martedì 23 novembre 2010

23 Novembre 1980. L'apocalisse. Poi nulla fu come prima.


di MIMMO SAMMARTINO
La polvere densa che stagnava nell’aria, le crepe nei muri, le macerie, le pietre. I pallori nei volti e gli occhi di spavento. La gente in fuga dalle case in cerca di scampo. Di una coperta per ripararsi dal freddo. Di un posto per dormire. Magari stretti in un’automobile. Magari come profughi in un ricovero di campagna di un amico. Sotto un riparo, anche precario, purché passato indenne dai sussulti feroci della terra. Una rovina del genere nessuno poteva ricordarsela. Forse soltanto i vecchi. Ma non per un terremoto.

Una ferita del genere rimandava ai giorni dei bombardamenti. Quelli che, alle due della notte, e poi di nuovo intorno alle dieci del mattino, il 9 settembre del 1943 avevano ridotto in poltiglia un pezzo della città di Potenza. Quando rione Santa Maria venne travolta dalla furia delle bombe il giorno dopo in cui la gente aveva festeggiato la fine della guerra. Quando il direttore Concetto Valente fu visto aggirarsi sotto le travi pericolanti del «suo» museo, ridotto in poltiglia, come un fantasma. Ma alle 19.34 del 23 novembre 1980 non c’era stata la guerra. Eppure il mondo era cambiato lo stesso. Era cambiato in novanta secondi nelle città e nei paesi della Basilicata come se fossero trascorsi secoli.

Le case che si erano piegate su stesse, le crepe nei muri, i palazzi sventrati, tagliati di netto come se fossero stati attraversati dalla lama di un coltello. E, sotto quelle pietre, i morti, i sepolti vivi, le cose di ogni giorno, i ricordi, i giocattoli dei bambini, le fotografie sbiadite. Sotto quei detriti c’era chi aveva lasciato tutto.
Alle 19.34 a Balvano il parroco don Salvatore Pagliuca stava ancora celebrando la messa della domenica sera. Una domenica che era stata troppo calda per mostrarsi coerente con la stagione. E c’era chi, dopo il disastro, ha giurato di aver avvertito un inspiegabile calore salire dalle crepe della terra. Nella chiesa madre di Balvano c’era un coro di bambini che accompagnava le parole del celebrante e le preghiere dei fedeli. Avevano voci di angeli quei bambini che interruppero di colpo il loro canto quando, prima di riuscire a capire, videro cedere improvvisamente il frontone, i pezzi di controsoffittature, le navate. Udirono quel boato che somigliava a un ruggito spaventoso e che, dopo che l’hai sentito una volta, ti resta impresso nell’anima per sempre.

C’erano intere famiglie in quella chiesa e il parroco che, per un qualche miracolo uscì illeso dall’inferno, gridò il suo strazio all’Italia. Raccontò, fra i singhiozzi, il disastro al telefono della redazione giornalistica della Rai di Basilicata. Il caporedattore dell’epoca, Mario Trufelli, a poche ore dalla tragedia, si recò fra le macerie di Balvano per raccontare com’era fatta la fine del mondo. Nel posto in cui c’era stata la chiesa, vagava il padre della piccola Rosetta che cercava la bambina fra pietre e calcinacci. Almeno il corpo. Per poter cancellare ogni residua speranza di miracolo. Per poter avere la certezza che sua figlia non stesse soffrendo ancora sotto quei crolli.

Così, in versi intensi, Trufelli raccontò quel dolore: «Rosetta ha la faccia di cera / la bambina senza gloria / minuscola memoria / nell’inferno di Balvano...».

Sotto quelle pietre c’era Antonella Di Lilla che allora aveva soli 11 anni e, insieme a sua sorella Enza, di due anni più grande, cantava nel coro della chiesa. Si trovava poco distante dall’altare quando i muri tremarono. Quando vide le pietre cedere, sgretolarsi, sfarinarsi, precipitare addosso. Poi per lei tutto si fece nero. Antonella perse i sensi. Al suo risveglio si ritrovò sepolta viva: udiva tutt’intorno un gran trambusto ma, quando provò a rialzarsi per scrollarsi la polvere di dosso, per andare a respirare aria pulita, si accorse di essere intrappolata sotto i calcinacci. Accanto a lei c’erano altri bambini sepolti. Ma alcuni avevano già gli occhi spenti. Sua sorella Enza era fra loro. Poi sentì voci farsi più vicine. Si accorse di mani che spostavano le pietre e i detriti. Qualcuno la raccolse e la riportò nel mondo dei vivi. Ma quel viaggio nella morte, anche oggi che ha 41 anni e una famiglia, non ha potuto più dimenticarlo. Qualcosa è rimasto sempre lì, accanto a sua sorella Enza e ai sessantasei bambini che, sotto le pietre cadute della chiesa di Balvano, quella notte si fecero angeli.

