mercoledì 1 agosto 2012

Io sto con gli operai ma Taranto si svegli

di Michele Riondino
Non può essere una colpa amare la mia città, non è colpa mia se quando entrando a Taranto dalla 106 la prima cosa che noto è l’odore acre della raffineria, non è colpa mia se la rabbia per lo sfruttamento occupazionale e ambientale mi porta a dire sempre quello che penso così come lo penso. L’Ilva è un destino ineluttabile, la sua presenza ha sempre condizionato la vita di tutti in città.




È difficile considerare innocuo un impianto industriale che per 33 anni (la mia età) ogni giorno sputa fumi di ogni colore, è difficile considerare normale il fumo nero e denso sprigionato da un incendio all’interno di uno dei reparti e restare sereni se chi dovrebbe rassicurarti che quell’incendio e quel fumo sono innocui per la salute in realtà minimizza la faccenda dicendo semplicemente: «tranquilli è olio vegetale, nessun problema».

Sono convinto che chiunque, anche i più tenaci sostenitori del patron Riva, almeno una volta all’uscita dalla fabbrica abbiano pensato vedendo il fumo nero sprigionarsi nel cielo: oh mio Dio, che stiamo combinando? Che cosa sto facendo respirare a mio figlio. Si è sempre fatto leva sul ricatto a Taranto. La dirigenza ha sempre avuto gioco facile per questo.

Vivere a Taranto significa vivere all’ombra di una ciminiera, non scioperare e non mostrarsi sindacalmente attivi, significa arrendersi all’idea di non avere una dignità, perché nel momento in cui la politica ti costringe a scegliere tra il lavoro e la salute vuol dire che quella stessa politica ha di te una idea precisa: ossia che tu non sei più un uomo, bensì una macchina. Trovo sacrosanta l’ordinanza del tribunale di Taranto, è una liberazione leggere nell’atto: «chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Non potevano riconoscerci verità più accertate. La politica è ora che si assuma le giuste responsabilità a riguardo e non credo che lo Stato italiano possa permettersi la chiusura del più grande impianto siderurgico, l’intero sistema industriale italiano imploderebbe. Nessuno chiuderà il mostro, ne sono sicuro, ma se col mostro si deve convivere allora le regole di questa convivenza devono essere chiare e rispettate.

È vero, l’aria pulita non si mangia, ma l’aria pulita si respira, serve a far crescere sani i nostri figli e non è demagogia questa, è pura e semplice regola di sopravvivenza. Un essere umano può resistere all’incirca un mese senza mangiare, tre giorni senza bere, non più di tre minuti senza aria. Trovo alcune prese di posizione rispetto ai giudici, che li vedrebbero «colpevoli» di quello che sta succedendo oggi, veramente paradossali e ritengo ingiusto il tentativo maldestro di proteggere i Riva da responsabilità lampanti. Certo, la soddisfazione di questa ordinanza si ferma là dove si evince che i 336 milioni di euro per la bonifica delle aree esterne all’Ilva saranno stanziati solo dal governo e senza alcun contributo della famiglia Riva, famiglia che è scesa dal cosiddetto «Nord che produce» in Terronia.

«Sono con gli operai senza se e senza ma», già la classe politica si sta spendendo a riguardo. Io invece dico «sono con gli operai senza se, ma con un ma». Mi rivolgo infatti a tutti gli operai di oggi che sono figli degli operai di ieri. Eravamo insieme in piazza 16 anni fa a protestare contro l’impatto ambientale, contro il ricatto occupazionale, contro le ore di straordinario selvaggio, contro l’amianto, anche contro la nave dei veleni. Eravamo insieme e i nostri padri ci criticavano perché, dicevano: contro l’azienda non ci si deve mai schierare. Noi rinnegavamo questa logica e criticavamo a nostra volta i nostri padri per il loro lassismo. Oggi si è in piazza ad attaccare una magistratura che finalmente ci ha dato ragione. Io penso che ora bisogna gridare con una voce unica che quest’azienda è nostra e che vogliamo abitarla e farla funzionare per il nostro bene e non contro il nostro bene, che oltre alla fabbrica bisogna giocare quelle carte che la gestione selvaggia della fabbrica stessa ha distrutto. Mi riferisco per esempio alla coltura delle nostre cozze che non possiamo più toccare perché ci mutano il DNA. Dobbiamo gridare che da noi la fabbrica ha avvelenato bestiame e terreno e che non possiamo più esportare il settore caseario.

Dobbiamo gridare che la nostra è una terra bellissima e che la carta del turismo non siamo mai riusciti a giocarcela seriamente perché nessuno ha mai avuto il coraggio di investire su queste terre, dobbiamo gridare a tutti quelli che passano dalle nostre parti per andare in Salento che qui il mare, le spiagge, i prezzi sono migliori. Dobbiamo essere uniti e non farci condizionare più da nessuno, né dai padroni né dai politici che cercano il riscatto in una terra che è l’eldorado degli usurpatori. Svegliamoci finalmente, svegliamoci tutt’insieme per una volta.
29 Luglio 2012

Nessun commento: