sabato 9 luglio 2011

Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, furbetti del quartierino Italia. La loro vita docet.


"Aspra Calabria" - la prefazione integrale
 di Eugenio Scalfari al libro di Giorgio Bocca
07/07/2011
di EUGENIO SCALFARI
Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio Bocca ha pubblicato in libri e giornali, dall’«Europeo» al «Giorno» e poi su «Repubblica» dove venne dal primo giorno della fondazione e dove tuttora lavora con la mente lucida e la mano veloce a novant’anni sonati, l’inchiesta intitolata Aspra occupa un posto particolare. Quando la lessi tanti anni fa ne rimasi stupefatto, ma ora che l’ho riletta a distanza d’una ventina d’anni ne sono orgoglioso per lui e per il giornale che la pubblicò. Sono calabrese d’origine, quella terra la conosco per averci vissuto un anno e mezzo nel 1944-‘45 e per i racconti di mio nonno, di mio padre, delle mie zie. Ma Giorgio, che in queste pagine si definisce un «allobrogo» ne sa molto più di me. C’è stato per tre settimane, ma l’aveva già percorsa in lungo e in largo altre tre o quattro volte e poi ci ritornò ancora. Ha incontrato le persone più diverse: studiosi, storici, magistrati, prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, mafiosi, contadini. Ha esplorato territori, montagne, oliveti, orti, forre. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alle «’ndrine», violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Locri, Ulisse e il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d’occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud, e invece era quello dell’Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda. È incredibile la scrittura di Giorgio Bocca. Per la professione che faccio da sessant’anni ho letto migliaia di articoli e le firme di chi li scriveva sono state tra le più pregiate d’Italia. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, le sue competenze, i suoi saperi. Ognuno la sua visione della vita e del paese. Ognuno aveva il suo stile. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, s’innamorava dei personaggi, li faceva muovere, li faceva vivere sulla pagina. Poi li lasciava d’improvviso per descrivere le strade dell’Aspromonte, poi ritornava ai mafiosi, alle donne matriarcali, ai pastori; poi li lasciava di nuovo perché quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero - Ulisse che naviga tra l’isola di Circe e quella di Calipso e poi ancora a parlare della cosca di Mommo Piromalli e del procuratore Cordova e infine dei bronzi di Riace apollinei nelle loro posture guerriere. L’inizio di questo racconto è sbalorditivo. È in Calabria e deve scrivere dei rapiti in Aspromonte, deve raccontare per i lettori del nostro giornale che cosa è l’Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti, i torrenti che d’inverno diventano fiumi. E invece comincia così: «Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all’hotel Metropole in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano «tournedos» alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le «crepes» alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiama neri». Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l’Aspromonte e descrive l’hotel Metropole e le gabbie dei vietcong. Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: «Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride, Calabria., e posso vedere di qui l’Aspromonte... » e comincia: «In questi boschi c’è un uomo - il giovane Celadon - che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla bocca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale».
 E da lettore sei ormai avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo con uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, tutto fantasia, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece... Invece stai leggendo il reportage d'un giornalista che si è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro e poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella sua memoria, rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai.
 Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndrangheta e camorra sono sempre lì da un secolo e mezzo. Solo che oggi, da Platì e dagli altri borghi - rifugio, gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kossovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume di affari supera i 150 miliardi l'anno. Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulle montagne o sono al carcere duro e continuano a mandare ordini, a comunicare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo.
Lupi feroci o iene o faine? Nell'aspra Calabria raccontata da Bocca queste tipologie zoologiche ci sono tutte, ma ci sono anche i servitori dello Stato. Pochi però e spesso accantonati, trasferiti o addirittura abbandonati alle vendette perché troppo ingombranti. Bocca non è tenero con lo Stato corroso dalla partitocrazia e soprattutto non è tenero con i partiti. In realtà è deluso dell'Italia e da questo punto di vista è un antitaliano. Vorrebbe un'Italia che non c'è mai stata nella realtà, filtrata attraverso la guerra partigiana della quale è ormai uno dei pochissimi testimoni viventi. I lupi feroci vivono nell'Aspromonte ma non sono più molti: il commercio della droga e il riciclaggio dei profitti ha trasformato i lupi in iene o serpenti o volpi, frequentano i partiti di governo e le banche, hanno amici potenti a Zurigo, alle Isole Vergini e nel Liechtenstein; i figli li mandano all'Università.
 La zoologia è cambiata ma i cuori sono sempre di tenebra, almeno fino alla terza generazione, poi si vedrà. Nel 1992, quando Bocca scrive Aspra Calabria, siamo ancora agli inizi di questa trasformazione. Dopo la ricognizione tra le tane della montagna, scende in pianura, Taurianova, Gioia Tauro, Scilla, Palmi, Reggio. Ed è in pianura che la mafia calabrese comincia a trasformarsi annusando i primi rivoli di droga anche se gli appalti e il pizzo sono ancora determinanti e il sequestro di persone fa ancora parte dell'arcaismo banditesco.
 I personaggi che il giornalista-scrittore descrive sono questi: un senatore comunista-liberale di settant'anni, ormai deluso dalla politica, che scrive poesie ed ama la sua terra con disperazione; un avvocato cui la ‘ndrangheta ha rapito e ucciso un fratello ma che, con uno sforzo estremo di comprensione, riesce a capire la mentalità degli assassini scaricandone in parte la responsabilità su un tessuto sociale degradato; Francesco Macrì detto Ciccio Mazzetta, signore e padrone incontrastabile di Taurianova; Mommo Piromalli, boss del clan intitolato a suo nome, padrone assoluto della piana di Gioia Tauro; il procuratore della Repubblica Agostino Cordova che con la mafia ha ingaggiato una sua lotta personale; la famiglia Pesce-Pisano che governa Rosarno e impone alla città la propria legge a suon di schioppettate e lupara.
 «Torno a Gioia Tauro per la quinta volta e mi aspetto sempre il peggio. La prima volta fu molti anni fa quando il centrosinistra gonfiava le sue vele e le nostre illusioni su un'Italia e un Mezzogiorno riformati. Ricordo un pranzo elettorale dove c'erano Giacomo Mancini ed Enrico Mattei, l'uomo della nuova frontiera. Allora ero il giornalista di punta del «Giorno», il suo giornale, così mi avvicinai al tavolo per salutarlo..“Questo è uno che spara” disse lui presentandomi a Mancini e rievocando il mio passato partigiano. Sì, sparai molto allora ma con fucili che ai Macrì e ai Piromalli non avrebbero fatto nemmeno il solletico. Mancini voleva fare a Gioia Tauro il quinto centro siderurgico, ma come abbia potuto pensare, un calabrese profondo conoscitore della sua terra come lui, di poter paracadutare una grande azienda nella plaga più mafiosa della regione sembra oggi uno dei misteri dolorosi del profondo Sud».
 E descrive quanto sta vedendo con i suoi occhi in quella sua sesta trasferta calabrese, il centro siderurgico mai nato, la costruzione del porto dei container già in gran parte ultimata, oliveti per centinaia di ettari abbattuti, file di camion per sterrare i campi e far posto al cemento, banchine già pronte e traffico marittimo sotto la taglia dei Piromalli. «A loro, potentissimi, i miliardi; alla manovalanza dell'Aspromonte le briciole». Bocca racconta. Quella dei Piromalli che rapirono Paul Getty Jr. e mandarono al nonno un orecchio perché si decidesse a pagare i miliardi di riscatto, è una vera e propria epopea del male. E conclude con queste parole: «Il porto è costato novemila miliardi. È usato solo la notte, dai contrabbandieri». Da allora è passato un ventennio, Giorgio ha compiuto novant’anni, io vado per gli ottantasette, Giacomo Mancini ed Enrico Mattei sono morti, ma i Piromalli sono alla terza generazione e la ‘ndrangheta è più forte e più ricca che mai. Rapimenti non se ne fanno più. Adesso i nipoti di Mommo parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fiduciarie dei Caraibi, del Liechtenstein, di Tangeri e di Miami. Caro Giorgio, ti sei chiesto come sia stato possibile, allora, sperare che il male oscuro del Sud sarebbe stato vinto dando a quelle regioni e a quei giovani industrie moderne e lavoro. L’hai chiamato mistero doloroso. E quando ci incontriamo (ormai troppo di rado) nella tua casa milanese, ancora il mistero doloroso occupa i nostri discorsi.
 Vent’anni fa stava per arrivare un’altra tempesta, un altro Tsunami sulla democrazia di questo paese. Arrivò appena due anni dopo quella tua inchiesta sulla Calabria dei primi Novanta, sembrò un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell’Utri, Previti, il partito dell’amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillette e le escort. Ma i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca. «Money money money», un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria «meno male che Silvio c’è». Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà gaudioso. Che altro potremmo fare se non coltivare questa speranza?

Caro Scalfari, ma voi dove avete toppato?
08/07/2011
di ROMANO PITARO
"Caro Scalfari, spiace prendere atto che a suo avviso, e ad avviso dell'esimio Giorgio Bocca, per me non ci sia altro da fare. Ma io sono ancora qua!, come ironizza quell'irregolare di Vasco Rossi. Sto male, e però vedo che il resto del Paese non se la passa meglio di me. Inoltre, non mi do per spacciato, nonostante voi mi definiate vittima di un male oscuro, che, io la vedo così, di oscuro non ha un bel nulla. Perché i nomi di chi mi ha affamato e destrutturato, compresa la grande stampa scritta ed audiovisiva, si conoscono, uno per uno. Stanno da una parte e dall'altra e dico anche, per evitare che mi accusiate di vittimismo, che i colpevoli, tanti, sono anche accanto a me. Così come sono note le ragioni per cui, dall'Unità ad oggi, sono sotto scacco. Ma anche qui, fatemi dire: nessuna oscurità. Piuttosto, mi piacerebbe che anche voi, anziché salvarvi l'anima, degna senz'altro di rispetto, su un affare che ha visto da sempre il Sud sacrificato per la gloria del Nord, vi interrogaste con meno distrazione. Se la battaglia è persa, e se, dopo un ventennio “i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca”, due grandi intellettuali italiani come voi due - uno dei quali ha fondato giornali, fatto politica, scritto libri entusiasmanti, condizionato governi ed espresso opinioni in cui tuttora ogni domenica si specchiano milioni di italiani - dove hanno toppato?” Se esistesse un Mezzogiorno, se non fossero, invero, diversi i Mezzogiorni, come si deduce da qualsiasi inchiesta sociale ed economica un tantino seria, e come dovrebbe ben sapere la classe dirigente italiana qualora decidesse di aggredire per davvero alcuni mali oscuri del Sud (sottosviluppo e criminalità organizzata) anziché elencarli ad ogni piè sospinto; ebbene, se il Mezzogiorno fosse uno, io credo che risponderebbe in questi termini a Scalfari. Che firma l'introduzione di “Aspra Calabria”, un'inchiesta di Giorgio Bocca condotta all'inizio dei '90 e ora pubblicata da Rubbettino, e che ieri il nostro Quotidiano ha pubblicato integralmente in anteprima. Il lavoro di Bocca è noto anche alle pietre. Viene in Calabria e parla di Vietnam, di capre e champagne, di gente animalesca che sequestra ricchi e meno ricchi, di una società civile ostile alla modernità, chiusa e complice di criminali e malaffare, mentre sullo sfondo pullulano politici corrotti e funzionari pubblici inadeguati. Dipinge, nell'Italia sulla cui groppa stanno per saltare Berlusconi e Bossi, un “continente” a sé abitato da diavoli. Votato geneticamente al crimine e perduto per la democrazia. Un'analisi che salva la coscienza dell'altra parte ricca del Paese, che pure, grazie a quei diavoli, a quei banditi e a quei poveracci, costretti a milioni a cercare nei decenni un'occasione di lavoro in ogni angolo di mondo, galleggia nell'opulenza e nel decoro. Salvo scoprire, oggi, dopo vent'anni, che quell'altra Italia, operosa e intraprendente, infine non è diventata la Repubblica di Platone o la Città del Sole, anzi, come la definisce la Repubblica di Scalfari, si è trasformata in una “gigantesca palude”. In mano ad un partito, la Lega Nord, che non ha niente da invidiare, per sprezzo dei principi fondamentali della Costituzione, al Front Nazional di Le Pen, al Vlaams Blok, il partito nazionalista fiammingo, al Pro-Koln, l'ultradestra tedesca, o al movimento slavista russo di Vladimir Zhirinowsky. Se così è, dunque, è ovvio che qualcosa non ha funzionato, e che alcune interpretazioni consolidate sui ritardi del Sud sono da gettare nella pattumiera. Che si è dinanzi ad un modello di Paese diseguale fin dall'origine ormai entrato clamorosamente in crisi. Ed a cui certa stampa in mano alle grandi imprese del Nord, ha involontariamente (?) reso ampi servigi nel descrivere i tanti Sud, alcuni luridi e impresentabili altri dinamici e attraenti, come un unico Sud la cui subalternità andava vivificata continuamente. Un unico Sud zavorra del Nord, prima da utilizzare e oggi da sganciare. Un'idea che ha fatto da sfondo, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, nel dibattito pubblico e che la Lega ha avuto buon gioco ad enfatizzare. A quell'inferno del Sud, specie l'informazione, avrebbe dovuto dare una mano, per far crescere, come scrive Calvino ne “Le città invisibili” quello che inferno non è ed all'inferno resiste. Spiega eloquentemente quant'è accaduto - ed è da qui che dovrebbe iniziare a farsi un ragionamento sgombro di riserve mentali e pregiudizi sul Mezzogiorno - Giovanni Russo, in risposta a chi sostiene che la corruzione e la criminalità siano una malattia meridionale: “La pratica dell'assistenzialismo corruttore e del sussidio umiliante si è manifestata con il regalo degli incentivi a volte di centinaia di miliardi alle imprese pubbliche e private del Nord che hanno seminato il Sud di “cadaveri” eccellenti, costati centinaia di miliardi di lire e rivenduti per poche centinaia di milioni, e di numerose opere pubbliche perpetue che hanno arricchito e continuano ad arricchire costruttori disonesti e mafiosi, provocando enormi guasti al territorio, lo sviluppo caotico delle città e la devastazione selvaggia delle coste”. E circa l'informazione: “I mass media invece di denunciare il sistema corrotto dei finanziamenti pubblici nel Sud e di illustrare le profonde trasformazioni della società meridionale che, con la dissoluzione del mondo contadino, si era ormai definitivamente allontanata dall'immagine di “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, hanno contribuito ad identificare la questione meridionale con la questione criminale”. Insomma il Sud può andar fiero, specie nella dimenticanza in cui è lasciato di questi tempi, dell'attenzione che gli presta un fine e colto giornalista come Scalfari, ma quell'introduzione ad un'inchiesta sulla Calabria che reca un segno ben preciso, francamente è troppo poco.