Nulla fu più lo stesso dopo quel 23 novembre 1980. Anche per il Paese che, dopo qualche giorno di incredulità, si strinse attorno ai dolori e ai lutti. Cambiò anche la politica. Il presidente Sandro Pertini processò il governo in diretta tv accusandolo per i ritardi nei soccorsi. Enrico Berlinguer (Pci) abbandonò definitivamente la linea del compromesso storico per passare all’alternativa. Si cominciò a fare qualche conto e ne venne fuori un bilancio di guerra: fra le macerie della Basilicata e dell’Irpinia erano morte 2.735 persone, c’erano stati 8.848 feriti, oltre trecentomila avevano perduto un tetto. Intere famiglie avevano visto il terremoto prendersi, in novanta secondi, tutto quello che avevano costruito. Dopo quel sussulto, erano rimasti uomini e donne senza più nulla. Allora l’Italia intera sentì il dovere dell’abbraccio fraterno. La protezione civile, prima di essere pensata come istituzione organizzata (fu con l’allora commissario straordinario Giuseppe Zamberletti che mosse i suoi primi passi) si nutrì dello slancio di una solidarietà umana che unì uomini del Nord e uomini del Sud. Senza differenza. Era il dolore che li aveva fatti sentire vicini. Cominciarono così i giorni interminabili del freddo nell’inverno del 1980 e ‘81. Giorni che il popolo senza casa trascorse prima nelle tende, poi dentro le scatole di latta dei container, infine nei prefabbricati di legno. Una lenta sofferenza confortata dalla speranza di un riscatto. Di una rinascita. La promessa di una ricostruzione che avrebbe potuto e dovuto avvenire con celerità per far risorgere città, paesi, comunità.

Dopo trent’anni e un finanziamento statale che, in Basilicata, ha raggiunto i due miliardi e 588 milioni di euro (per i nove paesi del «cratere», i 63 «gravemente danneggiati» e i 59 «danneggiati »), la media della ricostruzione edilizia ha toccato l’85 per cento del totale. Servirebbero altri 600 milioni, dicono, per finire. E, per la reindustrializzazione (che avrebbe dovuto assicurare nuovo sviluppo e lavoro), le cose sono andate anche peggio: su circa 900 aziende programmate, dopo fughe, fallimenti e crisi, ne sopravvivono una trentina. Dei 6mila posti di lavoro promessi, ne sono rimasti 1600.

La notte del 23 novembre 1980 a Muro Lucano (Potenza), uno dei centri devastati dal sisma, nacque una bambina. Vollero chiamarla Speranza perché era la prima vita che arrivava dopo la devastazione. Oggi Speranza ha trent’anni e lavora come cameriera di sala, emigrata in Emilia Romagna.

Speranza, nata nella notte più buia
POTENZA – Lei si chiama Speranza, è l'ultima di sette figli, e per lavorare è dovuta emigrare al Nord; la sua, in questo caso, non è solo una delle tante storie del Mezzogiorno, ma il nome che porta e il suo particolare compleanno raccontano insieme uno dei momenti più drammatici della Basilicata e un sentimento collettivo di rinascita dalla tragedia: Speranza nacque nella notte che seguì il terremoto del 23 novembre 1980, a poche ore da quella terribile scossa. La sua storia la raccontano in molti, e spesso «molti – ci tiene a precisare con un pizzico di ironia la stessa Speranza - me la raccontano ogni volta che spengo le candeline».

La famiglia Pepe abita a Muro Lucano (Potenza), uno dei nove Comuni del «cratere» lucano, ossia l’area più devastata dal sisma. Mamma Lucia ha già messo al mondo sei figli (tre maschi e tre femmine), e poco dopo la terribile scossa del 23 novembre ha le prime doglie. A Muro la gente è in strada, terrorizzata e accampata nelle automobili o nelle campagne. E il freddo, quella notte, era di quelli che ti entrano nelle ossa, specie a 700 metri sul livello del mare e a un mese da Natale. Non è possibile partorire in casa, moltissime sono gravemente danneggiate. Così come non è consigliabile raggiungere l'ospedale di Potenza. Anche perchè nessuno sa quale sia la situazione nel capoluogo lucano e negli altri centri della Basilicata. La narrazione di quelle ore, ovviamente, Speranza la racconta per «sentito dire».

