Matera vuole far parte della Puglia. Al via
referendum
De Filippo: «Se volete il petrolio lucano,
dateci lavoro e sicurezza»
Pressione fiscale, Passera: ''Ridurre le tasse
a chi già le paga''
Con la crisi torna la vecchia cambiale Il 40%
dei piccoli imprenditori la usa
Matera vuole far parte della Puglia. Al via
referendum
di DONATO
MASTRANGELO
MATERA - «Annettiamo
la città di Matera alla Regione Puglia promuovendo un referendum popolare». Il
vento di secessione, che guarda con interesse a quella che un tempo era la
terra d’Otranto, non arriva da una sede istituzionale ma direttamente dalla
strada. È il confine tra il territorio pugliese e lucano sulla statale 99, nei
pressi della frazione Venusio al chilometro 11,200 quello che i giovani del
comitato «Matera si muove» hanno idealmente eletto come avamposto di una
battaglia che intendono concretizzare attraverso il quesito referendario.
Destinazione Puglia, recitano i cartelli ostentati con orgoglio dai paladini di
questa «crociata» in salsa apulo lucana la cui scintilla è scoccata con il
disegno di soppressione della Provincia di Matera da parte del governo Monti e,
sostengono, «dalla scarsa consistenza, credibilità e fattibilità della proposta
della Regione di istituire a Matera la provincia unica della Basilicata».
Nelle dichiarazioni
dei giovani si legge una voglia di riscatto ma anche di affrancamento da un
capoluogo, Potenza, che da queste parti, è stato sempre concepito come centro
del potere al quale la città dei Sassi era subalterno. «Siamo stufi - dichiara
il presidente del comitato Angelo Angelastri, 21 anni, presidente del comitato
“Matera si muove” - di essere soggiogati ad una regione “basilico-potentina” ch
e ha sempre guardato ai propri interessi relegando ad un ruolo marginale la
città di Matera».
Angelastri sente un
legame con la Puglia non soltanto per i suoi studi universitari in
Giurisprudenza a Bari. «Vogliamo voltare pagina - afferma - con l’annessione
alla Puglia, una regione a noi più vicina non soltanto geograficamente ma anche
per mentalità. Con la Puglia avremmo innumerevoli potenzialità di sviluppo, a
partire dal turismo che aMatera non è ancora decollato completamente».
Questione di identità territoriale? «Matera da sempre si è relazionata con la
Puglia e poi non vanno sottovalutate le opportunità che Matera potrebbe avere
dai progetti di area metropolitana e macro-regione. L’accorpamento della
Provincia di Matera penalizzerà ulteriormente la città dei Sassi mortificandone
lo sviluppo».
Ora parte la sfida
referendaria con il gazebo del Comitato «Matera si muove» allestito in piazza
Vittorio Veneto nei giorni di sabato e domenica. «Puntiamo a raccogliere 10 mila
firme da presentare al Consiglio comunale affinché lo stesso possa deliberare
sulla richiesta di Consultazione popolare da inviare alla Cassazione per il
passaggio di Matera alla Regione Puglia». «Il modello lucano che ci hanno
propinato da decenni, se mai fosse esistito - afferma Massimo Andrisani, 24
anni, studente alla Facoltà di lettere a Bari - crediamo sia del tutto fallito.
Qual è il nostro futuro? In Basilicata viviamo soltanto di assistenzialismo e
clientele. Invece noi giovani vorremmo essere artefici del nostro domani.
Riteniamo che la Puglia possa darci tante più opportunità».
