarci e fare un punto della situazione anche alla luce di questi eventi straordinari».
«Non credo che la soluzione del problema rifiuti a Napoli, come in altre parti del paese, sia il patto di solidarietà con le altre regioni italiane, tanto più che alcune regioni a guida leghista hanno già infranto questo patto». Lo afferma in una nota l’on. Pierfelice Zazzera, deputato pugliese dell’Italia dei Valori, dopo aver appreso della volontà del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola di smaltire in Puglia 50mila tonnellate di rifiuti campani. «La soluzione dell’emergenza che, letteralmente, sommerge Napoli non può essere lo smaltimento in altre regioni: tanto più – aggiunge – che la cosa a cicli alterni si ripete, evidenziando la necessità di interventi a raggio più ampio».  
«Smaltire 50mila tonnellate in Puglia – prosegue – vuol dire creare nella regione problemi di ordine sociale non semplici anche in ragione – prosegue il deputato – dell’equilibrio delicato in cui si trova la nostra terra sotto l’aspetto smaltimento dei rifiuti». «Se da un lato si invita ad un atto di responsabilità il paese – prosegue Zazzera – dall’altro si gioca su i termini, si spostano i problemi all’infinito, determinando un rimpallo continuo di responsabilità e di scelte».
«La Puglia lentamente – conclude Zazzera – sta disegnando una strategia a lungo termine e accogliere i tir carichi di rifiuti dalla Campania significherà ridisegnare il tutto. Mi chiedo se questo sforzo chiesto ai pugliesi non sia un ulteriore 'sfruttamentò da parte di questo governo berlusconiano in continua emergenza che non la smette di considerare il sud come il tappeto sotto cui nascondere la polvere».
27 Novembre 2010
Fonte: http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=385665

 

Monumenti pericolanti a Palermo


Gli agenti del nucleo Tutela patrimonio artistico hanno sequestrato le statue del Teatro Marmoreo di Re Filippo V di Spagna, davanti al Palazzo Reale. Accertata una grave situazione di incuria e degrado.
PALERMO - I vigili urbani del nucleo Tutela patrimonio artistico di Palermo hanno sequestrato le statue del complesso monumentale "Teatro Marmoreo di Re Filippo V di Spagna" che si trova nel parco davanti alla piazza del Parlamento e al Palazzo Reale. Il provvedimento è stato emesso dal sostituto procuratore Salvatore Leopardi che ha ipotizzato i reati di danneggiamento del patrimonio artistico nazionale e di pericolo per la incolumità pubblica. Si tratta di una composizione architettonica e scultorea dedicata al sovrano spagnolo Filippo V.
Gli accertamenti eseguiti dal nucleo tutela patrimonio artistico hanno permesso di scoprire una grave situazione di incuria e degrado. L'opera era sporca e invasa dalla vegetazione. Dall'ingresso è stata rubata una considerevole parte della balaustra che circonda la rappresentazione centrale.

Spariti pure otto colonne marmoree e i battenti dell'antica cancellata che delimitava l'accesso al monumento. Diverse statue sono danneggiate e prive di alcune parti. Nel corpo centrale si notano parti frantumate, distaccate e pericolanti. Nel 2006 il monumento era già stato sequestrato.

Il complesso è di proprietà del Comune di Palermo e gestito dal Servizio Beni Artistici del Settore Centro Storico ed è sottoposto a vincolo monumentale dalla Soprintendenza ai Beni Culturali.
"Con questo ulteriore intervento, dopo quelli della Chiesa della Gancia e dell'arco della Zisa - dice il comandante Serafino Di Peri - continua la nostra attività a tutela del patrimonio monumentale della nostra città".
27/11/2010
Fonte: http://www.lasiciliaweb.it/index.php?id=49390

Grillo: «Vi racconterò com’è la Puglia vista con il satellite»


di ENRICA SIMONETTI
Cade o non cade? «Macchè, non cade! Al massimo faranno un governo tecnico. Tanto poi a comandare può andare anche Totò U' Curtu, non cambierà nulla finché non si faranno le vere cose che servono a salvare l'Italia e cioè: la nuova legge elettorale, fermare il debito e sopprimere tutti i vari conflitti di imteresse. Capirai, non lo farà mai nessuno...».

