venerdì 8 aprile 2011

Il 7 aprile 1861, Lagopesole quartier generale dei briganti

di DONATO PACE – La Gazzetta del Mezzogiorno.

Il 7 aprile di 150 anni fa il Castello di Lagopesole diventò il quartier generale dei briganti. Per alcuni anni, rimase il covo preferito di Crocco e delle sue bande, diventando simbolo di potere, ma dalla parte dei deboli, dei contadini, degli sfruttati.


Molte le iniziative programmate per i prossimi giorni e per l’intero 2011 da parte della locale Pro Loco, che intende coinvolgere da protagonisti i lontani eredi di quel complesso fenomeno che è stato letto e interpretato dal punto di vista storico, politico e sociale, mai in maniera corale. Le condizioni del tempo certamente erano sfavorevoli ai contadini del territorio aviglianese e del Vulture e bastò poco per reagiure contro i soprusi mai cessati dei cosiddetti galantuomini che non volevano rinunciare ad alcuno dei privilegi acquisiti (il più delle volte senza versare né soldi, né sudore), neppure con il nuovo Stato Unitario. Fu perciò gioco facile per Crocco, Ninco Nanco, Mastronardi e De Biase i convincere e intimare ai numerosi coloni di seguirli, promettendo loro una paga giornaliera di sei carlini e permettendo loro di rubare e uccidere tutti i liberali, oltre che di saccheggiare, indistintamente, tutti i ricchi proprietari del circondario.

Questa licenza non l’ebbero nei confronti degli umili, della povera gente, della plebe, serbatoio inesauribile per il potenziamento delle loro bande. A loro dovevano portare rispetto, perché con loro c’era un vincolo di solidarietà nella miseria, nella fame, nella disperazione. Briganti e contadini, insieme, erano i vinti, gli oppressi, gli sfruttati, i delusi delle promesse non onorate da parte dei liberali. Continuavano a non possedere la terra, ad accontentarsi di salari ridicolmente irrisori, a vivere i più in pagliai, in pochi in capanne, qualcuno raramente in abitazioni costruite col fango, ma tutti costretti a lavorare sodo, senza indumenti, né attrezzi. Una condizione avvilente di povertà perenne, questa, che fece da scintilla di un fenomeno di ribellione non contro un nuovo sistema politico, ma contro tutti quei galantuomini che, rimasti estranei al movimento liberale, anziché temere la revisione dei titoli di proprietà delle terre usurpate o acquisite con la compiacenza delle autorità borboniche, si trasformarono in nuovi padroni, indifferenti verso i problemi della povera gente.

Gli sfruttati si cercarono, si unirono, si trovarono insieme nell bande di Crocco e sperarono di dare un calcio definitivo ai secolari soprusi, alle angherie di sempre, alle umiliazioni, ai mali endemici, alle disuguaglianze, agli stenti, al magro pane che generava la disperazione, ai giacigli da bruti; sperarono di ottenere non privilegi da notabili, ma piccoli pezzi di terra, un tetto, una condizione di vita umana e non animalesca. Le famiglie erano piene di debiti. Solo tasse, carcere, fame. I contadini lucani si sentivano più schiavi di prima. Per disperazione si trasformarono in ladri, spergiuri, assassini senza Dio e senza Patria. Nel loro destino non c’era che vergogna. L’avrebbero provata i loro figli, in quanto figli di ladri e di assassini, di cani rabbiosi miserabili e feroci. Per sfuggire a questo destino, alle evidenti ingiustizie, gli oppressi si cercarono e si unirono non per delinquere, né per devozione verso gli spodestati Borboni, ma per chiedere pane, lavoro, per difendere la propria vita, per vendicare torti antichi e recenti, per impedire gli incendi dei propri villaggi, gli arresti indiscriminati, le fucilazioni di massa delle sentinelle del nuovo sistema politico. Si trovarono non sotto gli ordini di Crocco,ma sotto quelli del proprio orgoglio di uomini, pronti a morire in piedi pur di affermare il proprio diritto ad una esistenza non più vergognosamente subalterna, da insultati umiliati infangati.

C’è voluto un secolo e più per uscire fuori da quel tunnel della miseria. E, oggi, a Lagopesole (e forse nell’intera Basilicata) tutti sono pronti a difendere le azioni di Crocco e delle sue bande, ritenendo che i briganti non furono delinquenti comuni, né eroi a servizio dei Borboni, ma semplici antenati che hanno vissuto per interminabili mesi in impervie grotte e in desolanti rifugi di fortuna, nei boschi e sui monti, con la perenne illusione e l’incessante speranza di poter coltivare scoscese zolle senza pagare il prezzo dell’usura e per guardare qualsiasi altro uomo senza doversi togliere il cappello.
07 Aprile 2011


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