venerdì 25 novembre 2011

Federali.sera_25.11.11. Sotto aceto anche l’Ungheria; ma lo era da anni, pur non potendo vantarsi di essere un piigs.----Quello che ci ha spinto a procedere al downgrade dell’Ungheria è l’incertezza sulla capacità del governo di raggiungere gli obiettivi di consolidamento fiscale e di riduzione del debit, si legge nella nota di Moody’s.----Germania, prezzi all'importazione: tendenziale anno +6,8%.----L'Irlanda è diventata un Paese quasi normale. Ma a pagare il conto sono stati i risparmiatori italiani, ai quali è stato rimborsato un solo centesimo ogni mille euro investiti.----Basilicata. In base ai dati forniti dalla Cia, su 150 richiedenti solo in 65 sono stati ammessi. E la vera disdetta è che, in molti casi, le domande non sono state bocciate perché il piano degli investimenti è stato giudicato inadeguato, ma per qualche inezia burocratica, o perchè le domande erano state spedite con un corriere diverso da Poste Italiane.----Sono 750mila le cartelle esattoriali in Sardegna - ha detto Gavino Sale - dobbiamo puntare all’azzeramento del debito con Equitalia e possiamo farlo dal momento che la Sardegna vanta un credito di dieci miliardi con lo Stato italiano.----Russi: sputano in aria ma pretendono di non bagnarsi.

Basilicata. In ottanta sono rimasti fuori
LA NUOVA SARDEGNA - Politica: Sardegna sull’orlo del sottosviluppo
Visco: da noi recessione più profonda che altrove
Istat. Commercio al dettaglio
Germania, prezzi import a ottobre -0,3% mese
La stangata irlandese nelle tasche europee
La crisi dell`Ue vista dalla Russia



Basilicata. In ottanta sono rimasti fuori
In totale sono stati 320 giovani agricoltori a presentare la domanda di agevolazione per il primo insediamento all’atto dell’emanazione del primo bando del Psr 2007/13. Sono state ammesse a finanziamento 240 domande (delle quali un congruo numero a seguito di ricorso). Dunque, un’ottantina di giovani agricoltori sono rimasti fuori dalle agevolazioni. Fondi che non potranno mai più richiedere. In base ai regolamenti comunitari, infatti, per poter presentare domanda di contributo bisogna essersi insediati non più di sei mesi prima della richiesta. Perciò, anche se ci sarà un nuovo bando, i giovani che sono stati esclusi adesso, non avranno più i requisiti per poter accedere. Se poi si considerano quei giovani che, oltre ad aver presentato domanda per il primo insediamento hanno anche fatto richiesta di contributo per la cosiddetta misura 121, che riguarda i finanziamenti per gli investimenti indirizzati all’ammodernamento delle aziende agricole, la situazione delle «bocciature» diventa ancora più grave.
In base ai dati forniti dalla Cia, su 150 richiedenti solo in 65 sono stati ammessi. E la vera disdetta è che, in molti casi, le domande non sono state bocciate perché il piano degli investimenti è stato giudicato inadeguato, ma per qualche inezia burocratica, o perchè le domande erano state spedite con un corriere diverso da Poste Italiane. «Fortunatamente questi errori con i nuovi bandi sono stati corretti - spiega il direttore Cia Sileo - anche se purtroppo per chi aveva già fatto domanda la giurisprudenza ha confermato l’esclusione».
Ma anche per chi ha ottenuto il finanziamento i problemi non sono finiti. I tempi lunghissimi dell’istruttoria, circa un anno e mezzo, hanno scombinato i piani a molti. Altri si sono ritrovati nella condizione di non poter richiedere il premio di primo insediamento perché, non avendo ottenuto il finanziamento della 121, non sono in grado di avviare gli investimenti. «La Regione - spiega Sileo - ha dato la possibilità di rimodulare l’investimento ma non è affatto semplice. E se quei soldi noj verranno richiesti entro la fine dell’anno finiranno nel grande calderone del disimpegno». [g.lag.]