A parlare del governo e della tragi-commedia italiana è il tragi-comico Beppe Grillo, appena arrivato a Bari per il suo spettacolo di oggi al Teatroteam (ore 21 e domani ore 18,30). Due serate del tour Grillo is back, che sta facendo il pienone ovunque in Italia e che segue il Delirio tour di due anni fa, anche quello di enorme successo. Se allora Grillo si presentava in camicia di forza a descrivere il circo di nani e ballerine della politica «made in Italy», questa volta avrà le braccia libere e presenterà un work in progress senza copione in cui accade di tutto. Alle spalle di Grillo è montato un enorme schermo semicircolare collegato a quella che per lui è la vera democrazia, la Rete, ossia internet.

Allora Grillo cosa ci aspetta a Bari? «Magia, pura magia, capacità di spostare gli oggetti solo con la forza del pensiero... se ne vedranno delle belle. Ma soprattutto vedremo in tempo reale con Google-earth la vostra terra, la Puglia, che indagheremo con il satellite!».

La Puglia, la conosciamo. Cosa dovremmo vedere di nuovo dal satellite?
«Si vede una regione come è stata ridotta negli ultimi tempi. Invece di vendere pomodori vendete celle fotovoltaiche. Sui campi in cui si coltivava sta avvenendo una rapina senza precedenti, in Puglia come in altre regioni. In Sardegna mettono le pale eoliche, da voi i pannelli sui campi coltivati».

Ma lei non era per l'energia alternativa?
«Sì, ma i pannelli li devi mettere nelle città, non in campagna al posto delle coltivazioni. Nelle città però scendono in campo le Belle Arti e così io invece di beccarmi sul tetto i pannelli solari, li metto in Puglia e ci guadagno. E questo non è schiavismo? E dire sì agli inceneritori della Marcegaglia cos'è? Che sta succedendo nella terra più bella d'Italia, la vostra, in cui c'è persino la tipologia di vita ideale, c'è il clima buono, c'è il cibo, la natura... E ci manca poco che ora vi faranno anche la centrale nucleare a forma di trullo, lì ad Alberobello! Scusate se ve lo dico, ma secondo me state naufragando».

Un sospetto: non è che per caso la sua acredine nasce dall'alterco con Nichi Vendola? Per il fatto che lui ha criticato il suo commento negativo alla trasmissione di Fazio-Saviano «Vieni via con me», definendola un integralista e dicendo che «la politica è un campo in cui non si può pensare di avere sempre la verità con la V maiuscola, altrimenti ci si sente un Savonarola»?
«In realtà non c'è stato nessun alterco, queste cose le creano i giornali. Nichi, anzi io lo chiamo Nicola, fa delle “super-cazzole”. La complessità della politica di cui parla sono loro stessi, intervenendo tra istituzioni e cittadini. Hanno una visione del mondo che ormai è vecchia, fondano e promettono partiti, ma non è più tempo di partiti è invece il tempo dei giovani e della loro forza in rete».

Sospetto numero due: non è che vi scontrate perché lui toglie voti ai grillini?
«Lei ragiona con sistemi che non ci appartengono. Il vostro limite è di usare con noi una dialettica che è invece la logica degli altri partiti: noi siamo un movimento diverso e abbiamo un programma serio, tutto il resto delle logiche non ci interessa. Tra l'altro, non ho polemizzato con Vendola e sono rimasto male per la risposta; noi lo abbiamo sorretto sempre, poi lui ha fatto quello che ha fatto, dal sì agli inceneritori della Marcegaglia fino agli arresti nella sua giunta..., le cose di cui non sapeva nulla. Io parlo e so che lei queste cose non le scriverà nemmeno, ma le dico lo stesso».

E allora cosa resta, solo il suo movimento?
«La rete è il vero futuro. Lo sono gli scambi sui fatti, sul concreto: il Paese sta agonizzando e in un'Italia che non c'è più, gli studenti vanno sui tetti e anche i politici vanno sui tetti. Ci vanno perché hanno bisogno di farsi legittimare, dato che sono morti. Dovevano muoversi prima, quando si parlava della Finanziaria, non ora, davanti alle telecamere. Bella questa frase, mi piace. Bè ora basta, le altre cose ce le teniamo per lo spettacolo di oggi e domani!».
27 Novembre 2010
Fonte: 
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=385617


Lavoro: rischio giovani, pochi e in fuga all'estero


Rapporto Manageritalia, rischio è 'degiovanimento' anche sociale
27 novembre, 14:26
Di Lucia Manca
ROMA - Gli elettori over 50 tra dieci anni supereranno gli under 50: i giovani sono pochi e lo saranno sempre meno, hanno difficolta' a trovare lavoro e a fare carriera e su di loro non si investe.

