martedì 1 maggio 2012

am_1.5.12/ Domani e’ il 2 Maggio, giorno della non/festa-no dell’inattivo sottoccupato disoccupato sfiduciato o neet, e di tutti quelli che han dovuto espatriare, per curarsi o lavorare. - Come funziona? Un’unica costruzione, ma con entrate separate o turni diversi per bambini e ragazzi appartenenti a etnie differenti. Gli scolari croati e musulmani, recita un pamphlet informativo sulla questione prodotto nel 2010 dall’OSCE, sono divisi durante le lezioni che si tengono in aule separate, «seguono programmi diversi» e usano manuali di geografia, storia e letteratura che dipingono “l’altro” in maniera non obiettiva, ostile.

Disoccupati record  "In Italia sopra il 10%"
Spending review: rapporto Giarda, cinque anomalie sistema Italia
Spending Review: Bondi commissario
Pressioni inaccettabili
Bosnia, vietata la segregazione nelle scuole

Disoccupati record  "In Italia sopra il 10%"
L'allarme Ilo: con i 250 mila cassintegrati si superano le statistiche ufficiali
 ROBERTO GIOVANNINI
Dati preoccupanti per un Primo Maggio in cui il lavoro per molti è un miraggio. Confermando sostanzialmente i recenti dati dell’Istat, ieri l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del Lavoro, l’agenzia Onu che si occupa appunto del lavoro) ha diffuso il suo report. La scheda che illustra la situazione italiana evidenzia così un crollo del mercato del lavoro nel quarto trimestre del 2011.
Con un tasso di disoccupazione «ufficiale» che raggiunge quota 9,7% (pari a 2,1 milioni di persone che cercano e non trovano un impiego). Ma che considerando i 250mila lavoratori in cassa integrazione potrebbe anche superare la soglia del 10%. Scende anche il tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni, al 56,9%.
In più, dice sempre il report Ilo, bisogna fare i conti con l’«allarmante» situazione dei cosiddetti Neet, ovvero le persone Not in Education, Employment or Training, cioè che non studiano, non lavorano e non sono neanche in formazione. Si tratta di quasi 1,5 milioni di italiani. Per quanto riguarda i giovani, la disoccupazione risulta pari al 32,6%, più che raddoppiata dall’inizio del 2008.
I lavoratori che non cercano più lavoro perché «scoraggiati» hanno raggiunto il 5% del totale della forza lavoro, mentre i disoccupati di lunga durata rappresentano il 51,1% dei disoccupati totali. «Seri problemi» esistono anche riguardo alla qualità dei posti di lavoro creati. Dall’inizio della crisi, la proporzione dell’occupazione a tempo determinato e a tempo parziale è aumentata fino a raggiungere rispettivamente il 13,4% e il 15,2% dell’occupazione totale.
Inoltre, il 50% del lavoro a tempo parziale e il 68% del lavoro a tempo determinato non è frutto della libera scelta dei lavoratori, ma è una condizione imposta dall’impossibilità di trovare un impiego migliore e più stabile. Nel suo rapporto generale l’Ilo non manca di sottolineare come le recenti misure di austerità rischino «di alimentare ulteriormente il ciclo di recessione e di rinviare ancora l’inizio della ripresa economica e il risanamento fiscale».
Infatti, la ripresa viene frenata dalla contrazione del consumo privato; e «tale contrazione è aggravata dal fatto che gli stipendi crescono meno velocemente rispetto all’inflazione». La priorità secondo l’agenzia Onu è quella di «trovare un equilibrio sostenibile tra risanamento fiscale e ripresa dell’occupazione. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, infine, nel 2012 la disoccupazione nel mondo colpirà 202 milioni di individui proprio a causa dei contraccolpi delle misure di austerità messe in atto in diversi paesi. Nel 2013 il tasso mondiale sarà del 6,3%.
Numeri allarmanti in un Primo Maggio pesantemente segnato da una crisi, iniziata nel 2008 e di cui, dopo più di quattro anni, non si vede la conclusione. «Sarà il primo maggio - dice il leader della Cgil Susanna Camusso - di un Paese in cui le persone sono sempre più preoccupate della disoccupazione, della difficoltà di reggere con il reddito a disposizione. Ma non c’è un declino ineluttabile, non ci rassegniamo».
Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni esprime preoccupazione per la «miscela esplosiva» che si sta creando. «La gente - spiega - è stanca di fare sacrifici, senza un segnale altrettanto chiaro da parte delle istituzioni e della politica. Vogliamo un patto per la crescita in cui tutti facciano la propria parte per favorire il rilancio degli investimenti».
«Il principale messaggio - conclude Luigi Angeletti, leader della Uil - è che bisogna ridurre le tasse sulle buste paga, lo strumento più importante per evitare l’acuirsi della recessione e quindi della perdita dei posti di lavoro».