LA NUOVA SARDEGNA - Politica: Sardegna sull’orlo del sottosviluppo
25.11.2011
Le donne dell’iRS diffondono uno studio della Sose commissionato da Cappellacci
SASSARI. Ormai la parola «crisi» la si può chiudere in un cassetto. Non è efficace, non è più pertinente quando si parla di economia in Sardegna. La nostra isola infatti è - molto più drasticamente - una regione sottosviluppata. Lo dice l’indagine realizzata dalla società per gli studi di settore Sose che, su incarico del presidente Cappellacci, ha monitorato l’evoluzione della crisi economica sarda tra il 2007 e il 2010. Ne è venuto fuori un vero disastro. L’indagine fatta dalla società creata dal ministero dell’Economia - basata sull’analisi di un campione di partite Iva di imprese sarde - rivela una realtà drammatica: rispetto alle altre regioni italiane la Sardegna nel 2010 ha registrato la maggiore riduzione del totale delle operazioni attive (-3,8 per cento) con un crollo degli investimenti che, nel caso di alcune province come quella di Carbonia-Iglesias, arriva a toccare il 73 per cento. Risultati sconosciuti alla popolazione. Ma le donne di iRS, che per due settimane hanno presidiato il palazzo di via Roma a Cagliari, sono riuscite ad avere il rapporto della società per gli studi del settore e, soprattutto, a diffonderlo. Hanno iniziato dalla prefettura di Sassari e proseguiranno con Nuoro e Cagliari. «La situazione è tragica ma a Roma sembra non importare - hanno spiegato - Di fronte a questi risultati hanno risposto picche. Silenzio totale». E così, ieri mattina, il famoso camper è approdato in piazza d’Italia. Con in testa il leader Gavino Sale, le donne hanno incontrato il viceprefetto di Sassari Salvatore Serra. A lui è stato consegnato il resoconto dell’indagine: ora la documentazione verrà spedita al ministero degli Interni. Il presidente Ugo Cappellacci lo scorso 8 novembre aveva inoltrato l’esito del monitoraggio al governo accompagnandolo con una lettera nella quale chiedeva esplicitamente che venissero «avviate le procedure per il riconoscimento del territorio regionale come area di crisi» e perché si provvedesse «secondo quanto previsto dall’articolo 51 dello statuto sardo alla sospensione almeno annuale dell’applicazione di tutte le norme relative alla riscossione volontaria e coattiva delle imposte, dei contributi e dei relativi oneri accessori che gravano sulle imprese sarde». Un freno, in sostanza, a Equitalia, un po’ di ossigeno per i piccoli imprenditori, gli artigiani, i tartassati afflitti dalle cartelle esattoriali. D’altronde - lo hanno ribadito più volte Bettina Putzolu e Claudia Aru - oramai il caso Sardegna sta diventando una vera e propria emergenza sociale. «Cresce il numero dei suicidi, è un dato di fatto. Nel nostro camper sono venute madri di famiglia disperate, minacciavano di ammazzarsi. Hanno perso la speranza, hanno case e terreni pignorati, nessuna prospettiva per il futuro». La Sose ha delineato un quadro che non può essere ignorato dal governo nazionale. Elenca anche i casi estremi, ossia i settori maggiormente interessati dalla crisi: al primo posto figurano gioielleria e oreficeria, seguono gli intermediari del commercio di macchine, impianti industriali, navi e aeromobili, macchine agricole, macchine per ufficio e poi accessori per abbigliamento e il commercio di motocicli e ciclomotori. «Su 160mila aziende esistenti in Sardegna - ha spiegato la Aru - 80mila sono iscritte al ruolo, 2350 sono state dichiarate fallite e a dicembre ne falliranno altre 8mila». Lacrime amare per piccoli imprenditori e commercianti. «Sono 750mila le cartelle esattoriali in Sardegna - ha detto Gavino Sale - dobbiamo puntare all’azzeramento del debito con Equitalia e possiamo farlo dal momento che la Sardegna vanta un credito di dieci miliardi con lo Stato italiano». «Basta con questa illegalità nella gestione del debito, basta soprattutto ai tassi usurai nell’applicazione delle more» aggiungono Bettina Pitzolu, Claudia Aru e Nello Cardenia. Ora non resta che attendere. «I prefetti delle province sarde faranno da intermediari con il governo - dice iRS - Dinanzi a un simile disastro chiediamo interventi concreti e immediati».

