lunedì 12 settembre 2011

Federali.sera_12.9.11. Giorgio Todde: Molti hanno letto il Cantico dei Cantici del Governatore della nostra Regione. Ogni lettore ha scelto l’endecasillabo più toccante. Ce n’è per tutti. Sostegno agli abusivisti e ai nonni sardi che coltivano vigne, solidarietà ai sardi con il naso storto, a quelli che non trovano un bar tra i lentischi e agli oppressi dal giogo del crudele Piano Paesaggistico, lodato dappertutto come espressione alta della nostra civiltà, ma non nel malinconico Cantico. Nel componimento regionale prevale il cattivo umore.----Taranto, È di nuovo allarme slopping.

LA NUOVA SARDEGNA - Politica: La pessima lezione di un cattivo maestro
L'UNIONE SARDA - Economia: Un "pieno" di pomodori
L'UNIONE SARDA - Economia: Un frigomacello internazionale
In Basilicata il terzo parco eolico più grande d'Italia
Taranto. Di nuovo «nuvole rosse» dall’acciaieria dell’Ilva
Puglia, l'asse Fitto-Vendola
Svizzera. Addio o arrivederci alle centrali atomiche?
11 settembre, il costo economico per gli Usa


LA NUOVA SARDEGNA - Politica: La pessima lezione di un cattivo maestro
12.09.2011
Intervento, Giorgio Todde.
Molti hanno letto il Cantico dei Cantici del Governatore della nostra Regione. Ogni lettore ha scelto l’endecasillabo più toccante. Ce n’è per tutti. Sostegno agli abusivisti e ai nonni sardi che coltivano vigne, solidarietà ai sardi con il naso storto, a quelli che non trovano un bar tra i lentischi e agli oppressi dal giogo del crudele Piano Paesaggistico, lodato dappertutto come espressione alta della nostra civiltà, ma non nel malinconico Cantico. Nel componimento regionale prevale il cattivo umore. Il Governatore e la sua maggioranza se la prendono - che brutta lezione per i nipoti di quei nonni - con le regole. Troppe regole, dicono. E bisogna abolirle perché gli interrompono lo sviluppo. D’altronde il “blocco degli affaristi” aveva chiesto in campagna elettorale la libertà di ricoprire di cemento l’isola e ora, solleciti e commossi per le villette abusive abbattute, i governanti provvedono. Dietro al “paesaggio rosa” proposto dai riformatori del Piano paesaggistico si nasconde un “Sì” incondizionato ai grandi poteri economici. L’autore del Cantico - vorremmo proprio conoscerlo - se ne impipa di quello che vuole chiudersi la verandina per far stare comodi i figli. Altro che verandina. I pasdaran del metro cubo, attratti dalla comprovata credulità sarda, vogliono Tuvixeddu, Malfatano, Costa Verde, foreste di torri eoliche, distruttivi campi fotovoltaici che non produrranno neanche un watt. Promesse di ricchezza che non arriverà. Qualsiasi Piano si fonda su regole. Il mondo e la vita si reggono su un intreccio di regole. Regole e, per fortuna, inibizioni. Se ne fossimo privi non esisterebbero la famiglia, le comunità locali e nazionali. Non esisterebbero neppure i nonni e neppure le vigne. Ma questo Cantico sgangherato si rivolge alle budella del suo elettorato. Annuncia il tentativo - già fallito perché mal congegnato - di cancellare le norme che impediscono, per esempio, di costruire a Tuvixeddu. L’articolo 49 del Piano vieta di edificare sul colle? Cancellano l’articolo e il gioco è fatto. Altro che “vigna di nonno all’imbrunire”. Però il “congegno” degli estremisti del cemento si inceppa in partenza perché il nostro Codice Urbani - non una macchina del tempo per fermare il progresso - stabilisce che la revisione del Piano può solo rafforzare la tutela e vieta di indebolirla come vorrebbero i poeti della Regione. Il Codice Urbani definisce con esattezza la procedura di revisione del Piano. Stabilisce articolo per articolo un cammino obbligatorio che a oggi non è stato rispettato. Insomma i trovatori regionali, faranno a pugni con la realtà giuridica e con le regole che per fortuna “imperversano” fuori dai loro uffici. Ovvio che in una parte delle viscere della società isolana c’è una tendenza antica a baciare la mano del “nobile” e nessun interesse per il Paesaggio. Basta lo spettacolo triste offerto dal cosiddetto Movimento dei Pastori Sardi a braccetto con il verde Benetton, quello che ha cancellato Tuerredda. A quella parte manipolabile parla il “creativo” autore del Cantico che ha in odio le regole. Ma le stesse viscere della comunità isolana hanno conservato, all’opposto, il contadino resistente di Tuerredda, Ovidio Marras, metafora perfetta dell’uomo indipendente e moderno perché legato al suo passato. C’è ancora molto da salvare. E il “blocco cementizio” prenderà atto di una comunità progredita che c’è, esiste ed è capace di produrre dei “No” che contengono un’intera filosofia. Contro il pestilenziale “Sì” a tutto, il “Sì” passivo che ha prodotto la distruzione dei luoghi e, talvolta, delle menti. Gli oltranzisti del “Sì” ci provano anche con la poesia, ma sono all’ultima spiaggia, in senso stretto. Dovrebbero però, insieme alla “vigna di nonno”, se al povero nonno non l’hanno espiantata, conservare tutto quello che quel nonno attento gli ha fatto trovare.