E' il quadro desolante che emerge da un Rapporto di Manageritalia, nel quale si sottolinea il rischio che le nuove generazioni ''non solo siano sempre meno per effetto del declino delle nascite, ma anche che sempre piu' giovani ad alto potenziale lascino l'Italia per le carenze di opportunita'''. Non solo: il rischio di disoccupazione tra i giovani nel biennio della crisi 2008-2009 e' aumentato del 20% e di piu' che in tutti gli altri Paesi europei. ''Riusciamo - lamenta il presidente della federazione, Lorenzo Guerriero - ad attrarre pochi giovani dall'estero, impoverendo sempre piu' quel capitale umano di qualita' che rappresenta la risorsa piu' importante per dare un futuro al nostro Paese''.

BYE BYE GIOVANI - I nostri giovani sono gia' oggi quasi 4 milioni in meno rispetto ai coetanei francesi. Piu' in generale siamo il Paese in Europa con la piu' bassa percentuale di giovani under 25 (meno del 25% della popolazione, stranieri esclusi). Circa 20 milioni a meta' anni ottanta, sono ora meno di 15 milioni. Nel 2020 contera' quantitativamente di piu' chi ha oltre mezzo secolo di vita alle spalle rispetto alle forze piu' giovani e dinamiche della societa'. La fascia elettorale 18-49 anni passera' da 26,5 milioni attuali a meno di 24 milioni nel 2020. Viceversa gli over 50 aumenteranno nello stesso periodo da 23,6 a 27,5 milioni. I giovani - denuncia Manageritalia - diventeranno una minoranza tra la popolazione. In particolare, secondo una elaborazione da stime Istat le persone tra i 20 e i 39 anni caleranno da 15,6 milioni a 13,5 milioni (di cui 11,3% stranieri), con una perdita netta di 2,1 milioni di persone; quelle tra i 50 e i 69 anni aumenteranno da 14,6 a 16,9 milioni (di cui 2,8% stranieri), con un incremento pari a 2,3 milioni.

NON ATTIRIAMO GIOVANI DALL'ESTERO - Secondo il Rapporto, non e' vera la fuga dei cervelli all'etero. I nostri giovani piu' istruiti fuggono dall'Italia nelle stesse proporzioni degli altri giovani europei. Su cento studenti che si laureano, quasi sei decidono di lasciare l'Italia: numeri non molto diversi da quelli di altri Paesi visto che lo stesso indice e' pari a al 4,5% in Francia, al 5,5% in Germania, all'8% in Grecia, al 2,5% in Spagna, al 12,2% in Gran Bretagna e allo 0,7% negli Stati Uniti. E' invece vero che non sappiamo attirare giovani dall'estero e quindi il saldo tra giovani che escono ed entrano in Italia e' negativo: -1,2% contro 5,5% della Germania e del 20% degli Usa.

CLASSE DIRIGENTE VECCHIA - Manageritalia punta l'indice contro lo scarso rinnovamento nella classe dirigente italiana. Il rischio, sostiene, e' che al 'degiovanimento demografico' corrisponda anche un 'degiovanimento sociale': una perdita generalizzata di peso, importanza, valore dei giovani nella societa' italiana. Nel 1990 l'eta' media dell'élite era di 51 anni, nel 2005 di circa 62. Un aumento di 11 anni a fronte di una crescita della speranza di vita di circa 4 anni. I dirigenti privati e pubblici hanno in Italia un'eta' media di 47,7 anni contro una media europea del 44,7%.

SCARSA MOBILITA' SOCIALE - Avere un padre laureato permette al figlio di guadagnare in media il 50% in piu' rispetto a chi ha un genitore con titolo piu' basso a parita' delle caratteristiche individuali del giovane stesso.
Fonte: 
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2010/11/26/visualizza_new.html_1676438160.html