Visco: da noi recessione più profonda che altrove
 "I salari di ingresso dei giovani sui livelli di dieci anni fa"
Catania, 25 novembre 2011 - "La recessione che ha colpito quasi tutti i paesi avanzati nel 2008-09 è stata da noi più profonda che altrove". La diagnosi è del governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, secondo cui "i problemi economici che ci riguardano sono solo in parte, però, la conseguenza della grande recessione mondiale". Hanno invece, dice intervenendo al XXX congresso nazionale dell'Aimmf, "origini lontane, affondano le radici nei caratteri strutturali della nostra economia; i problemi finanziari di oggi", sottolinea il numero uno di via Nazionale, "risentono delle politiche di bilancio pubblico seguite in anni passati. Non ci si può illudere", rileva ancora Visco, "che interventi di natura macroeconomica siano in grado di ovviare a queste carenze".

GIOVANI E LAVORO - "I salari di ingresso nel mercato del lavoro sono oggi in termini reali pari a quelli di alcuni decenni fa". Secondo Viscoi "è ancora scarsa la capacità del sistema produttivo italiano di valorizzare adeguatamente le risorse umane". Intervenendo al XXX congresso dell'Aimmf , il numero uno di Palazzo Koch ha sottolineato che "chi si affaccia oggi sul mercato del lavoro sembra escluso dai benefici della crescita del reddito occorsa negli ultimi decenni". La maggiore flessibilità introdotta nell'ultimo decennio, ha aggiunto Visco "ha certamente reso più agevole l'assorbimento della disoccupazione dai livelli molto elevati della metà degli anni Novanta", ma "assieme con la protratta fase di moderazione salariale" può anche "aver indotto le imprese, specialmente quelle meno efficienti, a rinviare la realizzazione di adeguati investimenti in ricerca e sviluppo e l'adozione di tecnologie avanzate".

I CONTI PUBBLICI - "L'acuita tensione sui mercati finanziari negli ultimi mesi ha reso precario l'equilibrio'' del debito pubblico italiano assicurato da bassi tassi di interesse e interventi per riequilibrare le finanze che consentiva di "l'onere di un elevato stock di debito''. ''Per un riequilibrio strutturale e duraturo'' dei conti pubblici - dice Visco - "è necessario che il paese torni a crescere''. Secondo il governatore gli interventi adottati d'estate "miglioravano i conti ma non erano sufficienti''.

LA CRESCITA - Secondo il governatore "innalzare il potenziale di crescita richiede interventi ad ampio spettro; tra questi, una riforma degli istituti di governo dell'economia per stimolare l'attività d'impresa e l'inserimento durevole nel mondo del lavoro, soprattutto delle donne e dei giovani''. Visco ricorda come siano "note da tempo" le aree di intervento "più concorrenza, in particolare nei settori dei servizi protetti; un più ampio accesso al capitale di rischio, soprattutto per le imprese innovative; una regolamentazione del mercato del lavoro e un sistema di protezione sociale che, agendo congiuntamente, favoriscano la riallocazione delle risorse umane verso gli impieghi più produttivi; una giustizia civile più efficiente''. ''Vi è pero' - aggiunge il governatore - un ulteriore punto, almeno importante quanto i precedenti: l'aumento della dotazione di capitale umano del nostro paese''.

Istat. Commercio al dettaglio
A settembre 2011 l'indice destagionalizzato delle vendite al dettaglio (valore corrente che incorpora la dinamica sia delle quantità sia dei prezzi) ha segnato un calo dello 0,4% rispetto ad agosto 2011. Nella media del trimestre luglio-settembre 2011 l'indice è diminuito dello 0,6% rispetto ai tre mesi precedenti.
Nel confronto con agosto 2011, le vendite di prodotti alimentari diminuiscono dello 0,2% e quelle di prodotti non alimentari dello 0,4%.
Rispetto a settembre 2010, l'indice grezzo del totale delle vendite segna un calo dell'1,6%. Le vendite di prodotti alimentari aumentano dello 0,7%, mentre quelle di prodotti non alimentari scendono del 2,5%.
Le dinamiche delle vendite per forma distributiva registrano, nel confronto con il mese di settembre 2010, un lieve aumento (+0,2%) per la grande distribuzione e una significativa diminuzione (-2,8%) per le imprese operanti su piccole superfici.
Nei primi nove mesi del 2011, rispetto allo stesso periodo del 2010, l'indice grezzo diminuisce dello 0,7%. Le vendite di prodotti alimentari segnano un incremento dello 0,1% e quelle di prodotti non alimentari una diminuzione dell'1,2%.

