venerdì 30 dicembre 2011

Federali_sera_30.12.11. Non abbiamo piu’ doveri.----Il futuro demografico è legato a questa lunga fase di stagnazione e recessione economica, di complessivo impoverimento e di disoccupazione diffusa, soprattutto tra i giovani, che influisce sui più generali progetti, personali e collettivi, dei sardi.----Da gennaio a oggi infatti la stessa idea l'hanno avuta almeno altri settecento imprenditori nordestini che hanno abbandonato le aspre terre venete - e in misura minore quelle trentine e friulane - per aprire nuove fabbriche in Cina, in Brasile, in Romania, in Repubblica Ceca o in Slovenia. E le imprese non sono partite in completa solitudine: con loro sono spariti anche tredicimila posti di lavoro.

LA NUOVA SARDEGNA - Economia: I sardi sono sempre meno e più vecchi
Veneto, padania. Settecento aziende in fuga
Istat: nel 2009 in calo imprese a controllo estero residenti in Italia
Le carte restano coperte
Serbia: approvata legge finanziaria per il 2012



LA NUOVA SARDEGNA - Economia: I sardi sono sempre meno e più vecchi
30.12.2011
Istat: crescita fino al 2015 solo grazie agli immigrati CAGLIARI. La popolazione della Sardegna, a fine 2011, è di 1.677.619 abitanti; aumenterà leggermente sino al 2015 (1.681.302) grazie agli immigrati, ma dal 2016 fino al 2065 è destinata a ridursi progressivamente sino ad arrivare a quota 1.325.019. Il tasso di natalità è di 8 neonati ogni mille abitanti contro l’8,8‰ del tasso di mortalità, con un tasso di crescita naturale negativo (da -0,8‰ nel 2011 a -11,1‰ nel 2065). I sardi inoltre invecchiano più che in altre regioni: l’indice di vecchiaia al 2011 è pari al 158,6‰, diventerà del 345,6‰ nel 2065. Sono i principali indicatori demografici per l’isola diffusi dalla Cisl in base al rapporto Istat su reddito e condizioni di vita relativo al 2010. Il sindacato si dice preoccupato per il futuro della Sardegna e chiede di avviare da subito, già a partire dalla prossima finanziaria regionale, una serie di interventi mirati in favore della famiglia e della disoccupazione giovanile, che si inseriscano, in sinergia con i provvedimenti nazionali - spiega il segretario regionale - all’interno di un più generale processo di riforma dello stato sociale, per evitare che le previsioni di un declino irreversibile nel lungo termine diventino una sorta di condanna in termini di sviluppo, crescita economica e demografica, condizioni di vita e di lavoro dei sardi. Secondo il segretario della Cisl Mario Medde, «un aspetto positivo riguarda la speranza di vita che aumenterà per le femmine da 85,2 nel 2011 a 91,0 nel 2065, per i maschi da 79,1 a a 85,4. Il futuro demografico è legato a questa lunga fase di stagnazione e recessione economica, di complessivo impoverimento e di disoccupazione diffusa, soprattutto tra i giovani, che influisce sui più generali progetti, personali e collettivi, dei sardi».

