lunedì 12 settembre 2011

Federali.mattino_12.9.11. Operai costretti a diventare bolzanini.----Foggia, Ernesto Tardivo: All’indomani della sentenza che ha sancito che «l’Amica non può fallire» si son ritrovati tutti all’ombra del cupolone dell’Incoronata per guardarsi in faccia e trovare la preghiera giusta. Già, perchè la situazione finanziaria dell’azienda spa dei rifiuti è come una biglia che corre veloce su un piano inclinato e rischia di mandare in buca anche il Comune. La verità è che la sentenza se per alcuni è come se avesse messo un bastone fra i cingoli per altri ha solo mandato un messaggio scontato in punta di giurisprudenza. Il vero punto adesso non è tanto analizzare l’accaduto, quando accorgersi di quello che sta accadendo intorno.----Filadelfo Scamporrino: Complessivamente per l’agricoltura italiana, un settore primario e fondamentale, anche perché anticiclico, il costo annuo della burocrazia viene valutato in complessivi tre miliardi di euro a fronte di palesi difficoltà legate al ricambio generazionale; per tutta una serie di ragioni, comprese quelle legate alle pastoie burocratiche, infatti, in Italia per un giovane agricoltore avviare un’impresa è sempre più difficile.

Gli operai costretti a diventare bolzanini
Foggia, la promessa del sindaco Mongelli «Risaneremo l’Amica»
Imprese agricole italiane oppresse dalla burocrazia


Gli operai costretti a diventare bolzanini
Chiude la fabbrica in Irpinia: trasferiti in Alto Adige per non perdere il lavoro
di Luca Fregona
  BOLZANO. Francesco De Meo, 48 anni, 22 di fabbrica. Angelo Giusto, 49 anni, 22 di fabbrica. Oreste Ciccone, 32 anni, 8 di fabbrica. Operai dello stabilimento Irisbus Iveco di Flumeri, provincia di Avellino. Novecentoquaranta chilometri da Bolzano. Aristocrazia operaia: 800 lavoratori specializzati che costruivano bus urbani ecologici, tecnologicamente avanzatissimi. Gli unici a saperli fare in Italia. Tra i pochi in Europa. Il 20 giugno scorso l'azienda li ha chiamati dopo un anno di cassa integrazione seguito alla crisi delle commesse e alla decisione di vendere lo stabilimento. «Se volete c'è per voi un posto all'Iveco di Bolzano. Almeno per sei mesi». Dai bus ai blindati. Dall'Irpinia al profondo Nord. Prendere o lasciare. In 27 hanno accettato. Il giorno dopo erano già in tuta ad avvitare bulloni in via Volta. «Stare a casa senza fare niente ti uccide. Saremmo andati fino in Nuova Caledonia pur di riavere un lavoro e la nostra dignità». De Meo, Ciccone e Giusto parlano per tutti i "ventisette". «Non avevamo scelta. Ci hanno messo una pistola alla tempia. Ci hanno detto che saremmo ritornati, che le cose si sarebbero messe a posto. Ma dieci giorni dopo che eravamo arrivati a Bolzano, abbiamo saputo che l'Iveco cede lo stabilimento». Il mondo è cambiato. La sicurezza non esiste più, la flessibilità, pardon la "delocalizzazione", è un ventaglio che si apre e chiude spostando uomini e destini. «Ci siamo fatti un anno di cassa integrazione a rotazione - racconta De Meo -. E siccome di commesse non ce n'erano, si è lavorato comunque pochissimo». Un anno al 58% della busta paga: 750 euro netti al mese. «Molti di noi hanno fatto fuori i risparmi. Oppure hanno dovuto chiedere soldi in prestito a banche e parenti. Chi aveva un mutuo si è venduto la casa». Questi operai che pensavano di avere un posto sicuro e garantito, che erano orgogliosi di appartenere ad un gruppo solido, fieri di fare con le loro mani qualcosa di importante, non riescono ancora a capire lo tsunami che li ha travolti. «Non viviamo sulla luna. Sappiamo che c'è la crisi. Ma ad affondarci è stata anche la decisione del governo Belrusconi di far saltare il finanziamento per l'acquisto dei bus ecologici. E questo nonostante l'Italia sia un Paese sotto infrazione Ue perché utilizza un parco mezzi vecchio, e rischi pure una multa da due milioni di euro». La cosa che fanno più fatica a comprendere è come mai l'azienda, che nel 2010 ha ristrutturato lo stabilimento spendendo 9 milioni di euro, poi abbia deciso di vendere. Il preliminare è stato già firmato. L'acquirente è l'imprenditore Massimo Di Risio, fondatore del gruppo Dr, un'altra impresa che gravita nell'universo Fiat e produce Suv italo-cinesi. «Ha già detto che di 800 che siamo, ne terrà al massimo 250». L'Irisbus-Iveco ha promesso che non lascerà nessuno a casa. Ma "distaccando" gli operai. «Spedendoci in ogni angolo del Paese». A loro è toccata Bolzano. Contratto di sei mesi. Paga da metalmeccanico più diaria di 90 euro al giorno. Vivono in un residence di Andriano, dove sborsano oltre 500 euro a testa. «I colleghi ci sfottono, quasi fossimo in villeggiatura perché prendiamo un rimborso per la trasferta e viviamo in mezzo ai meli...», dicono amari. Ma non c'è niente da ridere. «Con quei soldi manteniamo noi qui, e le nostre famiglie giù. Poi dobbiamo rimetterci in sesto dopo un anno di cassa integrazione. La cosa più grave è che non sappiamo che sarà di noi». Il contratto all'Iveco di Bolzano ha il timer puntato sul 30 dicembre. «Ma se Irisbus e Di Risio non concludono entro settembre, rischiamo di essere a spasso dal primo ottobre. Se Irisbus chiude senza vendere, Iveco Bolzano non ha più nessun obbligo a tenerci. A meno che...». A meno che? «A meno che non accettiamo di trasferirci qui per sempre. La proposta ci è stata fatta». "Distaccati" per sempre a 50 anni. Quella parola, "distaccati", ronza nelle loro teste come un mantra maledetto. «Lessico da manager per farci ingoiare la pillola». Che significa lasciare casa, famiglia, affetti, la vita di sempre. Pendolari da 940 chilometri a botta. Sarebbero anche pronti a farlo. Ma hanno fatto due conti. «Noi guadagniamo 1.200, 1.300 euro al mese al massimo. A Bolzano la vita costa tantissimo, gli affitti sono proibitivi. Come facciamo a mantenere noi e le nostre famiglie ad Avellino?». La maggior parte è intenzionata a tornare giù. L'unica speranza è essere tra i 250 «salvati» che - forse - avranno ancora un posto.  «Per tutti gli altri è la fine. L'azienda dirà di averci dato l'opportunità di un lavoro a Bolzano e che noi l'abbiamo rifiutata». La pistola alla tempia. «In Irpinia non c'è niente. L'Irisbus era l'unica realtà produttiva che garantiva occupazione. Con l'indotto dava da mangiare a duemila famiglie. Questa chiusura avrà un costo sociale altissimo». Combattono gli operai costretti a diventare bolzanini, e combattono i loro compagni rimasti a Flumeri. «Presidiano i cancelli. Noi siamo con loro. Ma mastichiamo amaro quando vediamo che a livello nazionale nessuno dice niente. Chiude una fabbrica con 800 operai, e nessuno vuole raccontarlo. Perché?». L'unico ad occuparsi di loro è stato il Papa. «Sono vicino agli operai della Irisbus», ha detto dopo l'Angelus domenicale. «Ma i tiggì hanno tagliato il passaggio. Si vede che non facciamo notizia». l.fregona@altoadige.it 11 settembre 2011