L'UNIONE SARDA - Economia: Un "pieno" di pomodori
12.09.2011
SERRAMANNA. Alla Casar ne sono stati conferiti 270 mila quintali Ottima annata, soddisfazione dei produttori Sole caldo ma non torrido e piogge che, a inizio estate, hanno tenuto la temperatura bassa, favorendo così la maturazione del pomodoro. Finalmente un'annata soddisfacente. «Il prodotto è di ottima qualità», commenta Sergio Murgia, direttore dell'Arpos, «maturo dentro e fuori». Bene anche la quantità: «Media più che buona», conferma lo stesso direttore dell'Associazione regionale dei produttori, «nei 409 ettari coltivati fra il Campidano e l'Oristanese si sono raccolti 750 quintali per ettaro». Nello stabilimento della Casar di Serramanna (gli ultimi camion arriveranno giovedì, giorno di chiusura della campagna), ne sono entrati ben 270 mila quintali: proprio quanti ne erano stati preventivati a maggio, nel contratto di conferimento siglato dall'Arpos e dalla Casar.
I PRODUTTORI «Abbiamo raggiunto la produzione prevista», commenta ancora Murgia, che non ha dimenticato le annate rovinate dai capricci del tempo negli anni scorsi. «Quest'anno le basse temperature di luglio, con qualche pioggia, sono state un problema per i turisti ma non per il pomodoro», aggiunge il direttore dell'Arpos, sicuro della bontà del pomodoro: «Faremo un figurone».
LA CASAR Giovanni Muscas, patron della Casar, farà il punto della situazione il 21 e il 22 settembre: «Solo allora avremo dati certi sulla produzione», premette: «La qualità è certamente ottima», conferma l'imprenditore di Villacidro, «ma il prodotto è poco». Muscas, evidentemente, non perde di vista le potenzialità del suo stabilimento, attrezzato per lavorare fino a 450 mila quintali a stagione. Nell'attuale stagione la Casar ha garantito ai produttori il prezzo più alto in Italia (undici euro a quintale). Muscas ricorda l'altro aspetto della coltivazione del pomodoro: l'occupazione. «Tra fissi e stagionali, alla Casar hanno lavorato circa seicento persone».
L'INDOTTO Francesco Setzu, imprenditore agricolo di Samassi, è (quasi) sulla stessa linea. «Il punto forte del pomodoro, e della Casar, è il traino economico sul territorio sotto forma di indotto», dice Setzu. Produttori, industria, operai fissi e stagionali, autotrasportatori: «Attorno alla Casar si muovono dai 30 ai 33 milioni di euro», afferma l'imprenditore agricolo di Samassi, soddisfatto dei 15 ettari coltivati che, «seppure senza le rese top del passato pari a 1.100 quintali, mi hanno dato 900 quintali a ettaro». Un'annata ottima, quindi, anche per Setzu, che per scelta o per necessità («Non ci si può affidare alla monocultura del carciofo») punterà anche in futuro sul pomodoro. Ignazio Pillosu

L'UNIONE SARDA - Economia: Un frigomacello internazionale
12.09.2011
CHILIVANI. L'imprenditore tunisino: nessuna concorrenza, lavoreremo solo per i mercati esteri Nella struttura verrano gestite anche le carni per comunità musulmane «Per le nostre produzioni a Chilivani, abbiamo già richieste dai mercati internazionali senza limiti di quantità». È stata questa la dichiarazione del responsabile della società Maalaoui Srl, che gestirà le linee di macellazione ovini del rinnovato frigomacello di Chilivani. Venerdì sera, durante l'incontro inaugurale della struttura, l'imprenditore tunisino, che opererà con la certificazione Halal valida per le comunità musulmane, ha chiesto la collaborazione ai tanti allevatori presenti. «Noi siamo qui per creare lavoro, non ci saranno problemi con il comparto del territorio - ha detto Maalaoui - noi lavoreremo carni destinate ai mercati fuori della Sardegna e in particolare in Francia, Germania e paesi arabi». Il sindaco Leonardo Ladu ha parlato di grande traguardo nel vedere la struttura agro industriale tolta dal Comune al decadimento e di ulteriori prospettive di sviluppo tramite il pieno utilizzo anche delle altre parti dell'immobile. «Si aprono nuovi scenari per gli allevatori del nostro territorio». Nel settore della produzione di carni di agnellone e pecora ci sarebbero richieste già pronte per grandi quantità. Per questo gli amministratori comunali di Ozieri hanno coinvolto le strutture tecniche regionali per studiare le forme più rispondenti per adeguare gli allevamenti alle esigenze che nasceranno. «Intendiamo lavorare solo carni suine sarde - ha spiegato Antonio Sale che gestirà il salumificio del frigomacello - chiediamo alle aziende della zona di integrare i loro allevamenti anche con i maiali allevati in semibrado perché possono garantire un ulteriore reddito». Soddisfazione è stata espressa dai rappresentati delle associazioni professionali agricole presenti. «La riapertura del frigomacello non può che essere che un fatto positivo - ha dichiarato Rino Canalis per la Cia - speriamo che si concretizzino nuove ricadute per il settore agro zootecnico del territorio che vive una situazione difficile». Il frigomacello, passato alla proprietà del Comune di Ozieri, si appresta quindi a divenire un punto di riferimento per le politiche di rilancio del comparto zootecnico della zona, anche con soluzioni innovative ed indirizzate verso lo sfruttamento delle energie rinnovabili. (r. s.)

In Basilicata il terzo parco eolico più grande d'Italia
ANZI - Dopo un periodo di costruzione di solo un anno, è entrato in esercizio il terzo parco eolico onshore italiano realizzato in partnership tra RWE Innogy e FRI-EL Green Power. Il parco eolico di Anzi è situato su un altopiano a 1.100 metri d’altezza in Basilicata. Le otto turbine eoliche, fornite dal costruttore Vestas, generano una potenza complessiva di 16 megawatt e produrranno ogni anno circa 31 milioni di chilowattora di energia elettrica pulita. Una quantità sufficiente a rifornire oltre 10.000 famiglie all’anno. L’investimento complessivo si aggira attorno ai 26 milioni di euro.
«Grazie ad Anzi ora in Italia disponiamo di una potenza installata di 67 megawatt, che intendiamo ampliare ulteriormente insieme al nostro partner italiano, concentrando le energie sull’eolico e sulla biomassa. Perfettamente in linea con la strategia di Innogy, che punta sia a diversificare le tecnologie sia le zone geografiche di investimento al fine di ottimizzare la produzione sfruttando le più idonee condizioni climatiche», spiega Paul Coffey, COO di RWE Innogy. Oltre al parco eolico di Anzi, RWE Innogy, in collaborazione con FRI-EL Green Power, ha inaugurato già nel 2010 una centrale eolica da circa 25 megawatt a San Basilio, in Sardegna, e un’altra da 26 megawatt a Ururi, in Molise. Le due aziende stanno inoltre costruendo in Sicilia la prima centrale a biomassa solida. La messa in funzione di questo impianto è prevista per la fine del 2012, con una potenza di 18,7 megawatt.
Attraverso la propria filiale RWE Innogy Italia S.p.A., RWE Innogy dal 2008 collabora con l'azienda italiana FRI-EL Green Power S.p.A., con sede a Bolzano, attiva nello sviluppo e nella gestione di centrali elettriche alimentate da fonti rinnovabili. Obiettivo della joint venture è la progettazione, la costruzione e la gestione di centrali eoliche e a biomassa in Italia.
«Oggi la regione Basilicata rappresenta un esempio di chiarezza ed efficienza normativa. Tale circostanza, unita all’esperienza e professionalità delle nostre aziende, ha reso possibile la costruzione del parco eolico in tempi rapidi ed offre maggiori garanzie per la pianificazione dei futuri investimenti”, commenta Paolo Grossi, COO di RWE Innogy Italia.
«L’entrata in rete del parco di Anzi a solo un anno di distanza dall’inizio dei lavori è un traguardo molto significativo per noi perché dimostra la professionalità e la validità della JV tra FRI-EL ed RWE.
Questo lo dobbiamo anche al positivo contesto ambientale ed amministrativo nell’ambito del quale abbiamo produttivamente cooperato con le amministrazioni locali e regionali della Basilicata“, afferma Josef Gostner, CEO di FRI-EL Green Power, che aggiunge poi: “Il mercato energetico italiano sta attraversando una fase di profondo mutamento anche nel settore delle rinnovabili. Riponiamo grosse speranze nel fatto che la politica implementi al più presto un sistema di incentivi alle rinnovabili su cui si possa fare affidamento nel lungo termine. Questo ci permetterebbe infatti di creare la sicurezza di pianificazione e investimento necessaria per portare avanti altri progetti in materia di rinnovabili».

Taranto. Di nuovo «nuvole rosse» dall’acciaieria dell’Ilva
di Fulvio Colucci
TARANTO - È di nuovo allarme slopping, le nuvole rosse dell’acciaieria Ilva finite nel mirino dei carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico). È stato ancora il tam-tam fotografico delle «ecosentinelle» sui social network, ieri, ad «avvisare» la cittadinanza che, intorno alle 13, si era nuovamente verificato un consistente fenomeno di emissione di fumi rossi.
Lo scorso luglio i militari dell’Arma, in una relazione alla magistratura, chiesero il sequestro degli impianti siderurgici annoverando proprio quel tipo di emissioni tra le anomalie che genererebbero il reato di emissioni non autorizzate in atmosfera. Lo slopping, secondo il direttore generale dell’Arpa, Giorgio Assennato, non comporta emissioni inquinanti particolarmente pericolose, ma contenendo minerale ferroso può incidere su alcune affezioni come l’asma.
Sempre ieri è tornato a far sentire la sua voce il comitato «Donne per Taranto». In una nota ha polemizzato sulla campagna di comunicazione avviata dall’Ilva. «È centrata sul tema dell'impegno. In particolare, quello verso l'ecocompatibilità che l'azienda avrebbe dimostrato di aver attuato nell'ultimo anno (ma che, al di là dei dati e dei numeri che sciorinano alla città, è molto ben distante dal parametro per noi fondamentale e imprescindibile che è la salute)». Il comitato parla di «un'autocelebrazione nei confronti di una gente che si vede ammalare e morire; di un territorio gravato nella sua economia e identità da ben tre ordinanze di divieto che riflettono la realtà e spengono la speranza: accesso alle aree a verde nel quartiere Tamburi, che non ci risulta affatto nè ritirata nè applicata, ma piuttosto "pasticciata"; divieto di pascolo nei 20 km intorno all'area industriale e mitilicultura nel primo seno del Mar Piccolo, con danni incalcolabili agli allevatori e ai mitilicoltori oltre che alla nostra economia locale e alla nostra storia».
Secondo «Donne per Taranto» l’iniziativa dell’Ilva è «lo schiaffo su una ferita aperta. Ci appare una grottesca estremizzazione della parodia di interventi a favore della comunità tarantina che l'industria pesante sta a gran voce pubblicizzando e alla quale i nostri amministratori, insieme anche a qualche esponente della cultura, stanno ingenuamente (?) ed entusiasticamente abboccando. Ci preme sottolineare, ancora una volta, qualcosa che risulterebbe ovvio a qualunque bambino: così come non ci può essere lavoro senza vita e salute, non ci può essere sport, musica, area verde (magari contaminata e non fruibile come quella dei Tamburi? Oppure si, perchè meno prossima ai veleni?), nè una viabilità più efficiente, nè altri miraggi di una qualità della vita migliore, in assenza di questo presupposto irrinunciabile: le condizioni ambientali inalienabili e fondamentali alla tutela della salute e alla salvaguardia del territorio. Tali condizioni, evidentemente, non ci sono. E non ci saranno - aggiunge il comitato - al di là dei proclami, fino a quando la realtà, anche economica, di Taranto rimarrà soffocata dall'industria che la attanaglia e le fa perdere "vita". Va rivendicato un impegno da parte dei nostri amministratori ancora troppo assenti: l'assolvimento dei compiti a tutela della salute dei cittadini. Obblighi sanciti dalla legge, ma riteniamo, ancor prima "morali"».