Non è facile capire la Calabria senza viverci
09/07/2011
di DOMENICO CERSOSIMO
La Calabria ha un fascino narrativo ineguagliabile. Col tempo è diventata il residuo inspiegabile della grande trasformazione italiana postunitaria. Il punto più resistente e impermeabile alla modernità economica e sociale. L’Italia estrema; un concentrato di patologie inestricabili e inguaribili. Una regione che accentua nel tempo i suoi mali, in grado di inocularli nei corpi sani del paese, che guasta economie e tessuti civili.

 E’ questa la rappresentazione della nostra regione. Anche nei racconti aneddotici rarefatti e magistrali di Giorgio Bocca. Anche nelle succose e pensose prefazioni di Eugenio Scalfari. Non c’è scampo: il riflesso condizionato incolla al “mistero doloroso”, al “male oscuro” di una terra tetragona al cambiamento. Meglio: al cambiamento in peggio, lungo il piano inclinato della progressiva devastazione antropologica e dello smottamento spaziale del male dai minidistretti delle ‘ndrine locali verso Nord, le banche, le borse, i casinò, gli american bar e le sofisticatissime casematte dei circuiti economico-finanziari della nuova globalizzazione.

 Iperarretatezza e ipermodernità sembrano connotare la cifra altera dell’evoluzione calabrese dell’ultimo ventennio. Vite arcaiche e bestiali nelle piccole Saigon della Locride e vite di frontiera a Roma, Milano, Amburgo. Carne in scatola e fichi secchi trangugiati sottoterra in Aspromonte e caviale e champagne gustati in locali à la page in Via Veneto. Racket primordiale a Reggio e ingegneria finanziaria fine nella City. I reportage presidiano ovviamente gli estremi: i bruti e i maghi della produzione di moneta a mezzo di moneta. Sorvolando con scioltezza il cuneo di costrutti intenzionali che consentono la riproduzione nel tempo della doppiezza della ‘ndrangheta. Oscurando, soprattutto, la stretta complementarità tra radicamento arcaico in Calabria e capacità di internazionalizzazione, tra miseria umana locale e ridondante ricchezza globale.

 Come qualsiasi altro luogo del mondo, non è facile spiegare e capire la Calabria senza viverci. Non bastano le interviste e qualche scorribanda di pochi giorni, né gli sguardi esterni freddi, disinteressati. Servono estraneità e vicinanza, freddezza e calore. La Calabria e il Mezzogiorno si capiscono soprattutto se si è interessati al loro destino, se si è convinti che il loro miglioramento è parte del benessere collettivo, non una sua sottrazione. Se si abbandona la comoda logica del transfert, dell’addossare le storture del paese unicamente al Sud e alle sue aree più marginali. La Calabria non è un luogo altero, geneticamente altro, alle prese con meccanismi regolativi unici. Tantomeno un luogo immobile, senza innovazione. Venti anni fa Gioia Tauro era ancora una promessa mancata, le università allo stato nascente, la Piana di Sibari in prima trasformazione, il terzo settore sfarinato e immaturo.

 Osservata dal basso e nel tempo sembra invece un’area nella quale i problemi italiani si presentano con forme più acute e destabilizzanti. Un posto dove la tradizionale penuria di spirito pubblico è esasperata; dove i diritti civili sono meno garantiti che altrove; dove i servizi pubblici sono minori e di più bassa qualità; dove la mortificazione della disoccupazione è più drastica; dove la criminalità è più efferata e radicata; dove le classi dirigenti sono di più modesta caratura. Un classico circolo vizioso che si autoalimenta, ma non un’altra Italia.

 La Calabria non è un mondo a sé, un eremo improbabile. Non è neppure un luogo cenerentola, misconosciuto e trascurato dallo Stato e dalle politiche pubbliche. Forse non ha ricevuto ciò che sarebbe servito per scalare la via dell’autonomia economica e della crescita sociale autodiretta: i migliori maestri, i più motivati carabinieri, i migliori parroci. Sicuramente ha assorbito pessimo Stato e pessime politiche: bidelli, pensioni d’invalidità, indennità miserevoli. Sempre però sotto il vincolo delle reciproche convenienze per le classi dirigenti locali e per le classi dirigenti centrali. Dunque, non funziona neppure il transfert al contrario: prendersela con altri, con lo Stato nazionale, con la Lega, con i giornalisti del Nord. Se la Calabria è un’Italia più critica la responsabilità è soprattutto dei calabresi. Delle loro convenienze a ritagliarsi piccole o grandi rendite nella subalternità e nella modernizzazione passiva. Della redditizia vista bassa delle nostre élite dirigenti e della convenienza all’exit di tanti.

Antropologia di Bocca e pregiudizi leghisti
09/07/2011
di LUIGI PANDOLFI
Se non avessi letto il pezzo di Romano Pitaro sulla prefazione di Eugenio Scalfari al libro di Giorgio Bocca Aspra Calabria, probabilmente non avrei sentito tanto il bisogno di intervenire sull’argomento.
 Il pregio dell’intervento di Pitaro sta nel ricollegare i temi di una critica stereotipata dei mali e dei ritardi del sud, quelli di Bocca per intenderci, ad una più generale questione che afferisce al rapporto, storico ed attuale, tra nord e sud ed alla funzione degli intellettuali nel nostro paese.
 Così mentre la narrazione di Bocca appare inevitabilmente datata, addirittura incoerente con lo stesso tempo storico in cui è stata concepita, il dibattito che su di essa si è aperto dà l’occasione per riprendere il ragionamento su alcune questioni di stringente attualità. Anche grazie agli spunti che Scalfari offre al riguardo.
 La prima considerazione che mi viene, a tal proposito, è che sia Bocca che Scalfari nell’affrontare quella che potremmo definire la “specificità meridionale” non tengano conto di quanto la stessa sia anche il portato di vicissitudini storiche che l’hanno, per molti aspetti, determinata. Bene fa Pitaro, in questo senso, a richiamare l’attenzione sul fatto che talune “asprezze” calabresi e meridionali siano il frutto della malaunità, del sacrificio che il processo di unificazione politica della penisola ha imposto alle popolazioni del sud. Dopo centocinquanta anni questo dovrebbe essere considerato un dato acquisito.
 E invece no. Si persevera in una diagnosi delle patologie meridionali che non tiene conto del contesto relazionale i cui esse sono maturate.
 Inutile dire che tale approccio al “problema sud” è alla radice delle successive perversioni storiografiche del leghismo. Di più: certi orientamenti giornalistici, ma anche storiografici, hanno fatto da substrato culturale ad una interpretazione politica del rapporto nord –sud, tendente ad accreditare quest’ultimo come palla al piede del paese e freno alle potenzialità di sviluppo del nord.
 Cos’è che lega l’antropologia di Bocca sulla Calabria ed i pregiudizi leghisti sul sud? Evidentemente l’idea che con l’Unità il paese si sia dovuto far carico dei problemi di arretratezza e di degrado socio-culturale che il sud portava in eredità.
 Quando Bossi dice che “il nord non voleva l’unità”, a parte il lato comico di una simile affermazione, allude proprio a ciò: al fatto che l’assimilazione delle Due Sicilie al nuovo Regno sabaudo non sarebbe stato un affare per il nord.
 Pazzesco. Come il tentativo di fuoriuscire, dopo un secolo e mezzo, dallo stato unitario con il “bottino” dell’unificazione. Tentativo che, diciamolo francamente, sta incontrando pochissimi ostacoli nel mondo politico. Basti pensare al passivismo, o peggio all’acquiescenza, di tutto il centrosinistra sulla cosiddetta riforma federalista imposta dal Carroccio.
 Una riforma che, per come è congegnata, potrebbe avere effetti devastanti sul futuro della Calabria e del mezzogiorno. Essa istituzionalizzerà un rapporto di dipendenza tra sud e nord, attraverso il meccanismo del fondo di perequazione. In sostanza, quando la riforma andrà a regime, le regioni con maggiore capacità fiscale alimenteranno un fondo di riequilibrio che sarà ripartito tra le regioni con minore capacità fiscale. Inutile dire che a quel punto la qualità dei servizi che verranno erogati in una regione come la Calabria dipenderà “formalmente” dal portafoglio delle regioni del nord.
 Fino a quando? Nella riforma si dice fino a che non si sarà creata una situazione di parità fra i costi sostenuti ed i livelli essenziali delle prestazioni nelle regioni del nord ed in quelle del sud. Io dico fino a quando il nuovo leghismo non dirà “basta, il nord è stufo di pagare le inefficienze e gli sprechi del sud!” Secondo un canovaccio ormai conosciutissimo.
 In questo quadro qual è il valore, la pregnanza della riflessione di Scalfari e della narrazione di Bocca? Sinceramente non riesco a vederli. Tutte le questioni che vi affiorano, vere nella loro essenza, anche nella loro crudezza, non si comprendono fino in fondo se, accanto ad una lettura delle “peculiarità” nostre, non si ragiona sugli effetti pregressi, e su quelli prefigurabili, di una politica “nazionale” che del sud ha fatto prima un terreno di conquista, poi un serbatoi di voti e di clientele, infine la zavorra di cui liberarsi.
 Si, forse il cabaret è gestito ancora dalla stessa cricca, ma ci siamo chiesti il perché? E, dopo qualche decennio di cura leghista, indirettamente sostenuta dalla cattiva coscienza di intellettuali un po’ pavidi un po’ conformisti e dall’ignavia del ceto politico locale di stanza a Roma, cosa ne sarà del mezzogiorno? E della Calabria?
 A quel punto, forse, si sarà realizzato quello che prefigurava provocatoriamente anni addietro Gianfranco Miglio (non a caso!): il sud alla stregua di un cantone governato, attraverso una propria forza politica, direttamente dalle cosche mafiose.
http://www.ilquotidianoweb.it/it/calabria/catanzaro_dibattito_giorgio_bocca_scalfari_calabria_4542.html


Eppure dal raffinato “politico” Scalfari mi sarei aspettato di più
10/07/2011
di TONINO PERNA
CON la pubblicazione della prefazione di Eugenio Scalfari al libro di Giorgio Bocca (Aspra Calabria, Rubettino, 2011) questo giornale ha aperto un dibattito che può risultare fruttuoso solo se superiamo il vecchio gioco dei buoni e dei cattivi, dei nordici razzisti e dei suddisti sfruttati e disprezzati. Sicuramente negli articoli di Giorgio Bocca del 1992, che adesso vengono ripubblicati nel volume citato, le note di razzismo antropologico, i richiami alla “razza maledetta” di cui ha dato ampia testimonianza un bel libro di Vito Teti di alcuni anni fa, sono elementi difficili da digerire per un meridionale che ama la sua terra e lotta per il suo riscatto. D'altra parte, lo stesso Bocca nel 1990 pubblicò un libro, “L'inferno”, dedicato al Mezzogiorno “irredimibile” che fu un best seller e contribuì a rafforzare la cultura leghista nascente. Detto questo, Bocca ha dimostrato nella sua lunga carriera di essere un grande giornalista e di aver fatto qualche volta autocritica (per esempio nei confronti della Lega ), ed ha anche amato il nostro Sud a modo suo, come lo può fare un giornalista. Se fosse stato uno studioso di scienze sociali avrebbe avuto modo di leggere la storia sociale del Mezzogiorno, avrebbe fatto i conti con il profondo processo di deindustrializzazione - e relativa delegittimazione del mercato - che colpì questo territorio nel ventennio 1951-1971, con la chiusura di oltre 17.000 piccole e medie imprese industriali nei più svariati settori (dal legno e mobilio all'industria alimentare, dai minerali non metalliferi all'industria dell'abbigliamento, tessile e calzature, ecc.). Se avesse studiato i volumi della grande inchiesta sulla Basilicata e la Calabria condotta, a piedi o sul dorso di un mulo, dall'on. Francesco Saverio Nitti avrebbe capito quali fossero le contraddizioni sociali di queste terre ed il ruolo nefasto giocato dallo Stato sabaudo quando, per fare cassa, mise in vendita i terreni demaniali, soprattutto boschivi, causando disboscamenti selvaggi, dissesto idrogeologico e incremento della malaria e dell'emigrazione: «un'economia più selvaggia e distruttiva non si potrebbe immaginare» (F.S. Nitti, 1910, p. 69). Ma, anche se avesse avuto la pazienza di leggersi le pagine indimenticabili di Umberto Zanotti Bianco, piemontese come lui, avrebbe scoperto perché lo Stato nazionale in queste terre estreme dello stivale era visto, a ragione, come nemico, usurpatore e sfruttatore.

 Diverso è il discorso che va fatto sulla prefazione di Eugenio Scalfari alla raccolta di articoli di Giorgio Bocca. Il fondatore di Repubblica mette giustamente in luce le qualità giornalistiche dell'allora corrispondente Giorgio Bocca e tenta altresì un'analisi di questi ultimi venti anni. Registra il fatto che i boss della 'ndrangheta hanno mandato i figli all'Università, che con i 150 miliardi di affari le diverse mafie del Mezzogiorno comprano aziende e palazzi, casinò e resort , e sono entrate nel mondo della finanza. Poi aggiunge «i capi vivono ancora nei tuguri sulle montagne o sono al carcere duro e continuano a mandare ordini...» E, dopo lunghe citazioni delle pagine di Bocca, conclude «i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca. “Money money money”, un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria “meno male che Silvio c'è”. Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà gaudioso. Che altro potremmo fare se non coltivare questa speranza?»