Foggia, la promessa del sindaco Mongelli «Risaneremo l’Amica»
di Ernesto Tardivo
FOGGIA - Voleva fosse una profezia, laddove le profezie talvolta seguono il corso delle intenzioni; la sentenza sull’Amica si è trasformata invece in un «giovedì nero», laddove il nero sta in quel che non t’aspetti. «MalAmica», verrebbe da dire. E figurarsi se Gianni Mongelli avrebbe voluto mai diventare uno degli ultimi narratori della storia dell’azienda della monnezza, il più grande carrozzone della storia politica della città che oggi proprio a lui, suo malgrado, presenta il conto. E sebbene si sgoli a ripetere che quei conti non sono suoi lui deve vestire i panni del fautore dell’agognato risanamento e allo stesso tempo della vittima sacrificale di una situazione al limite dell’irreparabile. All’indomani della sentenza che ha sancito che «l’Amica non può fallire» si son ritrovati tutti all’ombra del cupolone dell’Incoronata per guardarsi in faccia e trovare la preghiera giusta. Già, perchè la situazione finanziaria dell’azienda spa dei rifiuti è come una biglia che corre veloce su un piano inclinato e rischia di mandare in buca anche il Comune. La verità è che la sentenza se per alcuni è come se avesse messo un bastone fra i cingoli per altri ha solo mandato un messaggio scontato in punta di giurisprudenza. Il vero punto adesso non è tanto analizzare l’accaduto, quando accorgersi di quello che sta accadendo intorno.
Sindaco, dica la verità non se l’aspettava...
«Guardi, io non entro nel merito del giudizio, dico solo che questa decisione rende più difficile e complicato il percorso che avevamo tracciato per l’Amica».
Ma il verdetto lo avrà pure analizzato...
«Al di là degli assunti forse non si è tenuto conto del parere del ministero per lo sviluppo economico e di orientamenti giurisprudenziali importanti che pensavamo potessero far testo. Alludo alle sentenze su Asia e ad altre sparse per l’Italia che ricalcavano pedissequamente la vicenda dell’azienda foggiana».
E adesso?
«Adesso dovremo sperare nel giudizio di appello, mi auguro presto con una forte specificazione dei motivi»
Un risanamento frenato...
«Noi speriamo in un ribaltamento de giudizio: se così sarà daremo continuità al percorso intrapreso che è l’unico che dà garanzie a creditori azienda e Comune. Perchè con l’amministrazione straordinaria dovranno essere prospettati risanamento e tutela e occupazionale».
La sentenza ha accentuato la divaricazione delle posizioni tra madre e figlia, Amica e Daunia Ambiente...
«Anche Daunia Ambiente otterrà benefici migliori di quelllo che potrebbe succedere nel caso inverso. Io sono convinto del fatto che non sia così automatico che i debiti passino al Comune se dovesse essere riconfermata la non ammissione all’amministrazione controllata».
E’ una ipotesi...
«Certo, i debiti potrebbero anche passare al Comune ma lo scenario che si andrebbe a instaurare sarebbe più irto di problemi: si passerebbe ad un un contenzioso con Amica la cui situazione deriva da scelte sbagliate di ex amministratori».

Allude al fatto che in ultima analisi si potrebbe prefigurare una azione di responsabilità nei confronti degli ex gestori di Amica?
«Io dico che qualora il patrimonio dell’azienda non dovesse essere sufficiente e il Comune dovesse inevitabilmente andare in dissesto i creditorii di Amica sarebbero costretti ad accontentarsi di ciò che verrà fuori».
E’ preoccupato?
«No, perchè ho le idee chiare; ma amareggiato sì».
Per cosa, per la sentenza?
«Ma no...Le confesso che in questa storia sotto certi aspeti anche coinvolgente visti i legittimi interessi delle parti in causa ho visto una sorta di tifo contro, una specie di caccia allo sfascismo. Qualcuno evidentemente vuole che anche l’ultimo giapponese se ne vada. E questo non mi va giù».
Ci sono delle scadenze importanti...
« Adesso passeremo per il bilancio il 14: dal punto di vista politico la prospettiva è positiva con tutte le difficoltà del caso».
Sindaco, torniamo alla vicenda Amica: il tempo è tranno non gioca a favore? Il giudizio di appello non sarà questione di giorni...
«Quindici giorni per la richiesta...Non la vedo così lunga».
Ingegnere, ma nei fatti cosa è cambiato?
«Dal punto di vista della operatività, nulla».
E i conti?
«I conti di Amica hanno avuto tre milioni di minori costi: c’è ancora perdita, ma bisogna comunque tutelare azienda e servizio pubblico».
Che messaggio vuol lanciare?
«Che nonostante questo fuoco incrociato c’è la convinzione di andare avanti. Io parlerò sempre con la città per far capire quello che sta succedendo . Abbiamo avuto ieri una lunga giornata, sono state fatte riflessioni per obiettivi di mandato. Ci siamo prefissati una decina di cose da fare»
Cosa?
«Dieci cose: rilancio produttivo ed economico, attività produttive, attenzione ai servizi pubblici e sicurezza il ruolo che Foggia deve ritrovare come epicentro della provincia, e poi aeroporto senza nominare più la parola dissesto».
11 Settembre 2011

Imprese agricole italiane oppresse dalla burocrazia
Il rapporto degli agricoltori con le Amministrazioni Pubbliche in Italia è non solo difficile, ma anche costoso. A rilevarlo è la Cia, Confederazione Italiana Agricoltori, la quale ha sottolineato a Torino, nel corso della Festa nazionale dell’agricoltura, come le PMI agricole ogni mese debbano impiegare ben otto giorni per riempire moduli e carte, e come si spendano ben due euro per ogni ora di lavoro per gli adempimenti e soprattutto per i ritardi. Complessivamente per l’agricoltura italiana, un settore primario e fondamentale, anche perché anticiclico, il costo annuo della burocrazia viene valutato in complessivi tre miliardi di euro a fronte di palesi difficoltà legate al ricambio generazionale; per tutta una serie di ragioni, comprese quelle legate alle pastoie burocratiche, infatti, in Italia per un giovane agricoltore avviare un’impresa è sempre più difficile.
Il tutto nonostante basterebbe poco per abbattere tali oneri; la Cia infatti ritiene che con un abbattimento del 25% del carico burocratico a carico sulle imprese queste ultime risparmierebbero annualmente la bellezza di quasi 31 miliardi di euro, che corrispondono all’1,7% del prodotto interno lordo nazionale. Insomma, trattasi di ingenti risorse che potrebbero essere spese per gli investimenti, per lo sviluppo e la ricerca con conseguenti ricadute positive anche sull’occupazione.
Ed invece ad oggi un’impresa agricola italiana spende 600 euro al mese per la burocrazia, corrispondenti a 7.200 euro l’anno, per quella che la Confederazione Italiana Agricoltori bolla in tutto e per tutto come un “divoratore di risorse” in una fase come quella attuale caratterizzata, per chi gestisce un’impresa, da difficoltà di ogni tipo.
Filadelfo Scamporrino

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