Germania, prezzi import a ottobre -0,3% mese
I prezzi all'importazione tedeschi sono scesi dello 0,3% su base mensile a ottobre, dopo il +0,6% di settembre, per un tendenziale anno di +6,8%. Lo annuncia l'ufficio federale di statistica. I dati resi noti oggi divergono leggermente dalle attese di un consensus per un -0,2% su mese e +6,9% su anno.

La stangata irlandese nelle tasche europee
Mentre tutti i Paesi d'Europa la scorsa estate entravano nel vortice della speculazione, esiste uno Stato che proprio dalla scorsa estate è riuscito a fare pace con i mercati: l'Irlanda. Se il 18 luglio scorso i titoli di Stato di Dublino pagavano sul mercato un tasso d'interesse 12,20 punti percentuali più elevato rispetto a quello dei Bund, ieri lo spread risultava sceso a 704 punti base. Insomma: l'Irlanda, mentre l'Europa finiva nella bufera, dimezzava lo spread.
Diventava un Paese quasi normale, dopo essere stato quasi come la Grecia fino a pochi mesi prima. Un miracolo? Niente affatto. Per raggiungere questo risultato, l'Irlanda ha messo nei guai le famiglie di mezza Europa. A partire da quelle italiane: ha effettuato una ristrutturazione delle obbligazioni delle sue banche, facendo in modo - pur in maniera legale - che ai risparmiatori venissero annullati i risparmi.
E che alle banche venissero annullati in parte i debiti. Oggi le banche irlandesi hanno dunque risolto quasi tutti i problemi. L'Irlanda è diventata un Paese quasi normale. Ma a pagare il conto sono stati i risparmiatori italiani, ai quali è stato rimborsato un solo centesimo ogni mille euro investiti. Se questa è l'Europa unita...

La scure di Moody's sull'Ungheria. Rating è ora junk
Roma - Dopo 15 anni l’Ungheria perde il suo rating di "investment-grade" (titolo degno di investimento), con il governo che ha richiesto aiuto al Fondo Monetario Internazionale per aumentare la fiducia sul paese, il più indebitato tra quelli dell’est Europa.
 Moody’s Investors Service ha tagliato il merito di credito di un punto, portandolo da Baa3 a Ba1, il livello più alto tra quelli "junk", spazzatura. Il paese aveva ottenuto il merito "investment-grade" nel 1996. Standard & Poor’s e Fitch ad ora mantengono il giudizio più basso di investimento.
 "Quello che ci ha spinto a procedere al downgrade dell’Ungheria è l’incertezza sulla capacità del governo di raggiungere gli obiettivi di consolidamento fiscale e di riduzione del debito", si legge nella nota di Moody’s. "L’ultima richiesta di assistenza dall’Ungheria al Fmi e all’Unione europea, evidenzia le difficoltà nei finanziamenti incontrate dal paese".
 Negli ultimi tre mesi il governo ha annullato due vendite di debito e ridotto le dimensioni di altre otto aste. Il 17 novembre il governo guidato dal Primo ministro Viktor Orban aveva richiesto in via precauzionale "una possibile assistenza finanziaria" al Fondo Monetario Internazionale, assistenza che però non prevedeva l’accettazione di nessun credito, ma una sorta di "assicurazione" in modo da accrescere la sicurezza degli investitori, stando alla nota sul sito del ministero dell'Economia ungherese.