Ma l’attuale sindaco di Muro Lucano, Gerardo Mariani, quella notte se la ricorda benissimo. Perchè fu lui (all’epoca vicesindaco di 42 anni) a occuparsi di quella donna incinta: «Mi raggiunse un mio carissimo amico - dice Mariani con un pizzico di commozione – chiedendomi come risolvere la situazione, e allora decidemmo di portare Lucia al campo sportivo, dove sapevo che c'era già un tenda della Marina Militare».

I primi soccorsi, fortunatamente, erano già arrivati a Muro Lucano, nonostante il freddo e le strade poco praticabili. Mariani ha a disposizione un motocarro, e con quello porta la donna fino al campo sportivo. Lì trovano un maggiore della Marina, Leone Carucci, che fa partorire Lucia senza particolari problemi. È l'una e trenta del 24 novembre 1980, e quella bambina è la prima nata in una notte di tragedia. I presenti lo sentono come il primo segno di una speranza che deve andare oltre le macerie. E quello deve essere il nome da affidare alla piccola. Speranza, probabilmente non festeggerà il suo trentesimo compleanno in Basilicata. Scherzando, ammette che «difficilmente qualcuno si dimentica di farmi gli auguri a Muro Lucano».

Confessa di «non aver ancora ricevuto regali per il suo trentesimo compleanno», anche perchè quest’anno vedrà le commemorazioni in televisione, perchè attualmente si trova in Emilia-Romagna per lavoro. È una cameriera di sala, e si augura di poter trascorrere la stagione invernale negli hotel del Trentino: «Per me – spiega senza problemi la giovane lucana - significherebbe altro lavoro». E dopo 30 anni, mentre la ricostruzione in Irpinia e in Basilicata è stata quasi completata, questa è ancora la vera speranza di tanti.

3 famiglie divise dal crollo di una chiesa: una distrutta, l'altra rinata
BALVANO (POTENZA) – C'è un prima e un dopo, c'è una fine ma anche un nuovo inizio: a Balvano (Potenza) il terremoto del 23 novembre 1980 ha segnato uno spartiacque nella storia e nella vita di tutti, perchè quella sera, in questo piccolo paese del Potentino, il crollo della Chiesa madre causò la morte di 66 persone, la maggior parte bambini che erano all’ultima Messa della domenica (in totale in paese i morti furono 77). In Basilicata, la “foto” simbolo della tragedia è uno scatto della mattina dopo, quando mariti, padri, fratelli e figli disperati cercavano sotto le macerie mogli, figlie, sorelle e madri.

La vecchia chiesa di Balvano non c'è più, è stata ricostruita nello stesso luogo: all’interno, c'è uno spazio dedicato alla commemorazione. Una foto ricorda che papa Giovanni Paolo II due giorni dopo il terremoto arrivò qui per portare il suo conforto: “Voi pregate con la vostra sofferenza”, disse a chi non riusciva a spiegarsi perchè 66 persone erano morte in una Chiesa, dove erano andate proprio per pregare. E poi c'è una lapide con i nomi dei morti nella chiesa: 66 nomi, 66 storie.

Marinella Bovino era nata nel '68, aveva 12 anni, era figlia unica di genitori “adulti”, nelle sue poesie, prima del terremoto, parlava delle stelle: “Era – ricorda oggi Maria Scarfiglieri, 42 anni, insegnante di matematica in una scuola superiore di Potenza – la più brava della classe. Marinella era tanto intelligente e l’educazione che i suoi genitori le davano giorno per giorno la portava a studiare tanto. Ma lei non era solo studio e libri; ad esempio non potrò mai dimenticare i pomeriggi passati a giocare a casa di Marinella, nel suo cortile. Per caso, per semplice caso – si intristisce la sua amica Maria – quella sera io non ero in chiesa con Marinella, nel suo stesso banco: ero andata alla Messa precedente”.

Il boato, terribile, il crollo della chiesa e i sogni di Marinella svanirono sotto un’infinita nuvola di pietre e polvere. A lei fu intitolata la scuola media del paese, costruita con la raccolta fondi del settimanale “Oggi”, ma poi l’accorpamento con l'istituto di Baragiano (Potenza) e l’intitolazione a Giovanni Falcone hanno fatto sì che anche il suo nome fosse cancellato. Perchè con Marinella è morta tutta la sua famiglia, di “crepacuore”, come si dice al Sud. La madre non riuscì mai più a ritrovare lucidità, il padre, postino e persona mite, ricordano in paese, morì poco dopo; la famiglia Bovino non esiste più. Il terremoto ne ha scritto la fine.