Spending review: rapporto Giarda, cinque anomalie sistema Italia
(AGI) - Roma, 30 apr. - Il rapporto sulla spending review "elementi per una revisione della spesa pubblica", illustrato dal ministro per i Rapporti con il Parlamento e il Programma di governo, Piero Giarda, pone l'accento su cinque anomalie di sistema. E' quanto si legge nella nota di Palazzo Chigi.
   La prima, spiega la nota, "riguarda la struttura della spesa pubblica italiana. In Italia si spende meno della media dei Paesi Ocse per la fornitura di servizi pubblici e per il sostegno agli individui in difficolta' economica mentre le spese per gli interessi sul debito pubblico e per le pensioni superano la media europea. Queste due voci valgono circa 310 miliardi di euro, una cifra che ostacola la flessibilita' di gestione e adattamento della risposta pubblica alle domande provenienti dall'economia". La seconda e' rappresentata dal costo della produzione dei servizi pubblici. "L'aumento dei costi di produzione dei servizi pubblici (scuola, sanita', difesa, giustizia, sicurezza) - sottolinea il governo - non e' stato accompagnato da un adeguato livello di qualita'. Queste spese, secondo i dati Istat, sono cresciute in trenta anni, dal 1980 al 2010, molto piu' rapidamente dei costi di produzione dei beni di consumo privati. Se i costi del settore pubblico fossero aumentati nella stessa misura del settore privato, la spesa per i consumi collettivi oggi sarebbe stata di 70 miliardi di euro piu' bassa". La terza anomalia e' "l'aumento delle spesa dovuto alle diffuse carenze nell'organizzazione del lavoro all'interno delle amministrazioni, nelle politiche retributive e nelle attivita' di acquisto dei beni necessari per la produzione". La quarta riguarda l'evoluzione della spesa e la sua governance. "Negli ultimi vent'anni, ad esempio, la spesa sanitaria - spiega la nota - e' aumentata passando dal 32,3 per cento al 37 per cento del totale della spesa pubblica mentre la spesa per l'istruzione e' scesa dal 23,1 per cento al 17,7 per cento. Cio' e' dovuto in parte all'andamento demografico, in parte a decisioni che riguardano la sfera politica e la struttura degli interessi costituiti". Infine la quinta anomalia "e' nel rapporto centro-periferia, per cui gli enti locali esercitano le stesse funzioni, a prescindere dalle dimensioni e caratteristiche territoriali. Questo porta a una lievitazione dei costi negli enti con un numero inferiore di abitanti". (AGI) .

Spending Review: Bondi commissario
Enrico Bondi commissario per beni e servizi dell’amministrazione statale: è la decisione del Consiglio dei ministri, per rendere operativa la spending review.
Bondi, come noto, è il commissario straordinario che ha gestito il dopo-crac della Parmalat,, lavorando per circa 8 anni a Parma.