De Filippo: «Se volete il petrolio lucano,
dateci lavoro e sicurezza»
di MASSIMO BRANCATI
POTENZA - Il
governatore lucano, Vito De Filippo, l’ha definita una «rivoluzione
copernicana» nei rapporti che ruotano attorno all’orbita del petrolio in
Basilicata. Un’intesa che va in controtendenza rispetto alle rotte seguite dal mercato
del lavoro, con le imprese (Fiat insegna) che tendono a smarcarsi da obblighi e
vincoli territoriali. È in questo contesto generale che, secondo De Filippo, il
«contratto di settore» per la Val d’Agri, sottoscritto a Viggiano (Potenza) da
Regione, Eni, Cgil, Cisl e Uil, Confindustria Basilicata e associazioni
datoriali, assume un significato «epocale».
Anche perché da
quando l’Eni ha messo piede in Basilicata per estrarre petrolio (il primo
giacimento è stato scoperto nel 1981) i rapporti di interscambio tra la
compagnia petrolifera e il territorio non sono mai andati al di là delle
«royalties », peraltro considerate dai più non proporzionate al flusso di
greggio estratto e ai sacrifici della Basilicata sul fronte ambientale.
L’intesa viggianese traduce in impegni scritti l’appello della Basilicata per
un maggiore ritorno in termini di sviluppo economico.
Nel protocollo, che
si compone di sei assi, l’industria del petrolio s’impegna a garantire
occupazione - favorendo imprese e lavoratori locali attraverso il
«frazionamento» dei grandi appalti - e investimenti, a cominciare dai 500
milioni di euro che consentiranno di completare le attività individuate
nell'intesa del 1998: è prevista, in particolare, la realizzazione della quinta
linea di trattamento del gas all'interno del Centro Oli (Cova) e di 9 pozzi
produttori già previsti nell’accordo di 14 anni fa che consentiranno di
raggiungere un livello produttivo di 104 barili al giorno. Un asse specifico
del protocollo, inoltre, prevede l’impe gno di manodopera lucana nell'ambito
delle attività poste in essere dagli appalti nel settore oil&gas. Con
l’obiettivo di specializzare i lavoratori, particolare importanza è attribuita
alla formazione sia per trasferire alta professionalità e conoscenze specifiche
agli addetti e alla manodopera locale, sia per creare le professionalità
necessarie alle attività geo-minerarie, oggi non disponibili nell'offerta dei
Centri per l'impiego.
«Questa intesa -
sottolinea De Filippo - va oltre l’idea iniziale di giungere ad un contratto di
settore che tuteli i lavoratori del bacino lucano del petrolio, allargandosi a
interventi in grado di coinvolgere ulteriormente il sistema locale delle
imprese».
Presidente, si parla
di aziende, economia, lavoro. E la sicurezza e la tutela dell’ambiente?
«Abbiamo ribadito il principio che la coltivazione delle risorse energetiche
presenti nel sottosuolo lucano deve rispondere al rispetto dei vincoli
ambientali, geologici e territoriali e la strategia di crescita degli
investimenti deve avvenire in un contesto di massima prevenzione per la salute
e per l'ambiente».
Chi controlla che
tutto proceda senza pericoli per i cittadini? «Il nostro Osservatorio
ambientale è tra i più avanzati. Abbiamo anche stipulato un accordo con
l'istituto Superiore della Sanità e con la «Bocconi» per l'interpretazione e
comunicazione dei dati ambientali». Quando si parla di pericoli il riferimento
va anche a chi oggi lavora a diretto contatto con i pozzi. Come saranno
tutelati? «Nell’accordo c’è un capitolo dedicato a loro e alle imprese che
operano in prossimità del Centro Oli. Il contratto di settore garantisce le condizioni
di sicurezza anche prevedendo sul territorio postazioni sanitarie e dei Vigili
del Fuoco».
Non c’è il rischio
che l’intesa si riveli una semplice enunciazione di principi? Chi garantisce
che l’Eni rispetti gli impegni? «C’è un documento sottoscritto. E per
verificare lo stato di avanzamento dei programmi abbiamo istituito un «Tavolo
della trasparenza» che si riunirà a partire da gennaio con cadenza semestrale e
ogni qualvolta sopravvenute esigenze lo richiedano».