 Difficile trovare una conclusione più disperante e disperata che, per magra consolazione, si appende ad una vaga “speranza”. Peccato. Mi sarei aspettato di più da uno dei più grandi giornalisti ed intellettuali italiani. Soprattutto di più da un raffinato “politico”, nell'accezione più alta del termine. Scalfari, infatti, ha fondato nel 1976 la sua Repubblica su un progetto politico-culturale preciso: modernizzare l'Italia, farla uscire dal cappio del bigottismo ipocrita quanto dalle fauci della “razza padrona”, termine coniato dallo stesso Scalfari per descrivere la borghesia di Stato che gestiva/dilapidava a suo piacimento le grandi imprese pubbliche negli anni '60 e '70 del secolo scorso. Scalfari, liberale convinto, ha portato avanti per molti anni un progetto politico di sdoganamento del Pci in cambio di una adesione totale di questo partito alle regole del mercato capitalistico. Credeva, come tanti nel Pci di allora, che l'Italia meritasse una migliore classe dirigente e che la borghesia colta ed illuminata -attraverso il “compromesso storico” con la Cgil ed il Pci - potesse portare l'Italia verso una forma di socialdemocrazia avanzata, liberandola dalle rendite parassitarie e dai retaggi clerico-fascisti.
 Il progetto politico di Scalfari-De Benedetti è naufragato con Tangentopoli. La caduta della Dc ha portato al potere una nuova classe dirigente che niente ha avuto (ed ha) a che fare con la borghesia illuminata e l'auspicata modernizzazione del paese. Per questo il suo giornale è diventato uno dei più acerrimi nemici del berlusconismo, inteso nell'accezione politico-culturale. E Scalfari, colpito dal fallimento del suo progetto, non è riuscito a guardare oltre. I suoi migliori approfondimenti hanno riguardato la sfera esistenziale, il rapporto tra religione e fede, ma non i mutamenti sociali e politici. Lui rimane un grande liberale del Novecento. Ma, le categorie del secolo scorso non ci fanno vedere la metamorfosi delle nostre società.
 La Calabria odierna, a partire dalla provincia reggina, è profondamente diversa da quella che incontrò Giorgio Bocca venti anni fa. Il porto di Gioia Tauro, che Bocca vide solo come luogo utile al contrabbando, è diventato il più importante porto per il trashipment nel Mediterraneo. E se adesso è entrato in crisi non si può dire che è colpa solo dei soliti calabresi, ma bisogna riconoscere l'inerzia dei governi nazionali ed il ruolo nefasto giocato da altri porti del centro-nord. La 'ndrangheta è passata dai sequestri di persona ad holding finanziaria, la più rilevante organizzazione criminale italiana ed una delle più forti del mondo. Soprattutto è diventata un'altra cosa. Fa parte della cosiddetta “borghesia mafiosa”, la nuova classe dirigente che ha conquistato il potere in tanti paesi: dal Messico alla Russia di Putin, dalla Nigeria alla Colombia, dal Kossovo alla Tailandia, ecc. E poi, sia detto per inciso, i capi clan non abitano in tuguri (quando non sono latitanti) come scrive Scalfari, ma in sontuose ville, come è testimoniato dalle confische effettuate dalla magistratura. Sono i nuovi capitalisti che hanno sostituito la grande borghesia industriale italiana, e non solo, che ha abbandonato il territorio di appartenenza, con la delocalizzazione delle imprese, perdendo legittimità sociale e politica. Da Olivetti a Marchionne c'è stato un salto nella dirigenza delle grandi imprese che ha lasciato un vuoto di legittimità che la nuova borghesia mafiosa ha in gran parte conquistato.
 D'altra parte, sul piano della cosiddetta “società civile” molte cose sono cambiate. In Calabria, il consolidarsi delle tre Università, la nascita di centinaia di associazioni ha prodotto un tessuto sociale e culturale molto più ricco di quello che incontrò Giorgio Bocca vent'anni fa. Non è un caso che la Bocassini, famoso giudice milanese, ha recentemente denunciato l'omertà degli imprenditori lombardi di fronte al risveglio sociale e culturale, alla ribellione di tanti imprenditori del Mezzogiorno che hanno denunciato il pizzo e le sopraffazioni del sistema di potere mafioso. Anche in Calabria ed anche nella provincia reggina. La grande manifestazione anti-'ndrangheta promossa da questo giornale l'anno scorso, era impensabile venti anni fa. Ma, la stampa nazionale se ne è accorta ?

 Il Mezzogiorno, la Calabria e lo stesso Aspromonte non sono più aree “arretrate” in attesa dei salvifici interventi dello Stato o dei capitalisti del nord. Sono territori, pieni di contraddizioni che devono fare i conti, come il resto d'Italia, con i guasti della globalizzazione, con il rischio default dello Stato nazionale, con la fine della crescita economica e della religione del Pil. Ma, sono anche territori vissuti da soggetti sociali che reagiscono ogni volta che trovano un punto di riferimento ed un progetto politico-culturale condivisibile e mobilitante. C'è un altro Sud - cresciuto all'ombra dei mass media - che sta emergendo e che sui grandi temi - dai beni comuni (a partire dall'acqua) al mercato equo e solidale, ai diritti sociali e civili - sta incontrando e cooperando con la parte migliore del centro-nord, con un occhio sempre più attento ai popoli del bacino del Mediterraneo. Questa è più di una speranza: è una direzione possibile e praticabile.

Sconvolti dal Money Money
10/07/2011
di AGAZIO LOIERO
UNA felice sinergia tra la casa editrice Rubettino, che ha rilanciato il famoso capitolo sulla Calabria tratto dal volume “L'Inferno” di Giorgio Bocca del 1992, ed il direttore di questo giornale che ha anticipato una bella introduzione al testo di Eugenio Scalfari, ha riaperto un dibattito sulla Calabria e il Sud. Parto dalla parola, ripetuta tre volte, con cui Scalfari chiude la sua prefazione: “Money, money, money….” . Se c'è una cosa che dà la dimensione sconvolgente della Calabria degli ultimi cinquanta anni è il suo rapporto con il denaro. Essendo vissuto infatti a cavallo tra due stagioni, sono in grado di confrontare quella lontana con quella presente. Malgrado il grande mutamento degli ultimi decenni abbia sfregiato il volto della Regione, conservo in un'enclave della memoria una Calabria segreta, non immaginaria, cioè non forzata dall'indulgenza che in genere si riserva al tempo della giovinezza, ma reale.

 Pur considerando i disagi d'allora che sarebbero oggi insopportabili, sul piano del costume, della solidarietà tra gli uomini e soprattutto del gusto, la caduta della Calabria d'oggi rispetto a quella di ieri è verticale. L'ex direttore di Repubblica afferma di essere vissuto da noi per un anno e mezzo negli anni 1944 -'45. Due gli elementi che di sicuro saranno saltati agli occhi del giovane Scalfari in quel tempo lontano: la povertà diffusa tra la popolazione e la bellezza dei luoghi. La prima sembrava un ingrediente naturale della vita di intere famiglie. La seconda, così varia e struggente, arredava l'intero paesaggio calabrese.

 La bellezza che oggi resiste, quella sopravvissuta alla nostra edilizia selvaggia, praticata spesso di frodo, è solo un ricordo di quella d'un tempo. Allontanandosi dagli anni del dopoguerra la Regione si scioglie dalla condizione di drammatico isolamento che aveva segnato per un tempo immemorabile l'esistenza di tanti calabresi tanto da far pensare che la vera isola per molti secoli sia stata la Calabria, non la Sicilia. È a questo punto che irrompe sulla scena un soggetto nuovo: la televisione. La quale ci offre l'uso della lingua italiana, quasi sconosciuta alla maggioranza degli abitanti del luogo e nuovi valori di riferimento basati sulla ricchezza ostentata e sul lusso, sconosciuti agli antenati, che erano persone sobrie e schive, abituate a battersi contro l'ingiustizia delle calamità naturali.

 Ma il colpo fatale l'infligge al territorio la criminalità organizzata. Cresciuta in silenzio fino agli anni delle stragi di mafia in Sicilia, che monopolizzarono l'attenzione del governo, oggi la 'ndrangheta ha sviluppato un potere planetario. Una presenza pervasiva che all'esterno del territorio scoraggia gli investimenti e all'interno si offre come strumento di mediazione sociale, come occasione di lavoro per tanti giovani, ma anche come modello di successo. Il territorio diventa un luogo dove avviene di tutto: omicidi, truffe, trasgressione, anarchia. Una miniera per i media. Tutto quello che appare fuori dalle regole di una ordinata democrazia sembra attecchire da noi. Forte, su tale realtà, risulta il peso della storia - il lungo dominio spagnolo e di seguito, con il breve intermezzo francese, quello borbonico e quello dei Savoia - debole di conseguenza il senso civico, che spinge sempre all'esaltazione del proprio “particulare” a discapito dell'interesse generale.

 Queste le condizioni di partenza, di cui quasi mai gli inviati speciali che negli anni passati sono venuti in Calabria hanno tenuto conto. Insistono a raccontare la nostra storia, di per sé sfuggente, in 80 righe a 54 battute, come si diceva in gergo giornalistico prima dell'era del computer. E veniamo ai giorni nostri. Dopo cinquanta anni di attenzione da parte dei governi e dei partiti nazionali, durante i quali molte risorse furono destinate al Sud, anche se poche in conto capitale, molte in spesa corrente, e dopo alcuni innegabili risultati raggiunti nei primi due decenni dalla Cassa del Mezzogiorno, su questo territorio si abbatte, con la crisi dei primi anni '90, il ciclone-Lega. Un movimento politico che, per quanto rozzo e privo di strumenti culturali, riesce a inoculare nelle vene del paese un diffuso sentimento antimeridionale e antiunitario. Un sentimento che s'insinua in forma silenziosa anche al di fuori del recinto leghista, che scardina, complice la caduta delle ideologie, alcuni concetti-base contenuti nella prima parte della Costituzione, solidarietà, uguaglianza, unità e che riesce a sedurre intellettuali di qualità, a volte lo stesso Scalfari, e per primo Giorgio Bocca. Questi arriva a credere che per rilanciare un paese stremato ci sia bisogno d'irrorare un po' di sangue “barbaro” nelle sue vene. Faccio qui una digressione personale, non priva di vanità, di cui chiedo scusa ai lettori. Circa una ventina d'anni fa scrissi, su incarico del direttore di un giornale nazionale, la recensione di un libro del famoso giornalista intitolato “Metropolis”, in cui presi in giro le sue debolezze leghiste. Lui mi scrisse un biglietto di due righe che conservo ancora. C'era scritto: «Caro Loiero, la tua recensione è la più bella e vera che abbia mai ricevuto per un mio libro. Saluti Giorgio Bocca». Scrisse proprio così. Comunque bisogna aggiungere, ad onor del vero, che qualche anno dopo Bocca s'avvide dell'errore e cambiò posizione sul Carroccio. Torniamo al discorso principale. La Lega è da ormai circa nove anni al governo del paese e i danni che ha prodotto e, soprattutto, produrrà al Sud, sono ingenti.

 Tutta qui la crisi di questo pezzo di territorio? No. Resterebbe da parlare della responsabilità più importante, quella della classe dirigente meridionale. Dei suoi compromessi, delle sue insufficienze, delle sue commistioni con la criminalità, di cui non tutti i giornali del Sud scrivono, ma per onestà bisognerebbe anche parlare della sua solitudine, del suo vivere permanentemente in una gogna mediatica. Ce ne occuperemo una delle prossime settimane.

Molti falsi nell’inchiesta di Bocca sui calabresi
11/07/2011
di ALDO VARANO
Romano Pitaro è uno degli osservatori più intelligenti e acuti che bazzicano in Calabria. Del suo intervento, “Caro Scalfari ma voi dove avete toppato?” Pubblicato sul Quotidiano dell'8 luglio, condivido praticamente tutto. E tuttavia non è inutile aggiungere qualche rapida notazione anche perché questo è il tempo di andare oltre. Rubbettino, che ha accumulato molti meriti nell'organizzazione della cultura calabrese e nella scoperta delle sue radici, ha deciso di mandare in onda un libretto, “Aspra Calabria” che è il capitolo sulla nostra regione inserito nel volume L'Inferno di Bocca (traggo le citazioni dell'edizione dell'agosto del 1992). L'Inferno ebbe un grande successo e restò in cima alle classifiche per lunghissimo tempo. Fu un'operazione editoriale e culturale (al Nord si annusava il clima che poi segnerà il successo della Lega) che con centinaia di migliaia di copie scolpì nell'Italia di fine Novecento un'immagine del Mezzogiorno e della Calabria (ma il mio ragionamento è solo sulla Calabria) con cui ancora facciamo i conti. Quando uscì nel 1992, per anni la nostra regione era stata sulle prime pagine della grande stampa per l'Anonima sequestri e la guerra di ’ndrangheta a Reggio e provincia coi suoi mille morti. Fatti tragici e drammatici. Com’era stato possibile? Bocca non sciupò un solo rigo di “Aspra Calabria” per capire in quale baratro stava affondando la Calabria. Le responsabilità si materializzarono in un male oscuro destinato a restare tale. Il libro, per conseguenza, finì soprattutto per separare dalle responsabilità terribili e gigantesche dei calabresi (peraltro difficili da negare o sottovalutare) quelle del resto del paese e, in modo speciale, quelle dei poteri forti del Nord industriale e mediatico. Fu dopo di allora che un grande intellettuale italiano, Norberto Bobbio (piemontese come Bocca), scrisse: «Ormai la questione meridionale è diventata la questione dei meridionali». Ricordo un angosciato Giovannino Russo che mi rilasciò un'intervista per spiegare che lui non si sentiva tanto autorevole da polemizzare con Bobbio ma che comunque quell'esito, se accettato, avrebbe avuto conseguenze tragiche. Voleva dire il vecchio pubblicista-meridionalista che se la questione meridionale smetteva di essere una grande questione nazionale rispetto a cui mobilitare le energie del paese per diventare la tara antropologica dei meridionali si sarebbero create le condizioni per abbandonare le regioni del Sud a se stesse condannandole all'isolamento e alla sconfitta certi. E così sarebbe andata. E' scritto bene L'Inferno. Bocca ha una straordinaria scrittura come molti tra quanti si preoccupano più del modo di raccontare che della fondatezza dei loro racconti. Il suo obiettivo è sempre lo stupefacente, l'emozione, l'indignazione, anche a costo di forzare la realtà o di tagliarne la complessità ricavandone idee semplici ed emotive. Bene e male, nero e bianco. E più il nero è nero, più il bianco è bianco, meglio è. E' la regola di quello che si potrebbe definire “racconto-scoop”, il racconto che non facendosi condizionare dai fatti scorre meglio. Il “racconto-scoop” è la specialità di certo giornalismo. E' costruito da un'infinità di microstorie talvolta di poche righe. Nessuna decisiva, nessuna dirimente. Una tempesta di cammei incastonati con perizia per dare il senso di un affresco epocale dove conta l'insieme e perdono peso gli argomenti di chi verificando le microstorie ne verifica la sostanziale falsità. “Aspra Calabria” si apre con un falso albergo ipertecnologico nella Locride. Non c'era. Ce n'era uno a Reggio, l'Excelsior. Bocca lo sposta a Locri ed è stupore per il contrasto tra ipertecnologia e arretratezza. Nella Locride l'impavido cronista si avventura nell'Aspromonte dopo aver drammaticamente lottato con se stesso: «andare da solo nell'Aspromonte è da stupido, ma se non ci vado che cronista sono?». Il vecchio partigiano risente «scarpe rotte eppur bisogna andare», e mentre un brivido attraversa la schiena del lettore Bocca, intrepido, si incammina fino “al passo del Mercante”. Ci è andato veramente? Lui scrive che da lì vede Stromboli, Vulcano e Lipari che «stanno immobili nell'azzurro come neri cetacei». L'immagine letteraria è bella anche se da lì le Eolie non si possono vedere. Ma che ci fa? Altra storia altro brivido: sono di scena i raccoglitori di erica cacciati dall'Aspromonte con le lupare sotto il naso perché i signori dell'Anonima non vogliono impicci tra i piedi. A cercare l'erica erano i più poveri tra i poveri per fortuna cancellati dalle trasformazioni economiche e sociali e la mafia non c'entra nulla (tra l'altro l'erica cresce nelle zone di mezza montagna e non negli anfratti in alto in cui erano sistemate le prigioni dell'Anonima). Dai brividi all'indignazione: un sequestrato per due volte fugge, ma per due volte un intero paese, San Luca, si mobilita lo riacciuffa e lo riconsegna in trionfante corteo agli sprovveduti che se lo sono fatto scivolare tra le dita. Potrei continuare. Il racconto di Bocca sull'Aspra Calabria è tenuto insieme da storie spesso false, sempre deformate, costruite su dicerie e pregiudizi che però sono messi insieme in modo da provocare attraverso uno straordinario effetto letterario una grande suggestione che ne garantisce la verità assoluta. Non è un libro sulla Calabria ma contro la Calabria. Un'operazione di mercato. Bocca disegna una Calabria irrimediabile: lo è sempre stata, lo sarà sempre. Come certi personaggi di Dostoievskij è destinata fin dall'inizio a un destino tragico e alla sconfitta. Più che un messaggio o una ricerca il racconto di Bocca, per la nostra regione, è una sentenza. Il male oscuro alla cui ricerca Bocca e Scalfari dicono di aver inutilmente dedicato parte della loro vita, è in modo subliminale squadernato attraverso mille storie (false): i calabresi. Sono loro il male oscuro, la radice del proprio disgraziato destino. E' la loro incontenibile e incorreggibile tendenza a delinquere, a uccidere qualsiasi speranza: non ti curar di loro ma guarda e passa. Non se ne salva uno solo, teorizza sconsolato il vecchio partigiano. Corrado Alvaro? Non scherziamo. Era pur sempre figlio di uno 'ndranghetista, quindi minato dentro dal marcio calabro e dall'anima omertosa. Una scimmietta che non sente non vede non parla; anche se capisce. Che c'è di più e di meglio che polemizzare con Alvaro per farsi più belli e vendere più copie? Bocca, trasforma la sua radicale incapacità piemontese di capire la Calabria in una lezione d'indignazione che dissacra tutto e tutti senza se e senza ma. Racconta di Alvaro e della «volta che tornò a casa da un viaggio e chiese dove fosse il padre e la madre gli diceva “è andato all'organizzazione” e lui sapeva quale ma non faceva domande». Bravo Bocca, sempre dalla parte del più forte. P.S. Ho detto all'inizio di questo articolo dei meriti di Rubbettino. Credo anche che la pubblicazione di “Aspra Calabria”, presentata anziché come documento da far conoscere, come saggio legittimato dalla prefazione di Scalfari, costituisca un incidente culturale.

L'ex direttore ci mostra il dito e non la luna
11/07/2011
di GIOVANNI POTENTE
Il libro di Giorgio Bocca Aspra Calabria e la prefazione di Eugenio Scalfari, che in questi giorni alimentano l'annoso dibattito sulla Calabria, inducono le seguenti considerazioni.
 1) La peculiarità delle emergenze calabresi - disoccupazione, criminalità ecc.- non deve far dimenticare che la nostra regione è incardinata in un contesto sovranazionale, e condivide condizioni di fondo con altre realtà locali o nazionali. Le nostre vite dipendono in larga misura da fattori precipui e strutturali del moderno capitalismo “globalizzato”, che aggravano i problemi locali e spesso ne costituiscono la premessa. Il più determinante di tali fattori è quello meno noto e su cui meno si concentra l'attenzione degli analisti: il fatto che le maggiori Banche Centrali (dalla Federal Reserve alla Banca d'Italia) non sono, come molti erroneamente credono, “banche di Stato”, ma cartelli di banche private. Nel corso di un processo storico iniziato con la fondazione della Bank of England (1694), a questi consorzi privati è stata trasferita quella che era la prerogativa essenziale dei vecchi Stati nazionali: il potere sovrano di emettere denaro (e prestarlo). È il fenomeno più importante e rivoluzionario dell'era Moderna. Grazie ad esso, oggi questi cartelli privati accumulano profitti immensi, fuori controllo ed esentasse: prima tramite il signoraggio, poi con gli interessi sui prestiti agli Stati e alle altre banche. Il signoraggio è il profitto dato dalla differenza tra il costo di produzione del denaro (carta, stampa ecc.) e il valore nominale delle banconote. Una banconota da 500 euro, costata pochi centesimi, assume appunto valore di . 500 euro, e lo assume per convenzione. Da quando è stata abolita la convertibilità del denaro in oro, le Banche Centrali possono emettere denaro praticamente all'infinito, senza dover disporre di corrispondenti riserve auree. E solo il 10% dei soldi è in banconote o monete, il resto è virtuale: cifre in archivi informatici, prive di costo di produzione. Così la Banca d'Italia (i cui soci principali sono Intesa Sanpaolo e Capitalia) presta allo Stato italiano denaro virtuale, creato dal nulla premendo un tasto su un pc. Certo, in cambio ne ottiene titoli di Stato (bot e cct) altrettanto virtuali (ovviamente per un valore superiore al prestito). Ma allo Stato restano poi due modi di pagare gli interessi. O richiede nuovi prestiti, il che aumenta ulteriormente il debito pubblico. Oppure privatizza il proprio patrimonio, come un qualunque cittadino insolvente che deve cedere concreti beni immobili (casa, automobile). È un circolo vizioso. Nemmeno la più drastica “manovra finanziaria” (come l'ultima presentata dal Governo) può sanarlo. Del resto, ancora prima di alienare beni demaniali, lo Stato italiano già ora in cambio di denaro virtuale cede qualcosa di ben concreto: la qualità della nostra vita. Lo fa imponendoci sacrifici reali dal costo sociale elevatissimo: blocco di stipendi e assunzioni nella Pubblica Amministrazione, riduzione dei servizi, dissoluzione di Scuola, Università e Sanità pubblica. Gli Stati insomma sono ostaggi di cartelli privati. Per “risarcire” le Banche Centrali un cittadino americano o europeo è costretto a lavorare in media 4 mesi l'anno, pagando tasse che non diventeranno mai “servizi”. È la più letale forma di “guerra di classe” mai predisposta dall'èlite dominante. E la più subdola, perché inavvertita, di rado trattata dai media.
 2) Nessuna diagnosi della realtà calabrese è completa, attendibile ed onesta se non premette tutto questo e non ne tiene conto. Perciò trovo l'intervento di Scalfari sconcertante. Non comprendo come ancora possa interrogarsi assieme a Bocca, senza rinvenire risposte, sul persistere del «male oscuro» calabrese e sul «mistero doloroso» del mancato sviluppo della nostra regione. Le risposte ci sono. Il nostro “male oscuro” dipende anche dal contesto generale, dal fatto che, come tutti in Europa, siamo schiavi delle Banche Centrali. Il «mistero doloroso» è dovuto pure al fatto che il colonialismo finanziario di cui i calabresi sono vittime (come gli europei e gli americani) si riprende con gli interessi i finanziamenti “a pioggia” comunitari. Con l'aggravante che la dissoluzione dello Stato sociale, in una realtà come la nostra più fragile delle altre, esaspera i problemi fino a renderli insolubili. Scalfari è un maestro. In carriera si è battuto per i diritti civili, contro molti potentati e poi contro la “deriva berlusconiana”. Ancora di recente ha lucidamente denunciato il fatto che a pagare lo scotto della “manovra” del Governo saranno i ceti deboli. D'altra parte si è pure sempre erto a tutore dei veri “padroni del vapore”: i signori di Bankitalia. Fino a pochi giorni fa li ha difesi dalle ingerenze politiche, garantendo che dall'Istituto provengono sempre «orientamenti utili alle parti sociali, agli operatori e al mercato” (Non va bene un proconsole in Bankitalia, la Repubblica, martedì 28 giugno 2011, p. 31). Affermare ciò, e indurre i propri lettori a crederlo, è fuorviante. Bankitalia fa solo i propri interessi, che configgono con il “bene pubblico”. Negarlo, ometterlo ed edulcorare la realtà significa fare il gioco dell'oligarchia dominante, accodarsi alla pletora di politici, tecnici e burocrati (qualcuno risarcito con il posto di Presidente della BCE) che assicura il funzionamento del sistema, tra cui i tanti scribacchini che lo nascondono all'opinione pubblica. Non so se Scalfari sia consapevole di tale sua contraddizione (etica prima che intellettuale). So che per la verità non è mai tardi. So che la verità e la chiarezza redimono -«sia il vostro parlare “sì, sì, no, no”; ciò che è di più viene dal Maligno» (Mt, 5, 37)-. Se Scalfari e chiunque altro vogliono davvero aiutarci dicano, se sanno, come stanno davvero le cose, ci supportino nel denunciare l'inganno di cui siamo vittime. Altrimenti faranno come quelli, tra cui molti nuovi “professionisti dell'antimafia”, che continuano a mostrarci il dito anziché la luna.
Giovanni Potente Laboratorio di Italiano Scritto Unical


È la Calabria vista con gli occhi dei viaggiatori
12/07/2011
di FLORINDO RUBBETTINO
Sono grato al Quotidiano per il dibattito aperto sul libro “Aspra Calabria” di Giorgio Bocca pubblicato dalla Rubbettino con introduzione di Eugenio Scalfari. Quando ho deciso di pubblicare il libro ero ben conscio del fatto che avrebbe sollevato polemiche e discussioni. E i molti interventi che si sono succeduti su queste pagine ma anche su altre testate non hanno mancato di registrare i pregi e i limiti del racconto e dell'analisi di Bocca e anche di rilevare quanto l'introduzione di Scalfari al testo possa risultare, a seconda dei diversi punti di vista, un contributo attento alla discussione o troppo poco rispetto alla complessità delle vicende. Ciò che a mio avviso non è emerso a sufficienza è il fatto che il libro è stato pubblicato in una collana di scritti di viaggio in Calabria, giunta al venticinquesimo volume, denominata appunto "Viaggio in Calabria" dove appaiono cronache e diari compilati da viaggiatori italiani e stranieri di ogni tempo che hanno attraversato la regione, e narrato paesaggi, atmosfere, culture e folclore. Non è un dettaglio da poco per inquadrare questa operazione editoriale. Qualcuno intervenendo nel dibattito ha scritto che l'analisi di Bocca è fuori tempo, altri che non aiuta a capire la Calabria di oggi, altri ancora che essendo stata presentata come saggio e non come documento da far conoscere costituisce un "incidente culturale". E invece se si presta maggiore attenzione alla collocazione editoriale dell'opera appare chiaro come la pubblicazione di "Aspra Calabria" così come l'intera collana risponde proprio al progetto di presentare un documento di quel complesso mosaico di testimonianze sulla nostra regione attraverso quello sguardo esterno imprescindibile per guardare con maggior distacco alle nostre vicende. Le narrazioni di questi viaggiatori tracciano un itinerario a più mani e con più sguardi, da diverse postazioni, per disegnare e dare corpo al profilo di questa regione. È questa l'idea che con Vittorio Cappelli avevamo in mente quando abbiamo progettato questa collana ed è questo lo spirito con cui la porteremo avanti. Nelle annotazioni di questi viaggiatori sono presenti luci, ombre e contraddizioni di una regione sempre difficile da leggere e raccontare. Come tutti i diari di viaggio, queste cronache non sempre restituiscono la precisione del ricordo. Gli scritti si nutrono spesso dell'immagine e dei pregiudizi che ognuno si porta dietro e che proietta sull'oggetto del proprio racconto. Si legge il territorio attraverso le proprie lenti, i propri ricordi, le proprie sensazioni e letture. Questo vale per un grande giornalista come Bocca come per tanti dei viaggiatori che hanno attraversato nei secoli la nostra regione. Nella stessa collana abbiamo pubblicato, ad esempio, Cesare Lombroso che indubbiamente traccia un ritratto ingeneroso della Calabria e dei calabresi. E non è il solo. Ciò che conta è però l'affresco complessivo che viene fuori da questi scritti, soprattutto incrociando i singoli tasselli di questi racconti che attraversano vari periodi e che sono frutto dell'opera di personaggi noti e sconosciuti, scrittori e poeti, medici e militari, viaggiatori per diletto e per lavoro, artisti ed esuli. Ho chiesto a Eugenio Scalfari, che ha accettato con generosità, di introdurre il testo di Bocca. Come per gli altri volumi l'idea di affidare l'introduzione a uno studioso o intellettuale autorevole è una specificità della collana. Non capisco dunque come si possa ritenere che all'"incidente culturale" concorra anche l'introduzione. E in ogni caso credo che ogni libro che affonda il dito nelle piaghe di questa terra sia un contributo prezioso. Tanto più se le pagine sono opera di due dei più grandi giornalisti del nostro tempo. Che, come tutti, vanno letti con senso critico e sottoposti a duro contraddittorio. Come si sta facendo meritoriamente in questi giorni su queste pagine.