Pressioni inaccettabili
 Adriana Cerretelli
 «Si comportano come se fossero i soli membri del gruppo». Ce l'aveva sullo stomaco da anni l'insostenibile pesantezza della coppia franco-tedesca. Come ce l'ha ormai quasi tutta l'Europa. Ma ieri Jean-Claude Juncker è sbottato.
A due mesi dalla fine del suo terzo mandato alla guida dell'Eurogruppo, il premier lussemburghese si è sentito libero di rompere le righe, di svelare un segreto che tale non era da molto tempo per chi seguiva quelle riunioni, le conferenze stampa finali spesso dense di amara ironia, d'ira controllata, di polemiche sorde e sorrisi troppo tirati. «Lascio perché sono stanco delle ingerenze franco-tedesche» ha detto chiaro e tondo nel corso di una conferenza ad Amburgo, proprio in casa dell'impiccato.
 Una strappo al protocollo, alle buone maniere della politica o forse sarebbe meglio dire dell'ipocrisia europea. Un sonoro schiaffo pubblico all'insopportabile duo Merkel-Sarkozy, lui che di schiaffi alla sua Europa, ai codici di Maastricht e dell'euro ne ha dovuti incassare molti. Troppi. Per questo, più che personale, la sua è la voce di una denuncia europea. Collettiva.
 Il malessere dentro il club della moneta unica (ma anche fuori) nasce molto prima della crisi finanziaria del 2008. Comincia nel 2003 quando Francia e Germania - allora la coppia "infernale" era formata da Gerhard Schröder e Jacques Chirac - decidono di violare le regole del patto di stabilità. Ma, per non incorrere nelle previste sanzioni, decidono anche di ammorbidirlo con un "golpe" che semina lo sconcerto generale: improvvisamente si scopre infatti che l'Europa non è una comunità di diritto, dove tutti sono uguali davanti alla legge. A regnare è la legge del più forte.
 Si dice che nacque allora l'euroscetticismo degli olandesi, che due anni dopo bocciarono la Costituzione europea perché quella non era più la loro Europa. Si dice anche che prese le mosse da quel colpo di Palazzo la folle disinvoltura con cui i greci cominciarono a farsi beffe delle regole di Maastricht.
 Juncker, allora non ancora presidente dell'Eurogruppo, tentò invano di richiamare Parigi e Berlino alla ragione dell'interesse generale. Invano. Come invano tentò di opporsi nell'ultimo biennio alla gestione dissennata della grande crisi da parte del cancelliere tedesco e del presidente francese. Entrambi infastiditi dal suo europeismo d'antan, dal suo attaccamento ai principi della democrazia europea, quelli che riconoscono pari dignità e quindi rispetto a tutti gli Stati membri, indipendentemente dalle loro dimensioni, dal loro livello di benessere, dal loro potere relativo.
 Unità nella diversità: il motto fondante dell'Europa, la chiave della pace e della prosperità di questo dopoguerra, era e resta anche il credo inossidabile di Juncker. Che per questo era diventato un personaggio scomodo, superato nell'Europa degli Stati egoisti e sovrani, incapaci di coesione e solidarietà con i più deboli, talmente risucchiati dagli interessi particolari da non essere più in grado di scorgere quello generale.
 Il patto franco-tedesco di Deauville, piombato come un fulmine a ciel sereno nell'ottobre 2010 sui ministri dell'Eurogruppo riuniti a Lussemburgo per discutere la crisi dell'euro, è stato probabilmente una delle ultime gocce che hanno fatto traboccare il vaso di Juncker. Anche in quel caso l'incursione prepotente dei due soliti noti, il tentativo di decidere nel proprio interesse le sorti degli altri partner in difficoltà.
 Niente sanzioni automatiche in caso di deviazioni dal patto, perché così voleva la Francia di Sarkozy con il deficit alla deriva. Coinvolgimento anche dei privati nell'eventuale ristrutturazione dei debiti sovrani, perché così voleva la furia punitrice della Germania della Merkel con le banche invischiate nella palude ellenica.
 Da allora Juncker ha continuato a presiedere l'Eurogruppo ingoiando un rospo dopo l'altro, assistendo all'aggravarsi dell'emergenza, al dilagare del contagio greco, all'avvitamento della crisi su se stessa, trasformata da finanziaria in economica e politica. È restato al suo posto ma sempre più marginalizzato: l'ombra dell'Europa in cui aveva creduto per tutta la vita ma che, impotente, vedeva dissolversi a poco a poco. Sparire.
 «L'uniformazione distruggerà l'Unione. Le cause delle difficoltà di oggi derivano dalla mancanza di coordinamento delle politiche economiche che non si decise a Maastricht per l'opposizione di Francia e Germania» ha ricordato ieri ad Amburgo. Sì, sempre loro. Il suo incubo. Il volto bifronte dell'Europa cinica e bara che rema contro se stessa.