Puglia, l'asse Fitto-Vendola
di Michele Cozzi
BARI - Il Sud mette da parte le sue divisioni e decide di riprendere in mano il proprio destino. I protagonisti: il ministro Raffaele Fitto e il presidente pugliese, Nichi Vendola.
Raffaele e Nichi hanno deciso di cancellare le «vecchie ruggini» e di operare insieme per la Puglia e per il Mezzogiorno. Ha incominciato il governatore pugliese (lo ha fatto quattro volte): «Esprimo gratitudine al ministro Fitto per avere saputo accogliere il grido di dolore che da anni abbiamo lanciato a Roma». Non gli è stato da meno Fitto: «Con Vendola stiamo lavorando da tempo a questa stagione nell’interesse del territorio». E anche, con gli altri presidenti, per l’impegno che ha consentito «di aggiornare la programmazione che si era sviluppata in anni che sembrano lontanissimi».
Per il secondo anno consecutivo Fitto ha inaugurato la Fiera del Levante («Berlusconi? Ci sono stati altri impegni e il governo ha delegato me»), non nascondendo un pizzico di emozione. Tre gli assi del suo discorso: lo spirito di collaborazione; il valore della manovra correttiva («vanno aggrediti gli sprechi») e del piano per il Mezzogiorno; la difesa degli interessi del Sud in Europa (l’Italia contrasterà la proposta Merkel-Sarkozy sul taglio delle risorse e patto di stabilità).
Il ministro ha ricordato le tensioni politiche in atto nel Mediterraneo nonché la gravità della situazione economica. La crisi economica? «Una doppia recessione determinata dal sovrapporsi dell’enorme espansione del debito sovrano con il peggioramento delle prospettive di crescita dell’economia mondiale». L’Europa dell’euro («non è stato un golpe») è un’area forte, ma «siamo dinanzi ad un deficit di credibilità». E l’Italia? Secondo il ministro i conti pubblici sono migliorati (l’indebitamento sceso al 4,6% del Pil, dal 5,4% del 2009), ma «lo sviluppo non si finanzia con la spesa in deficit».

MANOVRA - Il governo ha ottenuto «l’approvazione di Bce e Ocse». E le dimissioni di Stark? «Se bastano le dimissioni di un capo economista a generare panico sui mercati è evidente il bisogno di istituzioni come la Bce». Basta, quindi, con le «rivendicazioni corporative». Un monito alle Regioni, che «lamentano, comprensibilmente la pesantezza dei tagli», ma occorre - aggiunge Fitto - «aprirsi al confronto e non allo scontro». Così ha «benedetto» la proposta di una commissione straordinaria paritetica».

MEZZOGIORNO - Su questo tema stato chiaro: «C’è una parte del Paese che deve ripristinare la propria sovranità anche sul piano interno». Ci sono stati tanti finanziamenti, «senza che non dico si chiudesse la maledetta forbice del dualismo, ma almeno che le sue lame si avvicinassero». E questo nonostante ci sia un Sud che produce. Però al «Mezzogiorno virtuoso» si contrappone un «Sud parallelo», nel quale dai «rifiuti alla sanità, alla qualità dei servizi nulla sembra funzionare e drammaticamente ciò che resta inadeguato, costoso, inefficiente è tutto quello che ruota attorno alla pubblica amministrazione». Uno scenario da rimuovere: «Su questo fronte dobbiamo dire “Si può”». Stile Obama.
Mentre c’è «una parte del Paese e dell’Europa che si aspetta un flop per dire che al Sud “Non si può”».

PIANO PER IL SUD - E i fatti? Per il ministro stanno nel piano con i contenuti e con le metodologie, come stabilito dalla delibera Cipe del 3 agosto 2011 che ha dato il via all’attuazione del primo degli otto capitoli, quello dedicato alle infrastrutture (ferrovie e strade). A disposizione 1,6 miliardi, per attivare un mix di infrastrutture per 20 miliardi, per opere di rilievo nazionale, e 5,8% per 128 infrastrutture di rilievo interregionale e regionale (schemi idrici, porti, interporti, banda larga). Complessivamente le risorse ammontano a 7,5 miliardi per investimenti pari a 30 miliardi.
È, altresì, in arrivo il piano per il sistema universitario, e bene ha fatto - ha aggiunto - la Puglia ad accogliere le indicazioni per i poli integrati di ricerca. E per lo sviluppo? Il governo ha predisposto tre forme di credito d’imposta a favore delle imprese; «un meccanismo negoziale che consente di escludere dal patto di stabilità parte delle spese sostenute per gli investimenti finanziati con fondi comunitari e nazionali»; il fondo di ingegneria finanziaria.

FONDI EUROPEI - Il rischio da evitare è perdere i finanziamenti e per questo sono state fissate regole. Questo insieme di regole - ha assicurato il ministro - sta dando i primi risultati. Ma per due misure sono scattate le misure di definanziamento. Fitto è stato categorico: l’Italia contrasterà clausole che sospendano il trasferimento delle risorse in caso di mancato rispetto del patto di stabilità.