La crisi dell`Ue vista dalla Russia
25 novembre 2011
Stanislav Mashagin, esperto militare per Ria Novosti
Le situazioni economiche disastrose di Grecia e Italia minano la sopravvivenza dell`Unione Europea che si ritrova senza denaro e senza accordi. Qual è la soluzione?
Per orientarsi nei futuri scenari degli eventi europei è necessario soffermarsi sulle peculiarità del sistema economico greco. La Grecia è, oggettivamente, uno degli anelli più deboli dell’Unione Europea, per la sua scarsa capacità produttiva e la carenza di risorse naturali. Nel sistema economico greco, che per una fetta consistente, circa il 50%, è fatto di terziario, e soprattutto di trasporti marittimi – settore che include il trasporto internazionale di merci e il turismo straniero -  l’industria e l’agricoltura si sono sviluppate grazie principalmente al sostegno statale e agli investimenti esterni e stranieri. A partire dal 1960, complici una serie di fattori, non ultimi l’attrazione di capitali esteri e l’impulso dato dalla politica statale alla costruzione di grandi imprese industriali nonché l’incremento del commercio estero, la Grecia si è trasformata in uno Stato agrario-industriale.
In tal modo, il sistema economico greco è stato foraggiato “dall’alto”, il che ha creato terreno fertile per il proliferare della corruzione che si è rivelata un fattore frenante dello sviluppo dell’intera economia del Paese. Proprio la corruzione ha provocato, da un lato, un aumento degli investimenti statali e della spesa pubblica e, dall’altro, una riduzione degli investimenti di capitale straniero e privato. Colpevoli una cattiva legislazione e un malcostume capillare,  la Grecia ha conquistato la fama di essere “il Paese dell’Unione Europea con il minor appeal per gli investitori”.
A tutt’oggi lo Stato detiene un ruolo rilevante nell’economia, possedendo il 77 % di Banca agricola greca e il 34 % di Banca postale e bloccando e controllando i pacchetti azionari, attraverso il monopolio della produzione e distribuzione dell’energia elettrica e della telefonia fissa. Inoltre, risultano di proprietà dello Stato anche la società del gas Depa con la società di gestione reti e infrastrutture Desfa. Infine, il governo detiene anche il controllo dei porti commerciali e il monopolio dei giochi d’azzardo con Opap Sa, nonché del mercato immobiliare.
La ricerca di una via d’uscita da questa complessa situazione apparirerebbe un compito noioso persino per uno studente del secondo anno della Facoltà di Economia. Basterebbe vendere i pacchetti azionari statali, ridurre la spesa pubblica, rafforzare le istituzioni, migliorare l’apparato legislativo o perlomeno affrontare il problema di una corruzione che ha superato ogni limite, riformare l’economia sommersa ed eventualmente il sistema fiscale. Bisogna che produrre e lavorare in Grecia diventi vantaggioso, solo così si potrà ridurre il debito. Vi ricorda forse qualcosa? La Grecia è un Paese ricco, ma non possiede come la Russia il petrolio, ed è perciò costretta ad  attuare dei cambiamenti immediati.
L’incapacità delle autorità greche di controllare la situazione  ha lasciato disarmati gli ottimisti. Senza un intervento diretto dell’Unione Europea il Paese non potrà sfuggire al default e al collasso economico. La Grecia perderà almeno per due anni l’accesso al mercato dei capitali. Le riforme non saranno attuate tanto in fretta.

E l’Italia?
Per la complessa situazione italiana potrebbe non esservi altra scelta che l’uscita dall’euro e il ritorno alla moneta nazionale, la lira, anche se ciò dovesse portare al crollo dell’unione economica e monetaria, scrive sulle colonne del Financial Times Nouriel Roubini, consigliere economico del presidente degli Stati Uniti e insigne economista. Il tasso di rendimento dei titoli di Stato ha superato ogni limite immaginabile e compromette la possibilità di ottenere prestiti sul mercato, determinando la necessità di un’immediata ristrutturazione del debito pubblico italiano; mentre si parla di un Paese la cui economia è “troppo grande per farla fallire o per essere salvata”.
Il default o l’annullamento di una parte del debito consentirebbe di ridurre l’annoso onere, ma non di risolvere i tanti problemi dell’economia italiana: corruzione, deficit delle partite correnti, insufficiente competitività del sistema economico, rallentamento della crescita del Pil e dell’attività  economica.
Il default dell’Italia, o in altri termini, l’incapacità del Paese di ripagare i debiti, seppure parzialmente, non può essere evitato senza un intervento diretto dell’Unione Europea.