Ha invece un dopo e un nuovo inizio la vita di Vincenzo D’Alessandro. Lui, nato nel 1941, come tanti lucani, il 23 novembre 1980, si trovava in Germania, faceva l’operaio. Due giorni dopo, richiamato a Balvano dalle angoscianti notizie, si trovò di fronte alla peggiore verità che si possa raccontare a un uomo. Nella chiesa erano morti sua moglie Antonietta, 34 anni, e i suoi quattro figli, Cecilia, undici anni, Costantino, sette, Salvatore, cinque, e Antonio, solo tre anni.

Anche quella famiglia aveva avuto una fine. Ma Vincenzo non ha mollato, ha ripreso a fare il contadino a Balvano e si è risposato una decina di anni dopo. Oggi ha 69 anni, continua a lavorare nel suo terreno, in paese gira e piedi perchè non ha mai preso la patente. Tra un pò lo faranno Patrizia e Antonella, 17 e 16 anni, le sue figlie, brave e giovani studentesse di Balvano, nuovo simbolo di un paese che non potrà mai dimenticare quella domenica sera.

«Io seguita dalla morte e salvata da una mano generosa»
BALVANO (POTENZA) – «Sentii un boato, il soffitto della chiesa venne giù, uccise decine di persone, io persi conoscenza. Quando ripresi i sensi, mi ritrovai con il corpo imprigionato tra le macerie, dalle quali emergeva solo la testa. Ero una sepolta viva. Sono rimasta così per alcune ore, sospesa tra la vita e la morte. Poi sono arrivati i soccorritori, sono riusciti a salvarmi ed ho saputo che mia sorella era morta accanto a me»: ha un ricordo indelebile di quella tragedia Antonella Di Lilla, di 41 anni, di Balvano (Potenza), moglie dell’ex sindaco del paese Ercole Trerotola, sopravvissuta (“per miracolo”, dice) al crollo parziale della Chiesa Madre del paese, causato dal disastroso terremoto del 23 novembre 1980, del nono grado della scala Mercalli all’epicentro.

Quella sera nella chiesa di Balvano si stava celebrando la messa: sotto la spinta violentissima dell’onda sismica cedettero il frontone del tempio e parte delle controsoffittature delle navate centrale e laterale; le macerie travolsero i fedeli, morirono 66 persone, la maggior parte delle quali bambini e ragazzi. Antonella, che allora aveva 11 anni, era con loro, c'era anche la sorella Enza, aveva 13 anni. «Facevo parte del coro - racconta – ed ero nei pressi dell’altare. Ricordo solo un sordo boato, poi più nulla, perchè sono svenuta. Quando mi sono riavuta, ho visto un gran trambusto, e, istintivamente, ho provato a fuggire. Ma mi sono resa conto di non riuscire a muovermi. Ero intrappollata con il corpo, e, tuttavia, lucidissima, perchè la testa emergeva dalle macerie. E’ stato allora che ho visto la morte, in diverse facce: quella che aveva già vinto, avendo preso tante persone, compresa mia sorella; e quella che mi inseguiva, che voleva anche me: come un felino che ha atterrato la preda e che aspetta solo di darle il morso letale. Sei impotente. Sono rimasta in quella condizione per alcune ore, più lunghe dell’eternità. Poi ho sentito urlare, ho visto alcune persone del paese: uno spostava delle tavole di legno, un altro dei pezzi di intonaco, un altro ancora azionava freneticamente una vanga. Mi hanno raggiunta e liberata e sono stata affidata alle cure di un medico».

Impossibile, per Alessandra, riferire cosa effettivamente pensò in quei momenti. «Non ti accorgi di nulla, sei nella mani di Dio. E’ molto di più quel che ti resta: con il tempo pensi e rifletti. E allora metti a fuoco che sei stata strappata alla morte, qualcuno ha scacciato via quel felino che ti aveva atterrato ed era sul punto di ucciderti».

L' effetto della tragedia “resta per sempre nell’animo” di un superstite, dice Alessandra. «Nei giorni successivi al terremoto – racconta – ogni rumore, anche minimo, mi gettava nel panico e nell’angoscia. Ora questa sensazione si è un po' attenuata, ma basta poco a spaventarmi. Una sepolta viva, benchè strappata alla morte, non può dimenticare».
13 Novembre 2010

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