In concreto, cosa
farà l’Eni per assicurare tangibili riflessi occupazionali ed economici sul
tessuto produttivo lucano? «Si eviterà, come accaduto in passato, il rischio
per i lavoratori di essere espulsi dal ciclo produttivo o di subire
ridimensionamenti durante il passaggio da un’impresa appaltatrice a u n’altra.
Nel rispetto delle normative, inoltre, l’Eni s’impe gna a massimizzare la
partecipazione delle aziende lucane a gare regionali e nazionali e a curare la
qualificazione delle aziende locali che ne facciano richiesta e che operano nei
settori interessati dal piano di spesa di Eni».
Presidente, in
attesa che l’intesa venga valutata per ciò che produrrà, c’è chi oggi l’accusa
di averla sottoscritta troppo tardi... «Ci abbiamo lavorato per tre anni. Le
imprese non accettano facilmente certi impegni ed è la prima volta che l’Eni
firma un contratto di settore. Ad ogni modo, questo protocollo lo considero un
punto di partenza. Non ritengo che sul petrolio la partita si possa chiudere
qui».
Pressione fiscale, Passera: ''Ridurre le tasse
a chi già le paga''
ultimo
aggiornamento: 06 ottobre, ore 21:02
Assisi, 6 ott.
(Adnkronos/Ign) - "Dobbiamo pensare di ridurre la pressione fiscale per
coloro che le tasse le pagano". E' l'indicazione che dà il ministro dello
Sviluppo economico, Corrado Passera, intervenendo ad Assisi al dialogo tra
credenti e non credenti organizzato dal Cortile dei Gentili.
"Una delle
conseguenze dell'evasione fiscale - spiega Passera - è che il livello di
imposizione fiscale, dove le tasse si riesce a farle pagare, è molto elevato. E
allora, la lotta all'evasione deve essere lo strumento per ridurre la pressione
fiscale, garantendo l'impegno che ci siamo presi a livello internazionale di
tenere i nostri conti sotto controllo. La riduzione del peso fiscale su
famiglie, lavoro, imprese - prosegue il ministro - va presa in considerazione,
anche per favorire la creazione di nuovo sviluppo".
Da Passera arriva
anche un monito: "Guai a considerare il mercato quale realtà a sé stante
che domina tutto il sistema dell'economia". "Ci siamo portati dietro
crisi non passeggere, non superficiali ma profonde, che dobbiamo capire a fondo
se ne vogliamo uscire. Mancanza di regole, controlli non adeguati, squilibri,
malaffare hanno inciso, ma - sottolinea Passera - ci sono ragioni più profonde,
legate a una sorta di ideologia del mercato quale unico meccanismo
interpretativo della realtà, che si autoregola ed esprime giudizi che fanno
funzionare non solo l'economia ma l'intera società. Questo è un guaio".
Per il ministro
dello Sviluppo economico, "se la crisi è stata affrontata male, è perché
si è cercata sempre la causa nell'altro, spesso cercando ragioni
autoconsolatorie e indicando un nemico che viene da fuori. Invece nessuno può
tirarsi fuori e questo vale anche per il nostro Paese. L'Italia uscirà dalla
crisi con un progetto, sia esso esplicito o anche solo implicito, che, come nel
dopoguerra o come negli anni bui del terrorismo, riguardi l'intera società in
tutti i suoi settori".
Osserva il ministro
Passera: "Il bene comune è soprattutto creare lavoro. Oggi, questo è il
problema più profondo della nostra società. Dobbiamo misurarci su questo enorme
disagio che va ben oltre la disoccupazione ufficiale e riguarda gli inoccupati,
i sottoccupati, i cassintegrati: cioè - sintetizza - tutte quelle famiglie,
tutte quelle comunità, che hanno timore per il futuro".
Quanto al welfare,
avverte, ''va modificato, va governato, va gestito. Ma guai a ridurlo.
