Nella storia della Calabria,
querce, ghiande, maiali, terre destinate all’uso promiscuo del signore e del
contadino s’avvilupparono fino a fare una storia sola. Il maiale, o meglio il
maialetto, il porcello, u niru, è il bene prezioso della famiglia. Quasi di
tutte le famiglie. “Chi sposa festeggia un giorno, chi ammazza il maiale
festeggia un anno”.
Nell’Annuario italiano di
statistica del 1858 – la prima indagine statistica condotta in Italia - il
rapporto tra maiali e persone, al Sud, è doppio che al Nord; in Calabria più
che altrove. Naturalmente, con il trascorrere del tempo e il rinnovarsi del
modo di produrre, la densità dei suini, al Sud, è andata scemando, fino a farsi
piccola cosa, in quanto il tipo di allevamento rimaneva familiare, mentre al
Nord andava crescendo, in seguito all’affermarsi dell’allevamento industriale.
Ma nell’ultimo decennio, o poco più, la produzione industriale di insaccati
suini è fiorita sia in Sila che qui da noi, nella Valle del Torbido. Gioiosa,
San Giovanni di Gerace, Siderno vanno affermando i prodotti tipici:
soppressata, salsiccia e capicollo, ma anche il lardo, la pancetta, la ‘nduja.
Il prodotto è commercializzato nelle stesse province, ma cerca anche la strada del mercato nazionale
ed europeo.
Appunto a Rivoli, la
Pro-loco di San Giovanni di Gerace ha promosso un grosso incontro con gli
emigranti meridionali e gli autoctoni piemontesi. Il giornale del luogo,
soffermandosi sull’evento, registra più di cinquemila persone e decine di
quintali di salumi offerti come assaggio ai presenti. Con garbo e intelligenza
l’animatore della cooperativa, Mario Carabetta, ha allargato il palcoscenico
inserendo un altro tipo elementi della cultura calabrese, dalla gigantografia
dei Bronzi alla musica folk, al vivace presentatore.
A questo punto il pubblicista
si chiede: questo cominciare avrà un seguito?
La storia sociale d’Italia è
fatta di poche verità e di molte bugie e reticenze, grandi e piccole. Una è che l’Italia di 120 anni fa - un
povero paese di emigranti che viveva di agricoltura e di artigianato - fece il
suo ingresso sul mercato mondiale, come paese industriale, con le esportazioni
di pasta, di conserve di pomodoro e di ortaggi sott’olio. Le prime centrali
dell’esportazioni manifatturiere italiane non furono né Torino né Brescia né
Treviso, ma Castellamare di Stabia, Nocera, Napoli, Palermo. Erano i prodotti
richiesti dagli emigranti in America e che ci venivano pagati in buona moneta.
Fiutato l’affare, il capitale bancario padano s’avventò sulla preda, peraltro
presentando la cosa come un favore che il Settentrione magnanimo faceva al
povero e incolto Sud.
Nacque, così, la Cirio:
banche padane e profumo di Napoli. Nacquero anche delle aziende locali,
alcune famose. Passarono i decenni,
pareva che il conservificio e il pastificio fossero napoletani per volontà
della natura. Quando, però, nel dopoguerra la popolazione di Genova, Torino,
Milano prese a crescere e la base industriale a svilupparsi, l’Emilia rossa
volle il privilegio d’essere lei a rifornire il Triangolo industriale di prodotti
agricoli.
Allora, la banca padana
disfece in pochi anni quel che aveva fatto sessanta anni prima.
Il passato è maestro del
presente. Vogliono in Calabria l’allevamento suino? Se lo vogliono, le
precondizioni sono quattro:
1) l’allevamento locale al
posto delle importazioni di carne;
2) i boschi di ghiande;
3) il controllo del credito
bancario;
4) la protezione
dell’allevamento e dell’industria relativa.
A titolo d’informazione,
ricordo che l’industria del Nord-Ovest, da Genova a Padova, è costata agli italiani - in via diretta, come iniezioni di
danaro, e indirettamente, sotto forma di
protezionismo doganale - una cifra spaventosa, pari a un terzo circa del
prodotto nazionale per più di cento anni. Diciamo 50 milioni di miliardi di
vecchie lire, venticinque volte il PIL italiano del 2000.
Senza la protezione statale
non si fa industria. Chi lo nega, racconta falsità.
[Nicola Zitara]
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