Veneto, padania. Settecento aziende in fuga
«Ma il boicottaggio è folle»
Fondazione Nord Est: nuova ondata, nel 2011 persi 13mila posti Gli economisti: la «rilocalizzazione»
è una tendenza irreversibile
VENEZIA — Non è stata un'iniziativa isolata quella dell'amministratore delegato della Ditec di Quarto d'Altino che l’altro giorno ha deciso di chiudere i battenti, licenziare novanta dipendenti su cento e trasferire lo stabilimento produttivo nell'ormai vicinissimo oriente. Da gennaio a oggi infatti la stessa idea l'hanno avuta almeno altri settecento imprenditori nordestini che hanno abbandonato le aspre terre venete - e in misura minore quelle trentine e friulane - per aprire nuove fabbriche in Cina, in Brasile, in Romania, in Repubblica Ceca o in Slovenia. E le imprese non sono partite in completa solitudine: con loro sono spariti anche tredicimila posti di lavoro. Una tragedia in termini assoluti se si considera che fino all’anno scorso il saldo tra imprese che abbandonavano il Veneto e aziende che aprivano i battenti non si allontanava dallo zero e che a differenza degli anni Novanta ha motivazioni profondamente diverse. «Il sistema paese sta spingendo sempre più aziende di varia natura a cercare nuove aree produttive e questa tendenza sembra irreversibile», spiega Daniele Marini della Fondazione Nord Est. E infatti a lasciarsi alle spalle il Veneto ormai non sono più solo le aziende con produzioni a basso valore aggiunto alla ricerca di manodopera a basso prezzo.
La Ditec opera nel campo dell’automazione industriale e nell’ultimo anno - proprio grazie alla competenza tecnica dei suoi operai - ha goduto di un aumento del 12% del fatturato. «La rilocalizzazione delle aziende venete è anche legata alla necessità di spostare le aree produttive in luoghi più vicini ai nuovi consumatori. Si produce in Cina per vendere in Cina», interviene Paolo Gubitta, docente di Economia dell’università di Padova. «E la nostra perdita di produttività è legata al fatto che gli altri paesi acquisiscono comptenze tecniche anno dopo anno», fa eco Enzo Rullani, docente di Economia della conoscenza alla Venice International University. A sentire i due economisti, il fenomeno della rilocalizzazione dunque non è altro che il consolidamento di una situazione di disequilibrio economico e produttivo che dura ormai da anni e che precede di molto tempo la crisi di Lehman Brothers del 2007. «Le regole del gioco sono cambiate. Quello che possiamo fare noi è studiare di più, imparare di più, produrre di più», continua Rullani. Un’idea realizzabile solo attraverso un patto tra aziende e sindacati. E i politici? A sentire gli economisti - che non nascondono l’amarezza per le dichiarazioni di Valdo Ruffato ed Elena Donazzan che hanno minacciato di boicottare l’Ikea se la svedese Ditec non avesse ritirato i licenziamenti - dovrebbero ricordarsi che la maggior parte dei fornitori del colosso del mobile sono aziende venete. «Invece di attaccare Ikea che ha creduto nel made in Italy, la politica dovrebbe fare un ragionamento profondo sulla competitività », aggiunge Stefano Micelli, professore di Economia dell’ateneo veneziano.
«E’ giusto difendere i presidi manifatturieri sul nostro territorio perché non bisogna credere alla favola che si possa andare avanti solo con la produzione immateriale - continua Micelli - ma questo si fa lavorando sulle semplificazioni burocratiche, sulla realizzazione di infrastrutture e puntando sulla tradizione artigiana, non insultando l’Ikea». Non si tratta però della difesa delle catene di montaggio. Quelle ormai sono destinate a scomparire nel lungo periodo. Si tratta di produzioni di nicchia che si rinnovano continuamente come quelle legate al mercato del lusso, già premiato dagli investimenti di Louis Vuitton in Veneto. E in effetti l’eccellenza nel sistema manifatturiero ha creato migliaia di posti di lavoro anche durante il periodo di crisi come dimostrano i numeri. Perché secondo Confindustria Venezia è vero che nel Veneziano hanno chiuso più di cento stabilimenti produttivi e ne hanno aperti solo una sessantina, ma è altrettanto vero che il saldo dei posti di lavoro non è negativo. «Quella della Ditec è una scelta che fa arrabbiare perché si tratta di pura speculazione - sbotta il presidente degli industriali veneziani Luigi Brugnaro che lancia un appello al ministro dello Sviluppo Corrado Passera perché incontri i rappresentanti territoriali di Confindustria e non solo i nazionali - Abbiamo parlato con rappresentanti della Dietc ma non è servito». Secondo Brugnaro che liquida come «inutili» le dichiarazioni contro l’Ikea «quello di cui c’è bisogno è un intervento a livello europeo: serve un sistema di agevolazioni e pressioni per costringere chi vuole commerciare sul nostro mercato ad avere almeno uno stabilimento in loco. La Ditec va in Cina. Vada pure, ma allora i suoi prodotti li venderà solo in Cina!».
Alessio Antonini

Istat: nel 2009 in calo imprese a controllo estero residenti in Italia
30 Dicembre 2011 - 12:15
 (ASCA) - Roma, 30 dic - Nel 2009 le imprese a controllo estero residenti in Italia sono state 14.155, con una occupazione di oltre 1,2 milioni di addetti, un fatturato di 444,5 miliardi di euro e un valore aggiunto di 79,3 miliardi di euro. Rispetto al 2008 si e' registrato una flessione del numero delle imprese (-1,5%) e degli addetti (-3,5%), nonche' una forte riduzione del fatturato (-9,1%), del valore aggiunto (-10,3%) e degli investimenti (-17,2%).
 Nel complesso del sistema produttivo, la contrazione e' piu' accentuata per addetti e investimenti, meno rilevante per fatturato e valore aggiunto. E' quanto rende noto l'Istat presentando i dati relativa alla 'Struttura e attivita' delle imprese a controllo estero'.
com-elt/lus/alf

Le carte restano coperte
di Stefano Folli
Monti dimostra di aver appreso l'arte di occupare il centro della scena senza snaturare se stesso. Si può dire che il presidente del Consiglio è molto attento a curare questa immagine di persona severa e competente, misurata nelle parole, persino «banale» (parole sue). Non è un caso, naturalmente: Monti lavora dal primo giorno del mandato a consolidare il cerchio della fiducia e ad apparire in ogni circostanza un uomo affidabile. Ben sapendo che la fiducia è il tassello fondamentale della credibilità, il maggior patrimonio di cui il premier dispone. In Italia e in Europa.
I critici dicono che la conferenza stampa è stata una mezza delusione perché non ne sono uscite misure concrete o particolari novità. Si è avuta conferma di obiettivi in parte già conosciuti: il programma delle liberalizzazioni, lo stimolo alla concorrenza, la flessibilità del mercato del lavoro (senza innescare, beninteso, «tensioni sociali»). Tuttavia è chiaro che proprio questa è la cifra di Monti: il governo non perde tempo, anzi tende a correre più della media dei governi «politici», ma nemmeno si crogiola in annunci mediatici destinati a drogare i mercati per un giorno o due e poi magari a produrre delusioni e cadute repentine.
Questo aspetto spiega forse perchè il presidente del Consiglio si è tenuto alla larga dalle ipotesi di interventi straordinari sul debito pubblico. Ha fatto capire che non è il momento di parlarne; il che non esclude, è ovvio, che stia studiando la questione. Ma evidentemente ne parlerà a tempo debito, se e quando sarà indispensabile. Nel complesso Monti procede con cautela, incurante di chi lo ritiene poco coraggioso e attento piuttosto a non mettere un piede in fallo. Ieri è sembrato rivolgersi soprattutto a tre interlocutori.
In primo luogo, all'opinione pubblica. Gli italiani, benchè schiacciati sotto il peso delle tasse, continuano a guardare al professore milanese con rispetto e soggezione. Sottinteso: meglio essere governati da lui, magari con durezza, che da forze politiche screditate. Qualcosa di simile accadde nel 1981-82 con Spadolini a Palazzo Chigi. Monti gode di una finestra di opportunità che non si chiuderà tanto presto, perché nessuno - a parte i malumori - è oggi in grado di rovesciarlo. Le alternative non ci sono e la pubblica opinione resta la migliore alleata del premier «tecnico». Purché la carta della credibilità non sia intaccata.
Il secondo interlocutore è l'Europa. O meglio, la Germania. Monti si è definito «il più tedesco degli economisti» e ha molto giocato con questa definizione. Essere affidabile agli occhi della Merkel, cancellandone i pregiudizi anti-italiani, rappresenta in effetti un elemento cruciale. Permette all'Italia di negoziare con Berlino, di battere metaforici pugni sul tavolo dell'Unione. «Anche i tedeschi devono conquistarsi la nostra stima» ha detto a un certo punto. È un nodo di fondo: solo convincendo la Germania a riprendere la via dell'integrazione europea si potranno affrontare alla radice i problemi della moneta. E solo un governo italiano credibile potrà farsi valere.
Terzo. Rispetto formale verso i politici e il Parlamento. Il premier bada a non apparire arrogante con i partiti. È prudente e cortese soprattutto nei confronti di Berlusconi, sforzandosi di accentuare gli elementi di continuità con il governo di centrodestra (ben sapendo che l'esecutivo «tecnico» ne rappresenta in realtà l'antitesi). Cita l'«ottimismo» dell'uomo di Arcore e ne riceve in cambio un ringraziamento. Come un rompighiaccio che naviga nella banchisa, Monti sa di doversi aprire la rotta giorno per giorno. Anche per questo indica alle forze politiche un lavoro parallelo sulle riforme da svolgere in Parlamento. Quelle istituzionali e la legge elettorale. Un impegno più che sufficiente per arrivare al 2013.

Serbia: approvata legge finanziaria per il 2012
Prevista crescita Pil dell'1,5%
30 dicembre, 09:31
(ANSAmed) - BELGRADO, 30 DIC - Il Parlamento serbo ha approvato ieri sera la legge finanziaria per il 2012, che prevede un deficit del 4,25 per cento del Pil come è stato concordato con il Fondo monetario internazionale (Fmi). Lo ha reso noto la tv dello Stato, Radio Televizija Srbije (Rts).
 La legge di bilancio, votata solo da 128 deputati della coalizione al potere sui 250 che conta il Parlamento, stabilisce le entrate a 750 miliardi di dinari (7,24 mld di euro) e le spese a 890 miliardi (8,59 mld di euro). La finanziaria punta su una crescita dell'1,5 per cento del Pil nel 2012, e una inflazione massima del 5,5 per cento. Il deficit del bilancio sarà soprattutto finanziato da prestiti e questi fondi saranno utilizzati per la politica sociale e progetti di sviluppo.

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