Nell’Eurozona né denaro, né accordi
L’Eurozona sta vivendo simultaneamente tre crisi: la crisi bancaria, la crisi finanziaria e quella del mercato delle obbligazioni.
È proprio tale complessa situazione economica a determinare delle contraddizioni le cui conseguenze hanno effetti anche sul piano politico. I singoli Paesi all’interno dell’Eurozona hanno posizioni diversificate e la loro politica rispecchia una visione particolaristica, e non l’interesse delle nazioni; proprio da ciò scaturirebbero, a detta di Soros, tutti i conflitti.  
A mio parere, l’Eurozona è stata costruita fin dalle origini su un conflitto di interessi. Alcuni Paesi come Germania, Francia, Olanda, possedendo un’economia forte,  possono contare in Europa su un enorme mercato di consumo, pari al 17% dell’intero mercato mondiale, ma bisogna domandarsi chi è che acquista. Oltre ai consumatori stabili del mercato mondiale, con l’introduzione dell’Eurozona, sono comparsi nuovi consumatori nei Paesi dipendenti dalle importazioni, che non sono in grado di produrre autonomamente beni e servizi per il proprio fabbisogno, come Grecia, Portogallo, Italia, Spagna, Irlanda e i paesi dell’Europa Orientale. Ma come si acquista? Si acquista in denaro, investito sui mercati finanziari. E tale sistema sembrava potesse durare all’infinito.
Ma a questo mondo niente dura all’infinito. Non si parla di denaro anonimo, bensì di denaro proveniente dalle banche francesi, dalle case automobilistiche tedesche, dalle aziende agricole olandesi. Il cerchio si chiude. Io vendo e tu compri; e se non hai mezzi, compri a credito.
Per la soluzione di questi complessi problemi, l’Eurozona dovrebbe in teoria possedere un’"arma micidiale",  la riserva di liquidità; un’arma che potrebbe impedire la caduta dell’Italia, della Grecia e di altri Paesi nell’insolvenza.
Ma l’Europa non possiede una simile riserva. Germania e Francia hanno i loro problemi e tutto il denaro viene convogliato sulle misure da adottare per trovare una soluzione alla gravità dei problemi. Le soluzioni possibili, ossia emissione di eurobond, emissione aggiuntiva di euro o di moltiplicatori finanziari non sono praticabili a causa della posizione della Germania e delle difficoltà di trovare un accordo all’interno dell’Unione Europea. Germania e Francia non intendono più standardizzare il problema differendo la soluzione “a un remoto futuro”, né deprezzare l’euro e pagare di tasca propria i debiti del “vicino di banco”.
Ogni Paese membro dell’Eurozona deve rispettare le restrizioni economico-finanziarie e i rigidi parametri imposti, inclusi un tasso di  inflazione non superiore al 3% e un indice del debito pubblico non superiore al  100%  del Pil, pena la privazione automatica del diritto di emettere valuta in euro dal trimestre successivo al rendiconto.
L’esito dovrebbe essere il ritiro dall’Eurozona, ma non dall’Unione Europea, innanzi tutto della Grecia, e forse, a seguire, a distanza di tre mesi, di Portogallo, Spagna, Irlanda e, da ultimo, dell’Italia.

Conclusione
La variante più praticabile appare quella di un consolidamento dell’Euronucleo, mediante una politica economica e fiscale unitaria che aggreghi la minoranza dei Paesi sani. Solo l’istituzione di un’eurofederazione unitaria sulla base di Germania, Francia e dei Paesi del Benelux può evitare il rischio del collasso.
Ma si tratta di un cammino arduo, minato dai nuovi limiti imposti dalla sovranità nazionale; un cammino che quasi certamente verrà intrapreso soltanto da pochi Paesi dell’Unione Europea. Così il processo di  federalizzazione dell’Europa appare compromesso dallo sfaldamento dell’Unione Europea.

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