Realtà e proclami divario sempre più aperto
13/07/2011
di DOMENICO MINUTO
Non mi soddisfa l'intervento di Tonino Perna a difesa della speranza dei calabresi pubblicato sul Quotidiano di domenica 10 luglio 2011. Egli reagisce alla prefazione di Eugenio Scalfari ad Aspra Calabria di Giorgio Bocca, ed. Rubbettino 2011. Eugenio Scalfari riflette angosciato su tante realtà di inciviltà e cattiveria che ci sono oggi in Calabria, affermando che “la zoologia è cambiata, ma i cuori sono sempre di tenebra” e concludendo che si può soltanto sperare “che alla fine la brava gente vincerà”. Non crede che ciò avverrà e nemmeno io ci credo, ma la virtù della speranza è un dovere. Tonino Perna, invece, afferma che stia emergendo un altro Sud, e valuta positivamente in Calabria sia l'influenza di tre università e di tante associazioni culturali sia un'attenzione, che ritiene sempre maggiore, verso i “popoli del bacino del Mediterraneo”. A me sembra che anche e, per quanto ci riguarda, soprattutto in Calabria, si apra sempre più il divario fra ciò che si proclama e ciò che è, e non solo nel campo politico e commerciale, ma in quello dei servizi pubblici e privati, nella scuola, nei beni culturali, per non dire del lavoro nero e di una diffusa crudeltà verso gli immigrati, compensata, è vero, da tanti episodi di affettuosa accoglienza. Mi sembra che anche nelle università, ed in genere nella scuola calabrese, anche nelle associazioni, alligni faciloneria, incompetenza, falsità che più volte è frode. D'altra parte, basta sfogliare le pagine del Quotidiano, comprese le lettere al direttore, per farsi un'idea aggiornata di ciò che si vede e si soffre in giro per la Calabria. Se si trattasse di doverci difendere dal giudizio degli altri, mi basterebbe quel che dice Tonino. Se dovessimo trovare le colpe degli altri popoli per i nostri guai, non partirei dall' Unità d'Italia, come fa Tonino: scenderei almeno fino agli Angioini. Ma tutto questo mi sembra accademia di fronte alle nostre condizioni: come società civile, siamo nei guai fino al collo, forse non esistiamo più. Non bastano le tre università né le associazioni. Dobbiamo ricreare un costume sociale rigoroso, un'educazione civica corretta: non solo affinché i pedoni non vengano travolti sulle strisce o i boschi e il mare non continuino ad essere una raccolta indifferenziata di rifiuti, ma affinché tutti, e specialmente i professionisti, che troppo spesso sono ignoranti e fraudolenti (dai ragionieri ai geometri agli avvocati ai medici ai giornalisti ai commercialisti ai docenti agli ingegneri ai professori universitari, eccetera) avvertiamo di dover rispondere alla voce di una coscienza collettiva, che oggi sembra scomparsa. Invoco l'intervento etico delle associazioni, degli ordini professionali, dei sindacati, di tutti noi, che dovremmo impegnarci a non sopportare un comportamento indecoroso sia nostro sia di chi ci vive accanto, del collega e dell'amico. Se non usciamo dal nostro provincialismo, fatto di arrogante incompetenza, fraudolenta faciloneria, omertà e nello stesso tempo incapacità di collaborare assieme, sollecitandoci reciprocamente a fare meglio, come calabresi non abbiamo più motivo di esistere.

Le ferite sono ancora aperte e sanguinanti
13/07/2011
di DOMENICO TALIA
Le ferite sono ancora aperte e dunque anche quando viene ripubblicato in una collana di libri diviaggio un testo apparso qualche decennio fa, come fosse una vecchia cronaca di un viaggiatore straniero (Giorgio Bocca sicuramente lo è in Calabria), la discussione e le polemiche nascono e si sviluppano forse oltre le attese di chi ha curato la nuova edizione del libro. Bene ha fatto l'editore Rubbettino a precisare il contesto e gli obiettivi per cui è nata la nuova pubblicazione delle note di Bocca sulla nostra terra. Ma, dicevamo, le ferite sono aperte e sanguinanti, per cui le parole del giornalista piemontese non possono essere lette come quelle di altri viaggiatori, come Norman Douglas o Edward Lear, che hanno fatto della loro narrazione di viaggio sulla terra di Calabria grande letteratura. I problemi di cui parla Bocca sono ancora in gran parte presenti in Calabria ed alcuni anche in forme più grevi e complesse che in passato. Allora discutere di questo libro, di cose scritte venti anni fa, non è un esercizio inutile e non può essere fatto come se si discutesse di uno dei tanti carnet di viaggio del Grand Tour. Può e deve essere, al contrario, un modo per capire meglio cosa è oggi la nostra regione e cosa potrà esserlo domani anche in funzione di cosa i calabresi e i loro connazionali sapranno fare per cambiare le tante cose che non vanno e tentare di migliorare quelle che invece vanno, ma potrebbero andare anche meglio. Faremmo tutti un errore nell'assumere un atteggiamento difensivo rispetto agli scritti di Bocca, magari affidando ad altre e lontane responsabilità le colpe per le difficoltà antiche e moderne della Calabria e del Sud d'Italia. Come se noi fossimo privi di responsabilità per il difficile stato di cose della nostra terra e tutto fosse determinato a Roma, a Milano o a Torino. Al contrario, siamo tutti responsabili in Calabria, ognuno per la propria parte, ed in misura più o meno simile ai molti responsabili di tante arretratezze della Calabria che stanno a Roma, a Milano o a Torino. Per queste ragioni non è certo l'alienazione dalla responsabilità o addirittura dalla colpa che può migliorare la situazione di un regione che è in forte difficoltà, ma che nel contempo non è l'inferno, perché presenta tanti aspetti positivi che spesso da Roma o da Milano non vengono visti o quando vengono visti generano una ipocrita sorpresa, quasi che in Calabria non possano esistere cittadini, imprese o fatti virtuosi e in tanti casi anche di eccellenza. Certamente Bocca ama i toni estremi, gli piace sottolineare i lati più oscuri delle cose, privilegia le tinte forti. E' un suo stile giornalistico che, tra l'altro, tanti apprezzano in Italia e anche fuori dall'Italia. In più, è certo che Bocca quando parla del Sud ci va giù duro, non usa mezze misure e mette in campo gli stereotipi antimeridionali con stile rendendoli, se possibile, più pericolosi e più accattivanti allo stesso tempo. Tuttavia, nessuno in buona fede può pensare che il mare sporco, la violenza barbara delle faide, i voti acquistati per 100 euro, le case costruite in ogni dove e mai finite, le 'ndrine, i mille clientelismi a cui assistiamo quotidianamente, siano colpa di Giorgio Bocca. E se, a volte, lui nello scrivere su di noi quasi si entusiasma perché pensa di parlare di gente di cui si sente migliore, dobbiamo avere pietà per il suo ego, ma allo stesso tempo dobbiamo saper riflettere sulle sue parole per prenderne comunque la parte utile. Quella parte che può aiutarci a migliorare, perché la Calabria e i calabresi certamente possono e debbono migliorare in molte cose. Non dobbiamo avere paura ad osservarci anche con gli occhi degli altri se questo può servire a farci diventare cittadini migliori e a migliorare la nostra terra. Allo stesso modo, dobbiamo imparare che rispondere soltanto con il consueto e trito orgoglio di meridionali alla ostentata superiorità di qualche giornalista piemontese non serve a rendere migliore la nostra regione. Sono i fatti quelli che contano e pesano, molto più delle parole e dell'alterigia. Impariamo ad assumerci le nostre responsabilità e saremo più credibili quando richiameremo le classi dirigenti nazionali alle loro responsabilità che sono molte o quando ricorderemo a giornalisti, anche prestigiosi, che anche da parte loro è necessaria e dovuta una onesta attenzione per una regione che è ancora schiacciata tra uno Stato e una politica nazionale che non si interessano ad una terra di margine come la nostra e che spesso sono stati alleati o dirigono le tanti classi dirigenti calabresi subalterne al potere centrale e che hanno costruito e mantenuto il loro potere locale sulle clientele e sul bisogno tenendo la Calabria lontana dallo sviluppo. Questi signori hanno certamente più colpe di Giorgio Bocca nel dileggio della Calabria. La nostra regione ha bisogno di onestà di ragionamenti, atti civili, buona amministrazione e una dinamicità sociale che attualmente non ha e che neanche i tantissimi giovani disoccupati sembrano riuscire a invocare e a sviluppare. Iniziamo al nostro interno i processi di cambiamento e così risponderemo a coloro ai quali piace credere ad una Calabria irrimediabilmente persa. Così diventeremo interlocutori credibili nel rivendicare e ottenere anche la giusta cronaca per la nostra regione.

Guardare dritto al cuore dei nostri mali
13/07/2011
di VITTORIO CAPPELLI
 È scoppiata sul “Quotidiano” una polemica vivace e spumeggiante, un gran fuoco d’artificio,sull’ “Aspra Calabria” di Giorgio Bocca e sulla presentazione scritta appositamente da Eugenio Scalfari per la nuova edizione Rubbettino di questo testo, tanto forte e seducente quanto, per molti, difficile da digerire. C’era forse da aspettarselo che questa pubblicazione non sarebbe passata sotto silenzio. Ma il dibattito mi ha preso un po’ alla sprovvista, alle prese come sono con le valigie per un lungo viaggio in Brasile, dove si organizzano convegni e simposi per sapere cosa si pensa in Italia degli emigranti e dei viaggiatori italiani, che hanno scelto quel paese-continente per conoscerlo o per lavorarci e vivere. Dopo un po’ ho pensato, però, che le due cose non sono poi così distanti tra loro. Rubbettino ha avuto a suo tempo la bontà di affidarmi la direzione della collana “Viaggio in Calabria”, in cui compare ora il testo di Bocca, ultimo nato dopo altri ventuno titoli che hanno visto la luce in soli tre anni, durante i quali ho frequentato gli sguardi e le acutezze, le emozioni e le intelligenze dei viaggiatori, come le loro diffidenze, gli stereotipi e i pregiudizi, che si sono spesso intrecciati e confusi nelle stesse persone che hanno visitato la Calabria dal Settecento fino all’altro ieri. Ora mi ritrovo alle prese con altri viaggi, più o meno deliberati, più o meno provvisori o definitivi, più o meno dolorosi o gratificanti, cui hanno dato vita per almeno cent’anni i calabresi e i lucani, come i veneti e i trentini. In entrambi i casi, un passaggio cruciale è costituito dalla relazione complessa tra il dentro e il fuori, il qui e l’altrove, il noi e l’altro. In Brasile, la rappresentazione degli italiani, malgrado la persistente forza evocativa di stereotipi quali la tarantella, la pizza e la polenta, la “capatosta” calabrese e la canora allegria napoletana, risulta in realtà molto ricca e variegata nel tempo e nello spazio, dunque irriducibile ad una immagine coerente ed uniforme. E’ semmai la cultura italiana a mostrarsi più sbrigativa e superficiale, tranne rare eccezioni, nel rappresentare il Brasile e i brasiliani, rimarcando distanza e distrazione rispetto agli stessi viaggiatori e ai migranti italiani che hanno invece prediletto il Brasile. Nel caso del viaggio in Calabria, ora torna drammaticamente il problema del rapporto tra il noi e l’altro e si ripropongono le dibattute questioni identitarie. “Come qualsiasi altro luogo del mondo” – ha annotato efficacemente Mimmo Cersosimo – “non è facile spiegare e capire la Calabria senza viverci”. Per capire davvero, ha aggiunto poi, occorrono sia l’estraneità che la vicinanza, sia la freddezza che il calore. Sia la ragione che il sentimento, potremmo dire ancora, sia la condivisione che la presa di distanza. Solo così si può pensare di decifrare il mix micidiale di arcaico e post moderno della Calabria più recente (Cersosimo), la novità di territori locali globalizzati, non più leggibili in termini di arretratezza (Perna). Ecco, ho l’impressione che in questa discussione qualcuno non riesca a prendere le distanze. Che la reattività dell’orgoglio ferito impedisca di guardare dritto al cuore dei nostri mali e, ancor più, vieti la possibilità di sopportare la durezza dei giudizi altrui. Tutti gli intervenuti conoscono certamente la Calabria dall’interno e dunque a Bocca, ma anche a Scalfari, ribattono sottolineando la complessità della Calabria, richiamando i suoi dinamismi interni, sia in prospettiva storica che nella sua attuale articolazione sociale, e rammentando, infine, gli infiniti torti subiti. Ma così ho il timore che si corra il rischio di camminare su un crinale, da cui si può facilmente cadere in quell’eterno vittimismo autoreferenziale, che non è di sicuro la strada migliore per illuminare i nostri “mali oscuri”. Non voglio minimamente entrare nel merito della qualità e dei contenuti della vecchia inchiesta di Bocca e della nuova presentazione di Scalfari, né ho intenzione di esaminare gli interventi pubblicati finora su questo giornale, peraltro piuttosto diversi tra loro per toni e contenuti. Ma credo che non si possa assecondare chi taccia di “piemontese” Giorgio Bocca (e, forse per non farne un caso personale, anche Norberto Bobbio). Così facendo, finiamo diritti in braccio alle ottocentesche “briganteidi” di Nicola Misasi e ai novecenteschi “terroni” di Pino Aprile. E non ne abbiamo alcun bisogno. Con la collana “Viaggio in Calabria” ho cercato di seguire, col conforto e la determinazione dell’editore, altri percorsi, collazionando il meglio della letteratura di viaggio che ha riguardato la Calabria negli ultimi tre secoli. L’obiettivo è quello di comporre un mosaico di voci e di sguardi esterni (stranieri ma anche peninsulari) con cui misurarci senza compiacimenti e senza vittimismi, anche per affinare l’autopercezione e l’autorappresentazione degli stessi calabresi. Giacché gli stereotipi e i luoghi comuni non appartengono solo a chi osserva dall’esterno ma anche a chi non riesce a pervenire ad una matura e libera autosservazione, che è la premessa ineludibile dell’autodeterminazione. A partire da queste convinzioni, abbiamo giustapposto autori classici del Grand Tour e viaggiatori contemporanei; autori francesi e tedeschi, americani e italiani; intellettuali, militari, scienziati e sportivi; viaggiatori e viaggiatrici. Abbiamo dato spazio a punti di vista divergenti e spesso eccentrici, da Cesare Lombroso ad Alberto Savinio, da Galanti a Bartels, da Custine a Lear. E in questa galleria, oltre ai citati Lombroso e Savinio, non pochi sono gli italiani del Nord, dal Trentino Carlantonio Pilati al milanese Luigi Vittorio Bertarelli e al piemontese Giorgio Bocca. La cui pubblicazione non è “un incidente culturale”, ma l’ultimo tassello (per ora) di un mosaico, al quale possiamo guardare come in un gioco di specchi policromi e multiformi, nei quali guardarci per affinare anche la comprensione di noi stessi. La discussione che si è aperta è uno stimolo ad andare avanti, dando ancora più spazio, com’era già nelle nostre intenzioni, al viaggio e ai viaggiatori del nostro tempo.