L'Italia, all'interno dell'Europa ha uno dei modelli più forti e riusciti anche
se con mille cose da aggiustare".
Il ministro
sottolinea che "il welfare è la conquista più differenziante dell'Europa
rispetto a qualunque altro sistema mondiale. E noi dobbiamo essere orgogliosi
di volere un sistema così organizzato, anche se per più aspetti a rischio e
dunque da modificare".
Poi, chiudendo il
suo intervento, Passera ha ammonito a non ''farci prendere dalle tante
demagogie, anche subliminali ma che sono pericolosissime, le quali creano
aspettative e fanno promesse che non sono sostenibili e realizzabili: non c'è
nessuna bacchetta magica".
Con la crisi torna la vecchia cambiale Il 40%
dei piccoli imprenditori la usa
ultimo
aggiornamento: 06 ottobre, ore 17:40
Roma, 5 ott.
(Adnkronos) - Torna la vecchia cambiale. Sono soprattutto i piccoli imprenditori,
sempre più spesso in difficoltà per il ritardo nei pagamenti, sia della Pa sia
di altre imprese, e per la stretta nella concessione del credito da parte delle
banche, a riscoprire uno strumento che sembrava ormai superato dai tempi. E'
quanto emerge da un sondaggio effettuato dall'Adnkronos: quattro piccoli
imprenditori su dieci dichiarano di averne firmata una nell'ultimo anno e sei
su dieci ritengono 'possibile' il ricorso alla cambiale nell'arco del prossimo
anno
Quella che viene
tradizionalmente rappresentata come una finta banconota gigante che a caratteri
cubitali riporta la data, l'importo e la firma del possessore, torna quindi ad
essere uno strumento comunemente usato per rimandare un pagamento. Il creditore
può far circolare la cambiale o può tenerla, per poi presentarla all'incasso
una volta scaduto il termine. Il problema però, sempre più spesso, è che
l'imprenditore possa essere costretto all'insolvenza. Ovvero, che non riesca a
pagare il credito entro il termine stabilito. In questo caso, quasi sempre,
scatta il protesto. E i dati raccolti dall'Adnkronos non sono incoraggianti
anche su questo fronte. La metà degli imprenditori che dichiara di aver usato
cambiali, circa il 20% del totale, ammette anche di aver ricevuto nel corso
della sua storia imprenditoriale almeno un protesto. Indicazioni che sono
coerenti con i dati complessivi , quelli raccolti da Cerved e Unioncamere:
nell'ultimo anno i dati sui protesti sono in crescita.
Gli ultimi dati
Cerved sui protesti e sui ritardi nei pagamenti evidenziano una situazione di
difficoltà particolarmente grave nelle regioni del Mezzogiorno e tra le imprese
che operano nelle costruzioni e nel terziario. Nel primo trimestre del 2012 si
contano oltre 21mila società cui è stato protestato almeno un assegno o una
cambiale: il dato segna un deciso aumento rispetto allo stesso periodo del 2011
(+8,1%) e risulta di quasi un terzo maggiore rispetto ai livelli medi osservati
in un singolo trimestre pre-crisi. Nei primi tre mesi del 2012, i protesti
risultano infatti in aumento con tassi a due cifre nelle regioni
centro-meridionali (+13,5% nel Sud e nelle Isole e +10,6% nel Centro), con una
diffusione del fenomeno che ha raggiunto livelli preoccupanti nel Mezzogiorno:
l'1,4% delle società operative sul territorio ha avuto almeno un assegno o una
cambiale protestata tra gennaio e marzo, con un picco dell'1,9% in Calabria.
Gli ultimi dati disponibili elaborati da Unioncamere confermano il trend.
Indicano per i primi quattro mesi di quest'anno, un incremento del 3% del
numero complessivo degli effetti protestati (tra assegni, cambiali e tratte)
rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, passando dagli oltre 429mila
dei primi 4 mesi del 2011 agli oltre 442mila dello stesso periodo del 2012.
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