Svizzera. Addio o arrivederci alle centrali atomiche?
Di Andreas Keiser, swissinfo.ch
Passo indietro nell'abbandono del nucleare, rischio di crollo di grandi banche, franco forte ed esportazioni, budget ed effettivi dell'esercito: la sessione autunnale del parlamento alla vigilia delle elezioni federali promette dibattiti vivaci e controversi.
 Si era parlato di una "decisione storica", ma anche di voltagabbana e di mancanza di convinzione. Era l'inizio di giugno. Lo shock per la catastrofe del reattore nucleare di Fukushima allora era ancora profondo. La maggioranza della Camera del popolo aveva approvato varie mozioni e così deciso che in Svizzera, alla scadenza delle autorizzazioni di esercizio per le centrali nucleari esistenti, non sarebbero più stati costruiti nuovi impianti atomici.
Il 28 settembre, spetterà alla Camera dei Cantoni esprimersi sulla questione. Non è escluso che la maggioranza dei senatori optino per uno scenario di ritiro attenuato. La commissione preparatoria, infatti, raccomanda al plenum di mettere vietare soltanto la costruzione di centrali nucleari dell'attuale generazione. Gli oppositori di un bando totale argomentano che anche nel campo dell'energia nucleare occorre lasciare la porta aperta per eventuali nuove tecnologie.
Se il Consiglio degli Stati (Camera alta) si pronunciasse per un abbandono "senza divieto tecnologico", le mozioni tornerebbero al Consiglio nazionale (Camera bassa), che avrebbe solo la possibilità di accettare i cambiamenti introdotti dai senatori o rifiutare le mozioni in blocco. Se invece la maggioranza degli Stati decidesse di seguire la via tracciata dal Nazionale, l'abbandono del nucleare sarebbe allora cosa fatta.

Più capitali propri per le banche
Nell'autunno del 2008, l'UBS si era ritrovata sull'orlo del tracollo. La Confederazione era intervenuta a suon di miliardi nel timore che un fallimento della più grande banca della Svizzera avrebbe potuto mettere in pericolo gran parte dell'economia economia elvetica.
Da allora, la cosiddetta rilevanza sistemica, ossia i pericoli legati alle banche di grandi dimensioni per l'intera economia del paese, è diventata un tema politico: il cosiddetto "too big to fail" (troppo grandi per fallire). Il parlamento se ne occupa tramite una revisione della legge, che prevede per gli istituti di rilevanza sistemica regole più severe in materia di capitali propri e di organizzazione.
Concretamente, le grandi banche in futuro dovranno disporre di fondi propri pari ad almeno il 19% della somma di bilancio, per coprire i rischi. Il 10% di essi dovrà essere costituito da azioni o utili non distribuiti, mentre il restante 9% potrà essere composto di obbligazioni CoCo (obbligazioni convertibili). Queste ultime in caso di crisi potrebbero essere convertite in azioni.
Il Consiglio degli Stati ha approvato la modifica di legge nella sessione estiva. Nel frattempo, la commissione preparatoria del Consiglio nazionale ha raccomandato al plenum di seguire questa decisione. Tuttavia, il dibattito alla Camera del popolo si preannuncia acceso, poiché la sinistra reclama disposizioni ancora più restrittive.
D'altra parte anche una minoranza dei partiti borghesi non dà il proprio avallo: una parte respinge tutto il progetto di revisione, un'altra vorrebbe introdurre un doppio sistema bancario, in modo che in caso di crisi si possano scorporare le attività di investment banking dal resto.

Pacchetto compresso
A metà agosto – con il franco che aveva raggiunto quasi la parità con l'euro – il ministro dell'economia Johann Schneider-Ammann ha annunciato in una conferenza stampa di voler stanziare 2 miliardi di franchi di aiuti destinati a sostenere l'economia e il turismo. Dopo che la stessa Federazione delle imprese svizzere economiesuisse ha respinto il pacchetto, il governo federale ha poi varato una prima serie di contributi per complessivi 870 milioni.
In seguito, la commissione competente del Consiglio nazionale ha rifiutato il pacchetto, tenuto conto della mossa della Banca nazionale svizzera (BNS), che nel frattempo ha fissato una soglia minima di frs 1.20 per 1 euro. La commissione gemella del Consiglio degli Stati, invece, lo ha approvato.
Secondo quest'ultima, entro la fine dell'anno, dovrebbero essere attribuiti 500 milioni di franchi all'assicurazione di disoccupazione per consentire alle aziende in difficoltà di ricorrere alla disoccupazione a tempo parziale. Altri 212,5 milioni dovrebbero sostenere la ricerca e l'innovazione, mentre 100 milioni di franchi dovrebbero andare al settore turistico. Entrambe le Camere del parlamento ne discuteranno durante questa sessione.