Bosnia, vietata la segregazione nelle scuole
Sentenza del Tribunale di Mostar. Sì all’educazione interetnica che porti all’integrazione sociale segregazione
 di Stefano Giantin
BELGRADO. La decisione è storica, ma solo il tempo dirà se avrà avuto qualche impatto concreto, e non solo simbolico, sul futuro della Bosnia-Erzegovina. Un tribunale di Mostar ha dichiarato per la prima volta «discriminatoria» la filosofia delle «Dvije skole pod jednim krovom» (due scuole sotto uno stesso tetto), che regola l’educazione in alcune aree del Paese, in particolare quelle abitate da croati e bosgnacchi. Malgrado le pressioni interne e internazionali, a vent’anni dalla fine della guerra ancora una quarantina di scuole - localizzate soprattutto nel Cantone della Bosnia Centrale e in quello dell’Erzegovina-Neretva -, continuano ad applicare il principio della segregazione etnica. Principio che fu introdotto 10 anni fa per contrastare il problema degli edifici scolastici “monoetnici” e che avrebbe dovuto essere solo temporaneo. Come funziona? Un’unica costruzione, ma con entrate separate o turni diversi per bambini e ragazzi appartenenti a etnie differenti. Gli scolari croati e musulmani, recita un pamphlet informativo sulla questione prodotto nel 2010 dall’OSCE, «sono divisi durante le lezioni» che si tengono in aule separate, «seguono programmi diversi» e usano manuali di geografia, storia e letteratura che dipingono “l’altro” «in maniera non obiettiva, ostile».
 Per comprendere cos’è veramente l’apartheid scolastica, è utile ricordare un dialogo tra alcuni scolari croati e musulmani riportato dal settimanale “BH Dani” nel 2003. Come si chiama la vostra scuola? «Novi Seher», rispondono gli scolari di entrambi i gruppi etnici. Come si chiama il vostro Paese? «Bosnia- Erzegovina», in coro. Che lingua studiate? «Croato», dicono gli uni, «bosniaco», puntualizzano i secondi. Vorreste una scuola unificata? Un plebiscito di «no». Perché? «Perché quelli sono croati», «perché quelli hanno ammazzato i nostri genitori», la replica dei bambini, otto anni d’età. D’altronde, perché stupirsi dell’opinione dei bimbi, se l'ex ministro della Formazione del Cantone centrale, Greta Kuna, giustificava qualche anno dopo la politica della segregazione con una frase laconica: «Non si devono mescolare mele e pere». Le cose potrebbero ora cambiare. I giudici di Mostar, valutando il caso degli istituti delle cittadine di Capljina e Stolac dopo una denuncia dell’ong per la difesa dei diritti umani e per «l’assistenza legale gratuita» “Vasa Prava”, hanno stabilito che «l’organizzazione delle scuole su base etnica» e la «separazione degli studenti» vìolano il principio di non discriminazione. La Corte ha ordinato al ministero dell’Educazione del Cantone dell’Erzegovina-Neretva, sotto la cui responsabilità operano le scuole incriminate, di «creare istituzioni educative multiculturali e integrate, rispettando il diritto dei bambini ad essere educati nella propria lingua».

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