La torsione mutante che ha colpito l’italiano
14/07/2011
di MASSIMO VELTRI
Da una parte l'aspra Calabria di Bocca e Scalfari indigna, dall'altra Napolitano richiama tutti alla coesione nazionale... e poi c'è Luigi Lombardi Satriani che si chiede com' è che questo Paese s'è ridotto così. Già, chi sa perché... Lombardi Satriani parte da Anna Maria Ortese, passa per Sciascia, Pasolini, Lukacs... e sapidamente, icasticamente, mai in maniera assolutoria o compiaciuta, da antropologo qual è, chiude il cerchio ancora con Sciascia. Letteratura e verità', capacita' di trasfigurare il reale per colpire nel profondo il motore emozionale che controlla il nostro agire. Cita Lukacs, Lombardi Satriani, e coglie così il nervo fin troppo scoperto di una politica, di un comune agire, che è andata via via smarrendo il potere di sedurre, di motivare e di entusiasmare, riducendosi così a mero, arido, esercizio contabile sempre più circoscritto a scale locali. E com'è che l'Italia s'è ridotta così? Per un'irrisolta questione meridionale, per l'esplosione della questione settentrionale? Certo, ma non solo. Per l'affievolimento di un ethos collettivo, già precario e ancora in fieri, per un gap di elaborazione dopo il crollo del muro, per la progressiva delegittimazione di valori fondanti e di temi quali la cultura, i saperi... L'antropologia, se pure da una scuola di pensiero etichettata come ancella giustificatrice del colonialismo, per i più soppianta e comprende la filosofia, così che con Ernesto De Martino, ma pure con Augusto Placanica e con Umberto Zanotti Bianco, e Manlio Rossi Doria, e Pasquale Saraceno... può aiutare a comprendere cornici entro le quali ci muoviamo, contesti, storie, storia. E dar conto della vera e propria torsione antropologica, appunto, che ha colpito l'homo italicus da vent'anni a questa parte, ormai, e da cui stenta ancora a uscire. Una torsione mutante, mutante di orizzonti, di identità, di strumenti. Che ci porta a rinchiuderci a riccio, non appena da fuori della Calabria qualcuno ci commenta, a ergere barriere, a negare. Senza, invece, indurre a interrogarci su com'è e perché siamo oggettivamente il fanalino di coda, e oscilliamo ossessivamente e esclusivamente tra rassegnazione e lamento. Torsione che dopo anni e anni di concezione e pratica quotidiana del paese in termini proprietari da parte di chi intende, appunto, la cosa pubblica come orpello o al più funzionale ai propri interessi personali, siamo ancora lì, con codazzo di questuanti, acclamanti, servi di scena e di backstage. Così che per far rientrare i conti entro ambiti decenti, senza misure strutturali, contenimento dei costi della politica, nulla per la lotta all'evasione... per spirito di responsabilità (... ) l'opposizione dice che va tutto bene, senza aver mai provato a mettere in piedi un'ipotesi di proposta se non proprio alternativa, almeno diversa. Cioè: a quale Italia pensa il centrosinistra, qual è il suo disegno di società? E viene in mento il continuo richiamo a una sinistra riformista, che non vuol dire sinistra di governo a tutti i costi; ai ritardi grandi con cui questo processo procede; all'arrabbattarsi della politica fra il balbettio inconcludente e il tatticismo infinito, alla distanza fra cittadini e palazzi, al bruciare incessante di generazioni e generazioni. RenèThom, in Teoria delle Catastrofi, ci parla degli elementi di discontinuità che occorrono nelle dinamiche fisiche e umane, delle cuspidi lungo curva regolari e continue: noi siamo in prossimità del vertice di questa cuspide, dopo di che ci sarà altro, altra cosa rispetto a quello che abbiamo vissuto finora. Forse può aiutarci Barabasi, il fisico che, di recente, ha avanzato l'inquietante e affascinante ipotesi dell'esistenza di un modello probabilistico con cui “prefigurare” il futuro. Di certo c'è la freschezza, l'entusiasmo, la serietà di questo giovane, di cui queste colonne giorno per giorno riferiscono, che sta percorrendo, ripercorrendo, la nostra regione, a piedi. Un Grand Tour dei giorni nostri, in pratica, non esogeno però. E con occhi non sprovveduti, non ripetitivi, non cinici, ma vigili, ce la racconta la nostra storia, la nostra geografia. Il nostro oggi, rispetto al quale non possiamo restare indifferenti.

Per favore, non buttate la palla fuori
15/07/2011
di ALDO VARANO
Ancora sulla Calabria Aspra di Bocca, secondo capitolo dell’Inferno, libro di successo del ’92, riproposto da Rubbettino. Inizio con due ringraziamenti: a Matteo Cosenza, che ha alimentato un dibattito sui nodi di fondo della Calabria attuale (e sopporta perfino un mio secondo ed ultimo articolo); e, per fatto personale, a Florindo Rubbettino per il garbo e la lealtà con cui ha polemizzato in modo duro e determinato con un mio intervento sull’argomento. Mi ha rimproverato - se non ho capito male - perché ho sostenuto che Aspra Calabria, prefato da Eugenio Scalfari, va considerato un incidente culturale per un editore che, come ho scritto «ha accumulato molti meriti nell’organizzazione della cultura calabrese e nella scoperta delle sue radici». Rubbettino spiega che il libro va collocato nella più ampia collana (il cui acquisto mi permetto di consigliare a quanti non la possiedono) sui viaggiatori nella nostra regione. Aspra Calabria è una delle facce ineliminabili di un mosaico che va giudicato nel contesto. Insomma, libro che testimonia e “documenta” fermo restando che «gli scritti si nutrono spesso dell’immaginazione e dei pregiudizi che ognuno si porta dietro e che proietta sull’oggetto del proprio racconto». E’ un libro che “affonda il dito nelle piaghe” della Calabria scritto da due grandi giornalisti, Bocca e Scalfari «che come tutti vanno letti con senso critico e sottoposti a duro contraddittorio». Argomenti molto laici che a tratti danno l’impressione di una netta presa di distanza dai contenuti specifici dell’opera di Bocca. Si può essere d’accordo ma io non lo sono. Ma mettiamo qualche paletto per liberarci dalle furbizie di chi si difende senza argomenti: chiunque ha il diritto di leggere la Calabria secondo le proprie categorie. Corollario: una cosa è interpretare i fatti, altra falsificarli con un “racconto-scoop” dove la Calabria viene proposta non attraverso un’interpretazione (inevitabilmente) soggettiva ma schierando l’inventario di tutte le (infondate) sciocchezze che sulla Calabria circolano. Secondo paletto: solo un cretino può immaginare o sostenere che Bocca sia l’origine dei mali calabresi, e ci vuole uno cretino due volte per convincersi che le classi dirigenti calabresi, la sua cultura, la sua informazione, la sua politica (che sono sempre lo specchio, più o meno deformato, di tutti i calabresi che vivono in Calabria e/o, perfino, fuori) siano innocenti e vessate. E’ noioso doverlo ripetere, ma tant’è. Continuo a spendere un piccolo patrimonio per acquistare copie del Giornale di viaggio in Calabria di Galanti (Rubbettino 2008) per zittire i nostalgici dei Borboni che immaginano una Calabria ricca e rigogliosa poi impoverita dall’Unità d’Italia e dal Nord cattivo e predone, nascondendo quella reale che Galanti testimonia: miserabile, primitiva, invivibile. Né mi scandalizza chi teorizza la Calabria come male oscuro (rubando la bellissima immagine da uno dei più grandi libri del Novecento, scritto in Calabria da Giuseppe Berto). Ciò che contesto è che questi giudizi possano essere sostenuti con straordinaria superficialità incollando ritagli di giornali o peggio. Corrado Alvaro era una scimmietta che non vede, non sente, non parla se c’è di mezzo la ‘ndrangheta? Bocca mi pare falsifichi grossolanamente l’articolo in proposito firmato dallo stesso Alvaro sul Corsera. Ho elencato e contestato, rileggendo Aspra Calabria, non le opinioni o i giudizi di Bocca ma alcuni (tratti dal mucchio) pregiudizi e una massa di dicerie spacciate come fatti e verità accertati. Nessuno mi ha detto: ti sbagli qui e lì. Solo imbarazzo e silenzio. Con argomento al limite dell’insulto, si insinua: è scattato l’orgoglio del calabrese ferito di fronte alle nostre brutture, l’assenza del coraggio per guardare negli occhi il nostro dramma, e (ma qui interpreto e sintetizzo) la spocchia del provincialismo che pretende che i panni sporchi si lavino in casa o, meglio, che non si lavino affatto. Replica: è possibile chiedere agli intellettuali calabresi, per una volta, di restare all’argomento? non buttare la palla fuori? non nascondersi dietro l’astratto general-generico delle categorie generalissime? Che ci si prenda le nostre responsabilità fino in fondo? Ho parlato male di “Garibaldo” dicendo che Bocca ha fatto con l’Inferno un’operazione di marketing non per testimoniare qualcosa ma per vendere più possibile? In Aspra Calabria a parte qualche virgolettato (specie di Gaetano Gingari) c’è un elenco di fatti che non stanno da nessuna parte, mai supportati da una fonte verificabile. Spesso clamorose sciocchezze scritte da dio. Cappelli è convinto che i sequestrati venissero portati in montagna col tassì? Che i giovani sequestrati giocassero a pallone in Piazza di San Luca coi figli dei loro aguzzini davanti a tutto il paese? Possono, professor Cappelli, migliaia di persone invece di essere una stratificazione sociale, culturale, etica, religiosa essere un ammasso indistinto di cellule delinquenziali? In Aspromonte è da stupido andare da soli? C’è una caserma ogni estate ricostruita dai carabinieri e ogni inverno incendiata dalla ‘ndrangheta? L’aeroporto di Lamezia non si sarebbe dovuto costruire? Mancini è stato un po’ matto (o un disonesto?) a immaginare e sognare una rottura sociale dell’arretratezza calabrese con l’industrializzazione della Piana di Gioia? Sia chiaro, non mi batto qui per la verità. Pongo un altro problema: si può risalire da questi argomenti alle radici della tragedia che continua a consumare e disfare la Calabria? Io non ne sono convinto. Questo ho scritto. Che c’entrano le banalità sul provincialismo? Vale la pena ricordare che la connotazione piemontese per Bocca e Bobbio non può in nessun caso significare una vaga insinuazione razzista invece che (in modo diverso per i due) un’attenuazione di responsabilità per le loro incomprensioni del Sud? Suvvia, onestà intellettuale. Sono fiero di aver firmato negli anni scorsi una lunga intervista a Vittorio Foa (anche lui piemontese) che scese in campo per difendere Bobbio dalle calunnie sui suoi presunti cedimenti al fascismo. Del resto, in passato ho fatto pubblicare, su una rivista dove avevo grande parte, una recensione del quasi piemontese Lombroso (sempre Rubbettino). Lombroso elenca i fatti e li interpreta male. Ma i suoi fatti, una volta liberati dalla furia interpretativa positivista, appaiono preziosi spaccati della realtà che Bocca (se ne facciano una ragione Cappelli e Rubbettino) non riesce mai ad offrirci. Non bisognava pubblicare Aspra Calabria? Non l’ho scritto. Non lo penso. Non se ne abbia a male nessuno: sono convinto esattamente del contrario. E’ un ottimo documento sul processo di formazione dei pregiudizi contro il Sud. Soprattutto, la pubblicazione ha messo in moto l’astuzia della ragione: nella Calabria afona che sembra aver cancellato politica, sindacati, intellettuali si discute e ci si accapiglia. Viva la Rubbettino. Ma mi riesce difficile accettare che il libro sia il numero 25 di una collana. Gli altri (preziosissimi) volumi hanno apparati e introduzioni critici. Calabria Aspra, invece, una prefazione di Scalfari da dove emerge più la sua generosità verso Bocca che non il suo contributo a illuminare il lettore. Una legittimazione acritica. E’ questo insieme, vorrei segnalare a Rubettino, che, a mio avviso, ha fatto dell’iniziativa e del modo in cui è stata realizzata, un incidente. Tutto qui, nient’altro.