Disputa sull'esercito
Negli ultimi mesi, la discussione sul futuro dell'esercito svizzero è stata incentrata soprattutto sui costi sugli effettivi necessari per assolvere i propri compiti futuri. A ciò si è aggiunta un'altra questione: se occorre sostituire la vecchia flotta di Tiger, con quanti nuovi aerei da combattimento e quali sono le modalità dell'operazione.
Nel 2010 nel proprio rapporto sull'esercito, il governo aveva calcolato un budget annuale di 4,8 miliardi di franchi e un effettivo di 80mila membri. Ciò ha provocato aspri dibattiti nelle commissioni parlamentari.
Dopo che la Camera dei Cantoni lo scorso giugno ha deciso di accordare più risorse di quelle previste dall'esecutivo, optando per 5,1 miliardi di franchi e 100mila militi, ora si deve pronunciare la Camera del popolo.
All'orizzonte si profila un braccio di ferro. Infatti, la sinistra rosso-verde non è d'accordo con la variante adottata dal Senato. Vuole un esercito più piccolo e più economico. Al contrario, nei ranghi dei partiti di centro e di destra vi sono deputati che, come la società svizzera degli ufficiali, reclamano un esercito di 120mila soldati.

L'ombra delle elezioni
Dibattiti infiammati si preannunciano anche alla sessione straordinaria sulla politica in materia d'immigrazione e di asilo, che avrà luogo in entrambe le Camere. Sul tavolo c'è una serie di atti parlamentari che daranno adito a controversie.
Il tutto in un clima preelettorale nel quale molti membri delle Camere federali non mancheranno l'ultima occasione prima della votazione del 23 ottobre di dimostrarsi attivi di fronte all'elettorato. Per ogni tema sono dunque attesi molti e lunghi interventi.
 Andreas Keiser, swissinfo.ch
(Traduzione dal tedesco: Sonia Fenazzi)

11 settembre, il costo economico per gli Usa
di Joseph Stiglitz - 09/05/2011
L’11 settembre 2001, gli attacchi terroristici di al Qaida miravano a danneggiare gli Stati Uniti, e ci sono riusciti, ma in un modo che nemmeno Osama bin Laden si sarebbe mai immaginato. La risposta dell’allora presidente George W. Bush agli attacchi ha intaccato i principi fondamentali dell’America, minato la sua economia e indebolito la sicurezza del Paese.
L’attacco all’Afghanistan seguito agli attentati dell’11 settembre aveva un senso, ma la successiva invasione dell’Iraq non era in alcun modo associabile ad al Qaida – diversamente da quanto volesse far credere Bush. Quella “guerra per scelta” divenne presto molto costosa, rispetto alla cifra di 60 miliardi di dollari inizialmente stimata, in un momento in cui l’incompetenza del colosso americano si fondeva con le dissimulazioni disoneste.

In effetti, quando tre anni fa, insieme a Linda Bilmes, ho effettuato un calcolo dei costi sostenuti dall’America per la guerra, la cifra stimata dai conservatori si aggirava tra 3000 e 5000 miliardi di dollari.
Da allora, i costi sono saliti vertiginosamente. Considerando il 50% dei reduci che devono ricevere assegni di invalidità, e gli oltre 600.000 soldati curati nelle strutture mediche dei veterani, stimiamo che i futuri assegni di invalidità e i costi sanitari oscilleranno tra i 600 e i 900 miliardi di dollari. I costi sociali, visibili nel numero di suicidi dei veterani (18 al giorno negli ultimi anni) e nei tracolli familiari, sono invece incalcolabili.

Anche volendo perdonare Bush per aver trascinato in guerra, con falsi pretesti, l’America e gran parte del mondo, e per aver travisato i costi della missione, non ci sono scuse per il modo in cui essa è stata finanziata. La sua è stata la prima guerra della storia interamente finanziata dal credito. Quando l’America entrò in guerra, i deficit erano già alle stelle a seguito degli sgravi fiscali concessi nel 2001, ma Bush decise di concedere ulteriori misure di “sollievo” fiscale per i ricchi.