Il dubbio è l’inizio della conoscenza
16/07/2011
di GIOVAMBATTISTA PAOLA
Entro in questa discussione su Aspra Calabria in punta di piedi. Senza nessuna pretesa. Anche perchè, il “male oscuro” della Calabria non è stato certo schiarito dal dibattito in corso. Oscuro era e oscuro è rimasto. Il punto vero da cui partire è l'interrogativo proposto da Massimo Veltri sulla rinchiusura a riccio che caratterizza una parte della cultura calabrese non appena qualcuno azzardi a dare una lettura fuori dal coro dei processi che interessano grandi aree del Mezzogiorno a partire dalla Calabria. L’alzata di scudi registratasi rischia di fornire una chiave di lettura giustificazionista del ritardo storico di questa regione. Si ricorre all’antropologia, alla storia, all’Unità d’Italia, ai Borboni, perfino alla letteratura meridionalista nell’affannosa ricerca di alibi che possono giustificare il forte divario di sviluppo accumulatosi tra le due grandi aree del Paese. Come nel processo penale dieci indizi non fanno una prova, nei processi storici dieci alibi non fanno una certezza. La Calabria andrebbe prima capita. Poi spiegata. Senza ricorrere a questa forma di “leghismo culturale” obsoleto. Senza vittimismo. Senza rassegnazione. Uscendo da questo limbo di marginalità culturale. Dagli opportunismi. Sempre in agguato. Sulle “disgrazie” della Calabria e del Mezzogiorno molti hanno costruito le proprie fortune letterarie, politiche, economiche. Bocca, invece, checchè se ne dica, non né aveva certo bisogno. La Calabria deve uscire intanto dal tunnel dell'ipocrisia e dei luoghi comuni. Deve uscire dalle sabbie mobile dell'analisi stereotipate. Sono almeno vent'anni, ad esempio, che ad ogni manovra economica del Governo centrale, si accompagna il ritornello che essa avrà effetti destabilizzanti in Calabria. Come si vede, non solo in Calabria non si è mai destabilizzato nulla, ma si è perfino finito per consolidare e rafforzare un sistema di potere malato e corrotto. Se la Calabria e il Mezzogiorno non sono stati storicamente all’altezza di esprimere una classe dirigente attrezzata, colta, capace di reggere la sfida della modernità, la responsabilità è forse di Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari? Se l’istinto all’autoconservazione in Calabria è così forte e l’etica della responsabilità così debole la responsabilità di chi è? E se i peggiori nemici della Calabria fossero proprio i calabresi? E, ancora, la cultura calabrese ha la coscienza a posto rispetto a questo scenario? O, forse, è vero, come amava ripetere un grande statista, che la Calabria consuma più storia di quella che produce? La profondità delle analisi dovrebbero quanto meno servire a sciogliere questi interrogativi di fondo che aleggiano come macigni sul futuro di questa regione. Come dicevano i latini: “dubium sapentiae initum”. (Il dubbio è l’inizio della conoscenza). Problematizzare la complessità della questione Mezzogiorno aiuta a capire le contraddizioni e le debolezze di una società che ha conosciuto la modernità ma non lo sviluppo. Aiuta a capire che nella “società delle conoscenza” il “male oscuro” rappresenta solo una diagnosi. Efficace. Maledettamente vera. Non un problema, quindi. Ma uno stimolo. In più.


Pregiudizi, non sta tanto bene la razza che non c'è
17/07/2011
di MATTEO COSENZA
PARLIAMO troppo o troppo poco? Discutiamo abbastanza e bene o ritualmente
 e limitatamente? Il dibattito sulla riedizione del libro, che poi era una
 vecchia inchiesta giornalistica, di Giorgio Bocca e soprattutto
 sull'introduzione, questa inedita, di Eugenio Scalfari, si è sviluppato in
 maniera intensa e tra prevedibili alti e bassi. Un deja vu? Siamo iscritti
 al partito della discussione, vorremmo essere militanti anche di quello
 dell'azione ma in giro al momento se ne vedono pochi per cui occorre
 aggrapparsi alle occasioni che capitano per ricominciare da capo e sperare
 che ne sortiscano non solo arricchimento e chiarezza per tutti ma anche
 qualche barlume di iniziativa che possa avviare una fase nuova. In ogni
 caso meglio parlare che tacere, perché a stare zitti sono troppi e non
 sempre per le migliori ragioni. Sono riflessioni che faccio non già per
 trarre conclusioni, che, se fossero possibili, sarebbero la migliore
 notizia dei tempi che viviamo, quanto per sottolineare la particolare
 congiuntura che mi è capitata mentre su queste colonne si susseguivano le
 opinioni su Bocca, Scalfari, la Calabria e il Mezzogiorno: l'avere tra le
 mani la nuova edizione del libro del nostro Vito Teti, "La razza maledetta"
 (Manifesto libri). L'attualità del testo, terminato nell'agosto 1992 e
 pubblicato nel febbraio dell'anno successivo, e che raccoglie, analizza e
 commenta i testi più significativi che sono alla base del pregiudizio
 antimeridionale, è impressionante tanto da farci interrogare sul tempo che
 scorre: ad esso rimandiamo vivamente i lettori che peraltro conoscono il
 pensiero di Teti, graditissimo frequentatore di queste pagine, ma
 soprattutto consigliamo la lettura di quel testo confrontandolo in
 dissolvenza con la nuova prefazione, e prestando anche attenzione alla
 bibliografia che fa storia a sé secondo la maniera degli studiosi di alta
 scuola. In essa, la prefazione, si ritrovano i motivi profondi di questo
 eterno discutere sul Mezzogiorno e sulla Calabria. Per di più in un
 messaggio di Teti a chi scrive viene riassunta in maniera esemplare la
 questione poi sviscerata nel saggio prima ricordato. Violando l'aspetto
 privato della comunicazione lo riporto di seguito:
 «Se della Calabria parlano male gli “altri”, ecco la “sindrome
 dell'assediato”. Come si permettono a scrivere male di noi?
 Se della Calabria non si parla, ecco la “sindrome del dimenticato”. Come
 mai i grandi giornali non si occupano di noi?
 Se se ne parla bene, ecco la sindrome dell'arrabbiato. Come mai non
 vengono denunciati i mali della regione?
 Se se ne parla male, ecco la sindrome del risentito, del retore della
 calabresità. Come mai non si parla delle positività, dei boschi, delle
 bellezze ecc.?
 Insomma c'è questa dipendenza, attesa, paura dello sguardo esterno. Non si
 riesce ad elaborare un cultura critica, autonoma, una soggettività sana.
 Bisogna sempre scrivere per opporsi, difendersi, distinguere, dire “sì
 però”, ma c'è anche altro ecc.».
 Direi che Teti indichi nella normalità, che è un modo di essere e di
 pensare ma per tutti noi anche un traguardo ancora lontano, la condizione
 fondamentale per togliersi di dosso tutti gli stereotipi, altrui e propri,
 che danno l'idea appunto di una straordinarietà, di un’eccezionalità e di
 un “troppo” sempre in agguato e che rischiano di trasformarsi in
 un'identità simile ad una prigione. Teti parla molto di identità e di
 ricerca e retorica identitaria ma non se ne fa irretire. Rischierebbe di
 finire nella trappola di chi ci ha dipinto e ci dipinge come una “razza
 maledetta”. Ripercorre quasi un ventennio di storia italiana e racconta
 come sia scomparsa la questione meridionale e sia nata, sostituendosi ad
 essa, la questione settentrionale e come il germe di nuovi razzismi si sia
 diffuso spesso con la complicità di ceti intellettuali e politici
 tradizionalmente avveduti. Lo slogan “Roma ladrona”, sebbene il primo
 mariuolo riconosciuto di Tangentopoli sia il milanese Mario Chiesa,
 equivale in breve a meridionali ladroni, spreconi, camorristi,
 ‘ndranghetisti e mafiosi. L'egemonia, gramscianamente parlando, è tutta
 nordica e padana, per il Mezzogiorno inizia, o ricomincia, la lunga marcia
 verso l'oblio e la vergogna. Parlare di inferiorità meridionale e sentire
 evocare Lombroso e Niceforo non irrita nemmeno, come a suo tempo accadde ai
 meridionalisti Napoleone Colaianni, Giustino Fortunato, Gaetano
 Salvemini...
 Impietosamente Teti non mette tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi
 dall'altra perché le cose si sono evolute in modo complesso: la cultura può
 aiutarci solo se siamo in grado di distinguere, separare, analizzare e
 riformulare un contesto che dia spiegazioni e risposte. E' impossibile in
 questa sede dare conto dello smontaggio pezzo per pezzo della storia di
 questi ultimi due decenni che fa Teti, ed anche dei rimandi articolati a
 personaggi all'attenzione del dibattito di questi giorni: cito solo il
 Bocca che in qualche modo legittima la Lega e il suo bisogno di inventarsi
 un'identità di fatto inesistente, e il Bocca che aspramente svela le sue
 verità su noi meridionali, che dispiacciono perché escono dalla penna di un
 grande giornalista ma che sono ben più annacquate delle cose terribili che
 i meridionali dicono tra di loro di se stessi.
 Un napoletano nel film di Troisi doveva essere per forza un emigrante,
 Teti va oltre e racconta il gioco perverso degli sguardi: «Ci presentavamo
 (mi esprimo in questo modo con disagio e senza generalizzazione e retorica
 identitaria di un “Noi” monolitico e indistinto da contrapporre a qualcuno)
 agli altri esattamente come gli altri ci hanno voluto e ci vorrebbero. E
 gli altri raccontavano di noi quello che già sapevano, quello che vogliono
 sapere. Era il tempo di assumere un diverso atteggiamento rispetto al
 passato e al presente e invece si continuò lungo la strada
 dell'autocompiacimento e dell'autoassoluzione. Un senso del noi costruito
 sulle immagini che arrivavano dall'esterno. Per contrastare certe immagini
 stereotipe spesso si finisce col negare come frutto di ostilità e di
 generalizzazione tutto quello che del Sud viene scritto».
 Razza maledetta! Ma che non sta solo da una parte e che non è fatta più
 solo di noi meridionali. Ci fu un tempo in cui la condanna toccò agli
 italiani, tutti gli italiani, che emigravano in America. Oggi ci sono i
 razzisti incolti e rozzi alla Borghezio che difendono il Nord
 dall'infezione sudista ed extracomunitaria, ma ci sono anche i razzisti
 meridionali che nelle campagne di Rosarno danno la caccia ai neri. Ci sono
 i ragazzi e le ragazze della comunità Abele che da Torino insegnano la
 legge della tolleranza, del rispetto e della solidarietà, e c'è il sindaco
 di Riace che dà lezione di accoglienza. Così come non si possono
 rimpiangere i Borbone e dimenticare il contributo dei meridionali al
 Risorgimento, e viceversa.
 Teti, e non solo, si aggrappa ai pochi segnali di speranza perché è da lì
 che occorre ripartire. Ma il messaggio è chiaro. Mettiamo da parte
 l'accetta dei giudizi sommari, rifuggiamo dall'approssimazione e dai luoghi
 comuni, sfoderiamo piuttosto le armi dell'intelligenza e della cultura per
 ricostruire correttamente le storie e la storia, evitando di cadere nelle
 trappole del razzismo e del separatismo nelle loro versioni antiche e
 recenti.
 In questo mio pezzo, che non è una recensione, c'è tanta farina del nostro
 collaboratore ma mi piace fare, spero, con essa e insieme a lui un buon
 pane domenicale, calabrese e meridionale, avvolto in una bandiera italiana.
 La normalità di cui si parlava sarà la nostra condizione quando riusciremo
 a parlare agli uomini e alle donne del Nord come italiani del Mezzogiorno e
 non ci sentiremo sotto esame anche perché l'esame intanto ce lo saremo
 fatti da soli con inflessibile rigore e immensa voglia di guardare in
 avanti senza attardarci eternamente sui limiti nostri e su quelli degli
 altri ma impegnandoci piuttosto ad eliminarli, e ricordando sempre, a noi e
 agli altri, che la razza non c'entra - la razza è un argomento solo per chi
 vuole stravolgere le regole per giustificare la propria sete di dominio -,
 ma che «le ragioni sono storiche e sociali». E queste ragioni spiegano
 anche un carattere su cui si sono soffermati molto i razzisti
 antimeridionali, quello della melanconia che «è stata utilizzata per
 costruire la psicologia del meridionale, melanconia come forma di
 autorappresentazione». Teti conclude il suo prezioso libro, che
 consiglierei come testo nelle scuole calabresi ma anche in quelle della
 Padania, con un finale misto di amaro e dolce: «Abbiamo incontrato la
 melanconia di chi si chiude in se stesso, pensa che tutto è accaduto e si
 limita a osservare le rovine esterne e interne, ma anche quella di chi
 pensa di trovarsi di fronte ad un insostenibile stato delle cose che va
 modificato e rovesciato, uno sguardo doloroso, ma non sterile, sulla
 realtà. La melanconia che porta verso l'utopia, intesa come ricerca di
 giustizia e di cambiamento». E aggiunge: «È chiaro, a questo punto, che il
 problema, se è consentito esprimersi come quando un'intera generazione
 pensava che cambiare fosse possibile, torna ad essere, come sempre, ma in
 termini del tutto nuovi e da inventare, politico». Esattamente. Con un
 piccolo codicillo: che a vent'anni da tali parole siamo ancora a questo
 punto e che forse è giunto il tempo di guardare finalmente e di nuovo allo
 stato di cose esistenti per superarlo.


Meno parole e più progetti
18/07/2011
di ENZO ARCURI
Diciamocelo, direbbe Fiorello nella gustosa imitazione del ministro La Russa, diciamocelo con grande sincerità, in Calabria basta che qualcuno dia lo spunto ed ecco undiluvio di parole, di riflessioni, di annotazioni, di suggerimenti, un vorticoso rimpallo di critiche e di adulazioni. Ammettiamolo, siamo un popolo di chiacchieroni, parliamo, parliamo di tutto e su tutti, qualche volta l'azzecchiamo, più spesso scantoniamo, comunque un esercito di grafomani a caccia di un momento di popolarità. Per carità è bene che questo accada, fa bene discutere, confrontarsi, scambiare le opinioni, è segno di sensibilità e di civismo. A condizione però che non si parli a vanvera, che non si intervenga per onore di firma, che si dicano e si scrivano cose sensate in qualche modo e comunque in grado di fare capire meglio il tema o i temi in discussione, contribuendo all'acquisizione di nuove consapevolezze e alla costruzione di reali processi di avanzamento. Non sempre questo accade, anzi spesso il confronto è fuorviante, inconcludente, funzionale a obiettivi e progetti che nulla hanno da spartire con le esigenze vere di crescita della realtà regionale. Ed invece di progetti possibili ha bisogno la Calabria che tutte le statistiche ormai consegnano alla drammatica condizione di regione povera, la regione più povera del paese, afflitta da criticità storiche, fortemente condizionata dalla prepotenza ndranghetista che, pur in presenza di importanti successi dello stato, fa sentire il suo peso asfissiante in aree sempre più vaste della regione. Una regione pesantemente colpita dalla crisi più complessiva del continente, che rischia adesso di perdere anche i pochi punti di forza faticosamente costruiti negli ultimi decenni. Da questo punto di vista la crisi del porto di Gioia Tauro è esemplare e inquietante anche per la debolezza della reazione calabrese che non è parsa adeguata alla gravità del caso né sufficientemente convincente, capace soltanto di un desolante balbettio. E qui sorge il vero problema calabrese che conferma l'impietosa analisi di Giorgio Bocca nel suo racconto della Calabria di venti anni fa, per taluni aspetti rimasta immutata (il volume è stato riproposto da Rubettino) e che in qualche modo motiva le amare riflessioni di Eugenio Scalfari nella prefazione del libro di Bocca. La questione calabrese, al di la ed al di sopra di tutti gli altri aspetti della depressione regionale, è riconducibile essenzialmente all'inadeguatezza della sua classe dirigente. Anche se ci sono oggettive ragioni storiche, in primo luogo la costante emorragia di risorse umane che hanno impoverito il tessuto civile della regione, è tuttavia indubbio che nel corso dei decenni e più acutamente nell'ultimo ventennio, si è verificato un progressivo abbassamento della qualità del ceto politico regionale. Che è diventato sempre meno capace, a livello regionale, di affrontare con determinazione i problemi dello sviluppo e della crescita e che si è rivelato a livello governativo e parlamentare sempre più debole e balbettante nel confronto difficile e complicato con il potere romano. Purtroppo sono lontani i tempi di Guarasci, Antonio Guarasci, il primo presidente della Regione, scomparso immaturamente in un incidente stradale prima della fine del mandato, di Mancini, Giacomo Mancini senior, il ministro socialista che, dopo avere sconfitto alla sanità il flagello della poliomelite, ha sconfitto, al ministero dei lavori pubblici, il secolare isolamento della regione con la costruzione dell'autostrada, e qualche anno più tardi, al ministero per il Mezzogiorno, ha imposto la costruzione a Gioia Tauro del porto diventato poi il più grande porto del Mediterraneo, ed a Sibari di un altro porto che la dabbenaggine di una classe dirigente incapace ha finora sottratto a qualsiasi ipotesi di sviluppo. Sono anche lontani di tempi di Riccardo Misasi, potente esponente della Dc che da ministro della P.I. ha adeguato il sistema scolastico regionale ed ha tenuto a battesimo l'Università della Calabria. Sono lontani anche i tempi di Dario Antoniozzi che da ministro dei beni culturali ha assegnato a Cosenza la biblioteca nazionale, il laboratorio di restauro, la ristrutturazione di Palazzo Arnone divenuto sede della sovrintendenza e di un importante museo. Oggi alla regione si litiga sul nulla, si inventano “percorsi” (mai termine fu più abusato) che non portano da nessuna parte ed a Roma la deputazione parlamentare calabrese vale quanto a scopa un due di coppa, ossia zero. E se ne vedono i risultati. Ogni anno che passa la situazione peggiora. Nonostante le apparenze, la Calabria diventa sempre più povera. Non è un caso e non sarà mica colpa di Bocca o di Scalfari o di chi tenta di fare riflettere sulle negatività per farle superare. Le colpe hanno nomi e cognomi ben individuati che è bene tenere a mente. Ma le colpe sono anche più collettive nel senso che finora è mancata, da parte di quella che viene indicata come società civile, la giusta consapevolezza dei suoi diritti di cittadinanza e quindi una doverosa e responsabile selezione della rappresentanza. Non è questione secondaria o marginale. E' la questione. Come ci suggeriscono appunto Scalfari e Bocca, che, a parte certe asprezze di linguaggio e forse anche qualche esasperazione provocata da antichi pregiudizi, aiutano comunque ad aprire gli occhi.

Niente vittimismi è solo la realtà
18/07/2011
di ANGELO CANNATA’
La casa editrice Rubbettino ha pubblicato Aspra Calabria, di Giorgio Bocca, con prefazione di Eugenio Scalfari. E’ un ottimo testo, intrigante dal punto di vista stilistico e letterario. Non esistono libri morali o immorali - diceva Oscar Wilde -. I libri sono scritti bene o sono scritti male. Lode alla Rubbettino, dunque, per la sua scelta editoriale. Quanto al dibattito suscitato dal libro devo ammetterlo è interessante e pieno di pathos (e propone molteplici punti di vista), ma sfugge, a mio avviso, il dato essenziale: si rimprovera Bocca di descrivere senza risalire alle cause del degrado della Calabria (la storia, il dato sociologico, l’unità d’Italia, la questione meridionale). Anche Scalfari sarebbe responsabile di una scarsa conoscenza della cause storiche e sociologiche che affliggono il Sud. Non è così. Mi dispiace dirlo, ma è troppo superficiale il giudizio di qualche testo che si presenta come profondo. Si ignora, per fare un esempio, che il fondatore di Repubblica, già nel secondo dopoguerra, ha pubblicato sulla Nuova Antologia un saggio sulla Destra storica e poi, dire a chi ha dialogato più volte con Ralf Dahrendorf, di trascurare la sociologia mi sembra davvero troppo. La verità è un’altra: non si vuol comprendere che Scalfari ama Bocca proprio perchè sa descrivere: Poche parole, l’incipit, e da lettore sei catturato da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo e ti sembra di leggere un romanzo con uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, tutto fantasia, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece... Invece stai leggendo il reportage di un giornalista che si è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro dove questa guerra di mafia non finisce mai. Scalfari paragona Bocca all’autore di Gomorra. Ieri leggevate Bocca - dice - oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndrangheta e camorra sono sempre lì da un secolo e mezzo. Solo che oggi, da Platì e dagli altri borghi-rifugio, gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kossovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. E’ lo stile di Bocca che cattura Scalfari. Ecco il punto: sono intellettuali che danno per acquisito il dato storico e d-e-s-c-r-i-v-o-n-o quello che vedono. Forse per questo sono molto amati. Niente storicismi, meridionalismi, vittimismi. Descrivono. E raccontano dure verità: lupi feroci o iene o faine i capi clan? Nell'aspra Calabria raccontata da Bocca queste tipologie zoologiche ci sono tutte, ma qualcosa è cambiato: il commercio della droga e il riciclaggio dei profitti ha trasformato i lupi in iene o serpenti o volpi, frequentano i partiti di governo e le banche, hanno amici potenti a Zurigo, alle Isole Vergini e nel Liechtenstein; i figli li mandano all'Università. La zoologia è cambiata ma i cuori sono sempre di tenebra. E’ la mafia imprenditrice che si lega alla politica. Mafia e politica. Dai mali della Calabria ai mali d’Italia. Sembrano problemi diversi, ma tutto si tiene: vent’anni fa stava per arrivare un’altra tempesta - ricorda il fondatore di Repubblica - un altro Tsunami sulla democrazia di questo paese. Arrivò appena due anni dopo quella inchiesta di Bocca sulla Calabria dei primi Novanta, sembrò un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell’Utri, Previti, il partito dell’amore, il contratto con gli italiani, le escort. Ma i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca. “Money money money”, un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria “meno male che Silvio c’è”. Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà, che le cose cambieranno. Che altro potremmo fare se non coltivare questa speranza? Sono stato con Scalfari tre giorni a Lecce, per presentare il suo ultimo libro. Abbiamo parlato di tante cose (è un grande affabulatore), anche della prefazione al testo di Bocca. “Pensi davvero - gli chiedo - che non ci resti altro da fare che coltivare la speranza?”. Mi guarda, se la ride sotto la barba bianca, “Ho capito - dice - a cosa stai pensando. La speranza deve essere accompagnata dall’azione. I calabresi devono trovare l’orgoglio e la forza per un riscatto civile che passi attraverso l’impegno e un’acquisizione di responsabilità. Ma adesso andiamo, tra poche ore abbiamo il volo per Fiumicino”. Impegno e responsabilità, dice Scalfari. E’ un richiamo per tutti - nessuno escluso - ad uscire dall’apatia che rende complici dell’immenso degrado del Sud. Rubbettino e Cappelli, pubblicando questo libro - amaro, inquietante, forte, ma vero - hanno dato il loro decisivo contributo. I calabresi non perdano l’occasione per riflettere e liberarsi dal vittimismo, per cominciare ad agire. Qualcosa si comincia ad intravedere: la società civile è in fermento. La protesta e l’insofferenza aumentano. Bisogna continuare. Con Sartre: “L’uomo è ciò che fa, a partire dalle condizioni date”. Bocca e Scalfari ci hanno descritto “le condizioni date”. Prendersela con i giornalisti che descrivono e denunciano è peggio di un delitto. E’ un errore. Angelo CannatàAutore di “Eugenio Scalfari e il suotempo” (Mimesis, 2010), sta curando,per Mondadori, un Meridiano dedicatoa Scalfari. E’ calabrese e vive a Roma.


Uno sguardo tutto nostro sulla Calabria
24/07/2011
di FRANCESCO TALARICO
La discussione ampia e qualificata, pur nella differenza delle posizioni, che
 si è aperta recentemente sul “Quotidiano” dopo la pubblicazione di un libro di Giorgio Bocca, che ripresenta tesi già conosciute del giornalista piemontese, ripropone, se non altro, una questione antica e purtroppo ancora attuale per la nostra Calabria. Quella dello sguardo degli altri su questa regione, di quella visione spesso alimentata da pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni, su com’è la Calabria, su come sono i calabresi, sulla presunta loro diversità, rispetto agli italiani di altre regioni. Storicamente, noi calabresi, subiamo con rassegnazione le critiche, come se dovessimo espiare colpe e peccati particolari rispetto agli altri. A volte succede che ci indigniamo, come si indigna chi ha coscienza e consapevolezza di non essere compreso. Rassegnazione e indignazione non cancellano però realtà amare, da cui bisognerebbe liberarsi, e il più in fretta possibile, con una prova di maturità collettiva, della società calabrese e della politica, per poter progettare serenamente il nostro futuro. In questo senso, l’impegno prioritario riguarda la lotta alla mafia e alla sua pervasività, in settori fondamentali come la stessa politica, l’economia, la pubblica amministrazione. In questa lotta, non ci possono essere divisioni, steccati ideologici, differenze culturali. In questa azione la Calabria intera, in tutte le sue espressioni, istituzionali, sociali e civili, deve sentirsi schierata a fianco della magistratura e delle forze dell’ordine, impegnate con successi straordinari su un fronte difficile e rischioso. Questa legislatura regionale è quella da dove dovranno giungere giorno dopo giorno segnali sempre più forti in direzione di mutamenti di comportamenti e costumi hanno sempre rappresentato un freno all’ingresso nella modernità di questa nostra terra. I molti ritardi di questa regione, sono frutto di una navigazione a vista fatta in passato e della debolezza di una politica contaminata da conflittualità, municipalismi, visioni particolaristiche. Tornando a quello sguardo degli altri, che spesso ci disturba e ci pone in condizioni psicologiche di marginalità, dobbiamo dire che la soluzione deve essere di avere uno sguardo nostro sulla Calabria, una visione concorde del nostro essere e dei nostri problemi. Se solo riuscissimo a immaginare che le differenze culturali, di tradizioni, di vicende storiche, possono diventare ricchezza se messe insieme, se sommate l’una all’altra, scioglieremmo uno dei nodi più resistenti di questa regione, sveleremmo l’enigma del “perché la Calabria è così”, come ci dice lo sguardo degli altri. Questa è la legislatura, che ha poco più di un anno di vita, in cui bisogna provarci a ricercare le ragioni e le “convenienze” dell’unità tra i calabresi. A quarant’anni dall’istituzione delle Regioni, nella ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, occorre superare le lacerazioni prodotte dal difficile processo di nascita della Regione Calabria. C’è un passato, anche doloroso di forte conflitto e di divisioni, che però ormai appartiene alla storia e non ha più ragione d’essere. Il futuro della Calabria ha bisogno di tutti e di tutto, fuorché di divisioni, di conflitti, di polemiche, di rigurgiti municipalistici, di localismi esasperanti. La Calabria non si salva se non si sta insieme. Insieme, anche per difendersi dallo sguardo degli altri, per spiegarsi meglio, per farsi capire. Per nessuno è stato mai facile spiegare e capire questa regione. Corrado Alvaro, scrittore calabrese di dignità e dimensioni europee, ma molto radicato nella mentalità e nella cultura dei suoi corregionali, cominciò una sua famosa conferenza sulla Calabria con la frase “mi fu sempre difficile spiegare la mia regione”. Eppure è proprio Alvaro ad aver scritto le cose che meglio spiegano la nostra regione. Molti grandi scrittori e giornalisti del passato e del presente hanno rinunciato a capire la Calabria e hanno cercato la via più facile della critica, a volte feroce e offensiva. Spesso, oggi, si parla del successo di molti calabresi, all’estero e in Italia. Successo di uomini e donne calabresi nelle pubbliche amministrazioni, nella ricerca, nelle attività scientifiche e nelle professioni mediche e questa è una risposta alle critiche gratuite, ai giudizi frettolose che si fanno sul “come sono i calabresi”. Ma il volto vero, non dimentichiamolo, della Calabria, è scolpito in quelle facce indurite dalla fatica e in quelle braccia che hanno contribuito, in maniera determinante, a fare dell’Italia uno dei primi paesi industriali nel mondo. E’ scolpito nei volti dei calabresi che hanno dovuto allontanarsi da affetti e luoghi dove affondavano le loro radici, per andare a cercare pane e lavoro. Pensando a loro, al loro esempio, al loro sacrificio, alla loro vita di relazioni solidali fuori dalla loro terra, dobbiamo noi oggi saper lanciare un forte messaggio di riconciliazione nella Calabria, che poi si estenda dalla Calabria verso tutto il paese, che rappresenti una risposta matura e responsabile agli egoistici messaggi che reclamano secessione e altre cose del genere. Il consiglio regionale si muoverà in direzione di questa forte esigenza di riconciliazione nella Calabria e tra i calabresi, che è alla base di qualsiasi progetto per il futuro. Il prossimo arrivo a Lamezia, in ottobre, di Papa Benedetto XVI, sarà il momento giusto, per laici e cattolici, del ritrovarsi di tutta la Calabria, in un forte progetto di riconciliazione, di unità e di rinascita. Anche nel ricordo del viaggio in Calabria del suo augusto predecessore, Giovanni Paolo II, che capì la Calabria come nessun altro, amandola e ascoltandola.
*presidente del Consiglio regionale della Calabria




3 commenti:

ruxia ha detto...

...e questi due dovrebbero rappresentare la Cultura italiota???....che tristezza...!! Menomale che ci penserà la Storia....nessuno li citerà tra 150 anni...

ruxia ha detto...

...tra 150 anni nessuno citerà questi 2....oblìo totalw....la Storia difenderà e farà fiorirel'infinita Pazienza di noi calabresi...

ruxia ha detto...

...tra 150 anni nessuno citerà questi 2....oblìo totale....la Storia difenderà e farà fiorirel'infinita Pazienza di noi calabresi...