Oggi l’America è concentrata sulla disoccupazione e sul deficit. Queste due minacce per il futuro del Paese sono, senza alcun dubbio, riconducibili alle guerre in Afghanistan e Iraq. Le massicce spese per la difesa, insieme ai tagli fiscali di Bush, sono il motivo chiave per cui l’America è passata da un surplus fiscale pari al 2% del Pil, nel momento in cui si insediava Bush, alla difficile posizione di deficit e debito in cui si trova oggi. Il denaro pubblico investito in queste due guerre ad oggi ammonta a 2000 miliardi di dollari (17.000 dollari a carico di ogni famiglia americana) – non contando gli ulteriori disegni di legge che prevedono di incrementare questa cifra del 50 per cento.
Inoltre, come sosteniamo io e Bilmes nel nostro libro Le guerre da 3000 miliardi di dollari, hanno contribuito alle debolezze macroeconomiche dell’America, che inaspriscono il peso dei deficit e del debito. Allora, come oggi, le rivolte nel Medio Oriente hanno portato a un’impennata dei prezzi del petrolio, spingendo gli americani a investire denaro nelle importazioni di petrolio invece di spenderlo acquistando merci prodotte negli Usa.
Poi la Federal Reserve americana ha nascosto tali debolezze escogitando una bolla immobiliare che ha innescato un boom dei consumi. Ci vorranno anni per riprendersi dagli eccessivi indebitamenti e dai problemi del settore immobiliare.
È ironico che siano state le guerre a compromettere la sicurezza dell’America (e del mondo), in un modo che Bin Laden non si sarebbe mai immaginato. Una guerra impopolare avrebbe reso difficile il reclutamento di militari. Volendo ingannare l’America sui costi delle guerre, Bush non ha dotato le truppe di fondi sufficienti, rifiutando anche spese basilari, tra cui gli automezzi blindati e antimina necessari a proteggere le vite degli americani, o le cure sanitarie adeguate per i veterani di ritorno dalla guerra. Un tribunale americano si è recentemente pronunciato sulla violazione dei diritti dei veterani. (In via del tutto insolita, l’Amministrazione Obama chiede delle limitazioni al diritto dei veterani di appellarsi ai tribunali!).
Lo strapotere militare ha, come previsto, portato a un nervosismo sull’uso della forza militare, e il fatto che altri ne siano a conoscenza rischia di indebolire la sicurezza stessa dell’America. Ma la vera forza del Paese, più che la forza militare ed economica, risiede nella “soft power”, ossia nell’autorità morale. Anche questa ha subito un duro colpo: nel momento in cui gli Usa hanno violato i fondamentali diritti umani come l’habeas corpus (strumento azionabile per accertarsi che la persona sia stata detenuta legalmente) e il diritto a non essere torturati, il suo antico impegno nei confronti del diritto internazionale è stato messo in discussione.
In Afghanistan e Iraq, gli Usa e i suoi alleati sapevano che una vittoria a lungo termine avrebbe dovuto puntare a conquistare cuori e menti. Ma gli errori fatti nei primi anni di queste guerre hanno reso più complicata la già difficile battaglia. I danni collaterali delle guerre sono stati ingenti: secondo alcuni, oltre un milione di iracheni sono morti, direttamente o indirettamente, a causa della guerra. Secondo alcuni studi, almeno 137.000 civili sono stati massacrati in Afghanistan e Iraq negli ultimi dieci anni; solo tra gli iracheni si contano 1,8 milioni di rifugiati e 1,7 milioni di sfollati interni.
Non tutte le conseguenze sono state disastrose. I deficit, massicciamente alimentati dalle guerre americane, finanziate con il debito, stanno già inducendo gli Usa ad affrontare la realtà sui vincoli di bilancio. Gli Usa spendono per il settore militare quanto il resto del mondo messo insieme, due decenni dopo la fine della Guerra fredda. Alcune spese hanno alimentato le costose guerre in Iraq e Afghanistan e la guerra su vasta scala contro il terrorismo, ma gran parte del denaro speso è andato sprecato in armi che non funzionano contro nemici che non esistono. Ora, alla fine, queste risorse potrebbero essere nuovamente dispiegate, e l’America potrà contare su una maggiore sicurezza pagando meno.
Al Qaida, pur non sconfitto, non appare più come la minaccia che incombeva subito dopo gli attacchi dell’11 settembre. Ma il prezzo pagato per arrivare a questo punto, negli Usa e altrove, è altissimo – e avrebbe potuto essere evitato. Questo retaggio ci accompagnerà per molto tempo. Sarebbe auspicabile pensare prima di agire.
* Joseph E. Stiglitz è professore universitario alla Columbia University, premio Nobel in economia
© Project Syndicate

Nessun commento: