lunedì 27 febbraio 2012

News/pm.27.2.12/ Effetti collaterali.

Istat: pugliesi e lucani abbandonano le vigne
L'UNIONE SARDA - Economia: In crisi l'industria del carciofo
Fipe: in netto calo la spesa alimentare degli italiani
Il pieno costa troppo: più che fare la spesa
Bot a ruba, rendimenti ai minimi dal 2010
Trst, oltrepadania. Welfare padano boicottato dai Comuni
Federazione Russa. Forziere di Russia
Federazione Russa. Una Russia, tre Paesi
Tunisia: la disoccupazione sfiora il 19%
Tunisia: disordini nord, fiamme in edifici



Istat: pugliesi e lucani abbandonano le vigne
G. Flavio Campanella
Diminuiscono sensibilmente gli ettari di terra destinati alla coltivazione vitivinicola in Puglia e in Basilicata. I dati del Censimento Agricoltura 2011 dell’Istat, elaborati da Winenews, descrivono un settore in cui, a livello nazionale, c’è un decremento del 12 per cento in dieci anni. La Puglia fa ancora peggio, superando di tre punti percentuali il dato italiano. In Basilicata, poi, siamo quasi al dimezzamento.
i dati di un decennio tremendo. Nel dettaglio, è la Sicilia (110.699 ettari nel 2010, nonostante un calo del 9,5%) la regione con la maggiore superficie destinata a questa produzione. Segue la Puglia con 96.750 ettari che, per l’appunto, registra un -15 per cento rispetto al 2000. Numeri impressionanti in Basilicata. Qui siamo a un decremento del 40 per cento circa (si è passati da 8.736 ettari del 2000 ai 5.508 del 2010).
«In effetti – afferma Donato Di Stefano, presidente della Confederazione Italiana Agricoltori di Basilicata – c’è stata una forte diminuzione, ma, è bene precisarlo, questo è avvenuto fuori dalle aree storiche dell’Aglianico del Vulture, della Terra Alta della Val d’Agri, dei vitigni del Grottino su Roccanova. Qui i quantitativi sono confermati. Resta, inoltre, inalterata la produzione del Doc materano».
«Altrove - continua Di Stefano - c’è stata senza dubbio una contrazione, dovuta sia alla ristrutturazione (esempio la conversione da Doc a Docg, che ha introdotto una selezione imponendo criteri vincolanti come il rapporto tra superficie e numero di viti), sia alla estirpazione, coincisa con gli indennizzi corposi della Unione Europea. Infine, ma non è di secondaria importanza, ci sono state difficoltà di mercato. Adesso si fa qualità oppure non è possibile reggere».
E infatti soltanto un’impresa su due in Italia ha resistito all’ultimo terribile decennio.
Sempre i dati del Censimento Agricoltura 2011 dell’Istat mostrano che nel 2010 erano in attività nella Penisola soltanto 383.645 aziende, ovvero il 51,5% in meno rispetto a quelle del 2000.
Il calo più drastico si è registrato nel Lazio, con la chiusura del 70,5% delle aziende e un numero di ettari quasi dimezzato nel decennio (-45,7% a quota 16.082). Ma in Puglia e in Basilicata è andata meglio per modo di dire: nel primo caso si è passati da 83.518 aziende a 47.901 con un calo del 43 per cento; nel secondo addirittura dalle 23.795 del 2000 alle 9.775 del 2010 con un regresso del 59 per cento.
tra le cause anche gli indennizzi della ue. «La riduzione del patrimonio vitivinicolo – dichiara Antonio Barile, presidente della Confederazione Italiana Agricoltori Puglia – è dovuto essenzialmente alla normativa comunitaria che ha stabilito indennizzi per l’espianto. La logica del legislatore europeo è stata quella di ridurre la produzione in modo che non sia eccedente rispetto ai consumi a livello europeo. Molti produttori a quel punto hanno quindi deciso di diversificare e coltivare altri prodotti. Si è determinata così una riduzione degli ettari destinati alla viticoltura. In ogni caso, in Puglia c’è una netta tendenza alla crescita dimensionale delle aziende che rimangono».
«Molto importante - precisa Barile - è anche il fenomeno cosiddetto dell’accorpamento. Se voglio impiantare tre ettari in più rispetto al mio limite posso farlo solo se compro i diritti da un altro produttore. Questo avviene molto spesso, in genere rafforzando produttività e qualità».
«In effetti – conferma il presidente della Cia Di Stefano – anche in Basilicata le aziende rimaste in attività hanno incrementato la superficie destinata alla viticoltura. Mi sento di poter dire che è stato raggiunto l’obiettivo di razionalizzazione».
scende in campo l’università lucana. In Basilicata, peraltro, non mancano progetti per ridare slancio al settore e per consentire di aumentare la efficienza degli ettari dedicati alla viticoltura. Preziosa, ad esempio, potrebbe rivelarsi l’iniziativa dell’Università della Basilicata: verrà attivato a breve un piano di sviluppo regionale per la riscoperta dei vitigni minori e l’attivazione di una ricerca triennale sulla contabilizzazione del ciclo del carbonio, in modo da verificare l’efficienza produttiva. Le ricerche di vitigni minori riguardano in particolare un ceppo di Aglianico nel Vulture Melfese e uno autoctono denominato in dialetto «sciasc’la’» in agro di Bernalda.
La verifica del ciclo del carbonio è una ricerca chimica che monitorerà varie aziende allo scopo di conoscere la massima efficienza produttiva dei terreni.
La produzione vitivinicola in provincia di Matera comprende (dati del 2011 non ancora definitivi, in peggioramento rispetto al 2010) 1.660 aziende e 1.350 ettari di vigneto, con una superficie media di 1,22 ettari. In quella di Potenza, invece, le aziende sono 8.600, gli ettari 3.500 e la superficie media di 0,42 ettari. La produzione lucana annua è di 230 mila ettolitri. Le aziende di imbottigliamento sono 88 e 20 quelle biologiche. Le etichette sul mercato sono 350.

L'UNIONE SARDA - Economia: In crisi l'industria del carciofo
27.02.2012
TRATALIAS. Le criticità del mondo agricolo emerse durante l'incontro con l'assessore Oscar Cherchi «Siamo in ginocchio, fatturato dimezzato rispetto alla scorsa annata» «L'anno scorso abbiamo chiuso con due milioni di euro fatturato, quest'anno non sappiamo neppure se riusciremo ad arrivare a un milione». Nella parole di Graziano Porcina, presidente della SulcisAgricola di Masainas, i numeri impietosi di una stagione del carciofo spinoso del Sulcis da dimenticare. Cifre che, sommate alle tante criticità del mondo agricolo nel territorio, sono emerse a Tratalias durante l'incontro con l'assessore regionale all'Agricoltura Oscar Cherchi. «In questa maniera - ha aggiunto Porcina - entro breve la maggior parte delle aziende sarà costretta a chiudere». Se poi alle calamità naturali e agli alti costi di produzione si aggiunge anche il calo delle vendite nei tradizionali mercato del Nord Italia per via della contrazione dei consumi a causa della crisi, gli scenari futuri per il carciofo del Sulcis non paiono certo rosei. «Un esempio? Per un ettaro di carciofi investiamo tra i cinque e i seimila euro. Sinora - sottolinea Andrea Carboni, presidente dell'OrtoSulcis di Villarios - ne abbiamo incassato meno di tremila. E così ormai andiamo avanti da anni, ma sino a quando?». Insomma, tra gelate e un mercato sempre più difficile da interpretare, l'annata dell'ortaggio principe del Sulcis sta per essere archiviata come una delle peggiori in assoluto. Sul fronte del Consorzio di bonifica del Basso Sulcis in perenne crisi finanziaria, invece, tranne qualche dichiarazione forse un po' troppo fuori dalle righe all'indirizzo delle passate gestioni dell'ente, è stato lo stesso assessore dell'Agricoltura Oscar Cherchi, approvazione della Finanziaria permettendo, a prospettare «l'attivazione di un finanziamento di risanamento e un'accelerazione del percorso di "esodo" del personale in esubero ad altri enti».

Fipe: in netto calo la spesa alimentare degli italiani
Negli ultimi cinque anni, gli italiani hanno ridotto la spesa alimentare di oltre 7 miliardi per i pasti in casa e di oltre 1 miliardo per quelli fuori casa. Ritorno ai piatti tradizionali, circa 5 euro a testa al giorno per mangiare in casa.
ID doc: 73927 Data: 27.02.2012 (aggiornato il: 27.feb.2012)
Gli italiani mangiano sempre meno: sia per gli oltre 15 milioni che si nutrono fuori casa (12 milioni a pranzo e 3,5 a cena), sia per chi lo fa in casa il piatto è più vuoto. Ma nel ridurre la spesa alimentare di oltre 7 miliardi di euro per i pasti in casa e di oltre 1 miliardo per quelli fuori casa negli ultimi cinque anni, gli italiani hanno però fatto attenzione ad eliminare il superfluo, limitando così gli sprechi e orientando di nuovo la scelta sui prodotti tradizionali. La crisi sta dunque consolidando un comportamento già in atto da tempo dovuto anche a nuovi stili di vita: primi piatti e contorni vengono preferiti ai secondi, aumenta il consumo di spuntini e merendine e in tutto si spendono circa 5 euro a testa al giorno per mangiare in casa. È quanto emerge da una ricerca Fipe-Confcommercio presentata a "Sapore 2012" nel convegno inaugurale della Fiera di Rimini dedicata all'alimentazione. "Sono dati - ha commentato il vicepresidente Fipe, Alfredo Zini - che in qualche modo ci aspettavamo. Il segreto per gli imprenditori della ristorazione è sempre quello di adeguare l'offerta alla domanda anche quando muta così profondamente nel corso dei decenni".
A tavola si preferisce la tradizione (+8% le specialità gastronomiche regionali negli ultimi quattro anni) alla novità etnica verso la quale non manca lo sguardo di curiosità di un italiano su quattro. Persiste solo in parte l'andamento salutistico, l'unico in grado da vent'anni di generare un leggero incremento di spesa, a dispetto comunque di un 10% della popolazione in stato di obesità e di un 35,5% in sovrappeso. La recessione si ripercuoterà anche sui consumi alimentari (-0,8%), anche se il fuori casa continuerà a fare da traino. Già ora nelle regioni del centro-sud si registra la sofferenza maggiore nei consumi familiari di alimenti e bevande, mentre il settentrione ha ridotto soprattutto pasti e consumazioni fuori casa. C'è meno pesce, caffè, bevande, pasta e cereali. A livello di spesa alimentare, finora si registrano 215 miliardi di euro (dati Istat 2010) di cui 142,5 per i pasti in casa con cui si acquistano soprattutto pane, carne, latte, latticini e uova. A livello di consumo, però il paniere sembra aver registrato un cambiamento: pesano di più pane e cerali, dolci e bevande, mentre scende il peso di carne, pesce e latte. A livello di spesa reale, quella alimentare è cresciuta poco rispetto ad altre: 0,7% di tasso medio annuo in quarant'anni a fronte di quella per le comunicazioni (+6,2%, ma va considerato il livello modesto di spesa in questo settore negli anni '70) e della salute (+5,6% anche per l'invecchiamento crescente della popolazione e per una maggior cura della persona). In poco meno di mezzo secolo la spesa alimentare è scesa del 20% nel budget destinato ai consumi, rendendoci sempre più simili al Regno Unito. È negli anni '80 e '90 che prende piede il pasto destrutturato. Si moltiplicano i luoghi dove mangiare velocemente, ma nel 2000 gli italiani sembrano volersi riappropriare del tempo da dedicare alla tavola con il fenomeno dello slow-food in contrapposizione al fast e di un ritrovato amore per la terra con l'acquisto dei prodotti direttamente dai contadini. A guidare la scelta per la spesa alimentare degli italiani adesso è il confronto più ragionato dei prodotti in riferimento a prezzo e la qualità con una maggiore disponibilità a cambiare marca. Al consumo alimentare viene destinato meno di un quinto dei soldi destinati a tutti gli acquisti (19% dei consumi che nelle famiglie giovani scende al 14%) con una situazione sempre più prossima al livello di guardia, ma paradossalmente più del 50% pensa che in casa si spenda molto per il cibo, forse influenzato psicologicamente dalla spesa del supermercato dove si cerca di riempire il carrello.

Il pieno costa troppo: più che fare la spesa
La verde è a 1,92 euro
di Alessia Manoli
Un pieno di benzina costa in media 90 euro. E' diventato più caro della spesa: un litro di verde vale più che un chilo di pane. Rialzi nel fine settimana
Ormai fare il pieno costa più che fare la spesa. Avere un'automobile e spostarsi, magari per andare al lavoro, è diventato un lusso. Infatti ad oggi il costo del pieno per un’auto media (50 litri), ha superato i 90 euro, cioè più della media di quanto si spende per fare la spesa. È quanto emerge da un'indagine della Coldiretti, secondo la quale il prezzo della benzina è aumentato del 17,4% in un anno, e quello del diesel è cresciuto addirittura del 25,2%. Insomma, il prezzo di un litro di benzina ha superato abbondantemente quello di un chilo di pasta o di latte.
La Coldiretti fa sapere che "Il costo familiare per trasporti, combustibili ed energia elettrica ha superato quello per alimenti e bevande". Per di più in un Paese in cui "L’88% dei trasporti commerciali avviene per strada, il record dei prezzi dei carburanti ha un effetto valanga sulla spesa, con un aumento dei costi di trasporto oltre che di quelli di produzione, trasformazione e conservazione", afferma l'associazione.
Durante il fine settimana i prezzi dei carburanti hanno registrato un rialzo, in seguito al secondo aumento consecutivo deciso venerdì da Eni: la media nazionale dei prezzi, tra i diversi marchi in modalità servito, vede la benzina a 1,811 euro al litro e il gasolio a 1,754. Una media data dai prezzi registrati nelle varie zone del Paese, dato che al Sud il gasolio arriva a costare 1,79 al litro e la verde al Centro costa anche 1,92 euro al litro.

Bot a ruba, rendimenti ai minimi dal 2010
Borse in rosso, spread intorno a 360
G20: in Europa progressi importanti, bene Italia e Spagna
 Draghi: l'Europa va avanti lenta, ma in modo sicuro
ROMA - Borse europee in rosso e differenziale Btp-Bund stabile intorno ai 360 punti base nella giornata in cui il Tesoro ha collocato Bot a 6 mesi e "flessibili" a 295 giorni per un totale di 12,25 miliardi di euro, il massimo importo previsto, con rendimenti in calo. Per la tranche a 6 mesi (collocati 8,75 miliardi di titoli) il rendimento è sceso all'1,202% (ai minimi da settembre 2010) rispetto all'1,969% dell'asta del 27 gennaio. La domanda ha superato l'offerta di 1,36 volte contro l'1,35 precedente. Per i titoli a 295 giorni il Tesoro ha collocato 3,5 miliardi di titoli con un tasso dell'1,29%.
 Draghi: Europa avanti lenta, ma sicura. Torna la fiducia dei mercati per la zona euro che ora «è un posto più sicuro». Il presidente della Bce Mario Draghi, al termine del G20, rileva il cambiamento dell'economia di un Europa che «si muove con lentamente ma in maniera sicura» e invoca una riforma del mercato del lavoro sull'esempio di quella realizzata in Germania. Draghi non cita i paesi (ma il pensiero di tutti va sicuramente anche al nostro, dove infuria il dibattito governo, forze politiche e sindacali) che «hanno un modello sociale il quale va rivisto perché protegge il posto di lavoro e non il lavoratore» e questo ha provocato una massa di disoccupati. Per questo occorre varare riforme strutturali che possono funzionare come dimostra l'esempio della Germania che ora vanta tassi di disoccupazioni meno elevati. Draghi, così come il vicepresidente e commissario Ue Olli Rehn ricordano poi il progresso fatto dall'Europa negli ultimi mesi e il cambiamento rispetto al vertice di Cannes. L'economia, infatti, dà segnali di stabilizzazione, sebbene alcuni Paesi (fra cui l'Italia) siano «in leggera recessione». Le grandi banche europee, dice Draghi, stanno mettendosi in regola con le richieste delle autorità europee su più alti livelli di capitale attraverso risorse fresche e senza «ridurre gli impieghi all'economia». Altro importante passo avanti compiuto dall'Europa è il risanamento dei conti con forti misure varate da Italia e Spagna e l'adozione, seppure in maniera faticosa, del nuovo modello di governance con l'adozione del fiscal compact, lanciato proprio dal presidente della Bce.
Il G20. L'Europa deve rafforzare le difese anti-crisi, solo dopo ci si muoverà per aumentare le risorse del Fmi (Fondo monetario internazionale). Il G20 prende atto degli «importanti progressi» compiuti a livello europeo e si impegna per favorire la crescita e l'occupazione in un contesto congiunturale di crescita «moderata» per il 2012, sul quale gravano anche elevati rischi al ribasso, come il prezzo del petrolio.
Segni di stabilizzazione dell'economia europea. «Vi sono segni di stabilizzazione per l'economia europea» che dovrebbe poter tornare alla crescita nella «seconda metà del 2012», mette in evidenza il commissario agli affari economici Ue, Olli Rehn. «L'Europa si muove in avanti, lentamente ma sicura» afferma il presidente della Bce, Mario Draghi, citando il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. «I paesi dell'euro area esamineranno la forza del loro strumenti anti crisi in marzo» e questo «sarà essenziale per la considerazioni in corso sull'aumento delle risorse dell'Fmi» afferma il G20 nel comunicato finale. Una data sulla decisione europea non è stata ancora presa: «Marzo ha 31 giorni» ha tagliato corto il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble. La riunione dell'Fmi di aprile sarà l'occasione per esaminare le strategie e le diverse opzioni per aumentare le risorse dell'organismo, che - secondo il G20 - dovrà terminare la riforma delle quote entro la riunione annuale del Fmi il prossimo ottobre. «Non siamo fissati su una cifra di 500 miliardi di dollari» evidenzia il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, rispondendo a chi gli chiedeva se fosse stato determinato l'ammontare dell'aumento. «Il Fmi - avverte il segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner - non sostituisce il firewall europeo».
 I progressi di Italia e Spagna. Lagarde e Geithner hanno ambedue sottolineato i progressi di Italia e Spagna. «Sono incoraggiato dalle azioni di Italia e Spagna» aggiunge Geithner. Secondo Lagarde, Italia, Spagna e Grecia hanno varato delle riforme importanti che hanno aiutato «a non far deragliare la ripresa» economica mondiale. L'economia è migliorata ma «non è ancora uscita dalla zona di pericolo» aggiunge Lagarde, menzionando fra i rischi e i motivi di preoccupazione l'elevata disoccupazione e i prezzi del petrolio. «Non si è parlato - evidenzia il vice ministro all'Economia, Vittorio Grilli - di attivare le riverse petrolifere strategiche» si è parlato di cooperazione e sforzi comuni per evitare misure drastiche.
Il G20 si impegna a sostegno della crescita e dell'occupazione. «Stiamo compiendo progressi nell'attuare gli impegni di Cannes. E ci siamo accordati oggi per rafforzare il monitoraggio per assicurare che i nostri obiettivi siano raggiunti. Per aggiornare le nostre azioni politiche, ci siamo accordati per sviluppare un piano d'azione in occasione del vertice di Los Cabos. Riconosciamo che l'occupazione e l'inclusione sociale sono al cuore delle nostre azioni, attendiamo di ricevere un rapporto delle organizzazioni internazionali su come la cornice» delineata dal G20 «possa contribuire alla creazione di occupazione».

Trst, oltrepadania. Welfare padano boicottato dai Comuni
A Trieste delibera per la «disapplicazione» della norma. Aderiscono Udine, Pordenone e Monfalcone a guida centrosinistra
Gianpaolo Sarti
 TRIESTE. La disobbedienza al welfare padano parte da Trieste e trova l’appoggio di Udine, Pordenone e Monfalcone. Tutti Comuni retti dal centrosinistra. Con una delibera di giunta, che sarà votata oggi, il Comune di Trieste decide di disapplicare la legge regionale nella pubblicazione dei bandi per la concessione dei contributi per gli affitti. Un atto politico che fa carta straccia della norma varata dall’esecutivo di centrodestra guidato da Renzo Tondo. Un provvedimento impugnato recentemente dal governo perché “anticostituzionale e discriminatorio” nei confronti degli stranieri: è la norma, la n°16 del novembre 2011, pensata proprio per correggere le direttive sulla residenzialità imposte in precedenza dalla Lega Nord e respinte dal governo Berlusconi, oltre che in sede europea, e dai tribunali del Friuli Venezia Giulia.
 Ora, per accedere ad esempio a carta famiglia, bonus bebè, assegni di studio Erdisu e alloggi Ater, l’attuale legge fissa 2 anni di residenza in Fvg per italiani e comunitari e almeno 5 in Italia, di cui 2 in regione, per gli stranieri. Paletti che lo Stato ha considerato ancora discriminatori. In questo momento un cittadino immigrato escluso da un contributo comunale non farebbe dunque troppa difficoltà a vincere un’azione civile. Un rischio che il municipio triestino non vuole correre. «La giunta – precisa la bozza della delibera – preso atto che il governo ha impugnato la legge 16/2011” in quanto “destinata a discriminare (…)” procede alla disapplicazione ritenendo che un diverso comportamento esporrebbe il Comune a citazioni in giudizio nelle quali risulterebbe soccombente, con l’obbligo di sostenere i relativi oneri».
 Il documento fa riferimento alla causa intentata nel luglio 2011 da 4 cittadini stranieri e un’associazione nei confronti di Comune e Regione. La sentenza del 5 agosto 2011, pronunciata dal Tribunale di Trieste, ha accertato la natura discriminatoria delle norme e ha ordinato ai due enti di “cessare la condotta discriminatoria posta in essere con il bando”, condannando il Comune a risarcire i ricorrenti e la Regione a trasferire i fondi. Per il sostegno ai canoni di locazione, la delibera cancella le regole regionali ed elenca i nuovi requisiti. Tra questi, qualora la persona sia residente a Trieste, si chiede la residenza durante il 2011 nell’alloggio per il quale viene chiesto il contributo. «Evitiamo i ricorsi e rimarchiamo il principio di giustizia ed equità», dice l’assessore alle Politiche sociali Laura Famulari.
 La mossa della giunta Cosolini non è nuova. Il Comune aveva portato a termine un’analoga operazione a giugno, allora si trattò di ristabilire i requisiti di residenzialità per l’assegno di natalità: fu il primo atto politico del neo-sindaco. Adesso, con la nuova legge regionale, il bis. Un colpo di scena che si trasforma in un’altra dichiarazione di guerra al centrodestra con eco in tutto il Fvg. Il leghista Massimiliano Fedriga, vice-capogruppo alla Camera e segretario provinciale, sta già dando ordini ai suoi in Consiglio comunale, «prepareranno un’interrogazione – annuncia – ma ora contatto i consiglieri regionali della Lega, perché quanto sta facendo il Comune non è ammissibile. Cosolini – prosegue – usa i soldi della nostra gente per privilegiare gli stranieri». Mentre il presidente dell’Anci Fvg Mario Pezzetta ricorda che «le norme discriminatorie mettono in difficoltà i Comuni», il capogruppo del Pd in Consiglio Gianfranco Moretton sollecita i sindaci a seguire l’esempio di Trieste «per non incorrere in contenziosi e per ottenere una legge rispettosa della dignità della persona». Il sindaco di Udine Furio Honsell è d’accordo: «Blocchiamo questa deriva, segnali del genere nel secolo scorso hanno portato alle conseguenze nefaste dei regimi». Il sindaco di Pordenone Claudio Pedrotti sta pensando di seguire l’indirizzo intrapreso dal capoluogo: «Fermiamo i sagaci leghisti». Anche Monfalcone partecipa alla rivolta. Il primo cittadino Silvia Altran ricorda la lettera del 13 gennaio recapitata al governo per chiedere l’impugnazione della norma, che poi avvenne.

Federazione Russa. Forziere di Russia
27 febbraio 2012
Roman Golubev, Rosinvest.com
Il settore dell’oreficeria nella Federazione è un piccolo gigante in crescita nel mondo dell'imprenditoria, minacciato oggi dal Sud Est asiatico
Quello dell’oreficeria è uno dei settori tecnologicamente più avanzati della produzione industriale russa. Nel territorio dell’ex Unione Sovietica il mercato dell’oreficeria era rappresentato da 25 aziende che soddisfacevano il fabbisogno dell’intero Stato e della popolazione russa nel settore della fabbricazione e della lavorazione delle pietre e dei metalli preziosi.
Secondo le stime dell’Ufficio centrale del controllo dei metalli preziosi, attualmente operano in Russia più di 4.500 aziende, due terzi delle quali sono costituite da laboratori artigianali di oreficeria. Nella produzione di gioielli sono impegnati più di 150.000 dipendenti.
Tra le maggiori aziende produttrici di gioielli figura la società Almaz-holding che ha assorbito le ex aziende di oreficeria sovietiche di Krasnoe Selo, Kostroma, Oryol; la fabbrica Topaz di Kostroma e il gruppo societario Adamas, al quale appartiene l’azienda orafa di Mosca.
Dal 2001 fino all’inizio della crisi della finanza mondiale la produzione di gioielleria in Russia è cresciuta stabilmente, sfruttando l’esperienza pluriennale della tradizione orafa russa e il forte bacino di materie prime disponibili. La produzione media annuale è cresciuta del 30%.
 Come risultato, nel 2011, la Russia si è aggiudicata il quinto posto nel mondo per la produzione di oro e il dodicesimo per la produzione di articoli di gioielleria.
Negli ultimi due anni il mercato della gioielleria in Russia è stato segnato da una brusca  impennata dei prezzi delle pietre e dei metalli preziosi. Così, il prezzo dell’oro è passato da 1.000 a 1.800 dollari all’oncia e quello dei diamanti da 66 a 124 dollari al carato. Tale fattore, insieme alla diminuzione sensibile del reddito reale della popolazione, ha causato un calo della produzione di gioielli del 30 per cento, una diminuzione dei volumi di gioielli in oro in vendita da 3,7 once a 1,4 once e uno spostamento della domanda dei consumatori verso prodotti a basso costo, come articoli di gioielleria in argento.
E se l’aumento dei prezzi delle materie prime per la fabbricazione e la lavorazione di gioielli è una caratteristica tipica del mercato globale, esistono però altri problemi più specifici del mercato della gioielleria russa.
Uno dei fattori frenanti del mercato in Russia, secondo Farit Gumirov, amministratore generale dell’azienda produttrice di gioielli Almaz-holding, sarebbe l’attuale sistema fiscale. All’atto dell’importazione delle materie prime (oro e pietre preziose) e dei macchinari e delle attrezzature d’alta tecnologia, le società russe hanno l’obbligo di pagare elevati dazi doganali, l’Iva e altre imposte sul reddito il cui effetto è quello di sottrarre ingenti capitali d’esercizio alle aziende, anche se le aliquote versate vengono successivamente rimborsate.
Gli oneri amministrativi imposti dall’obbligo di forniture settimanali e dalle procedure di tutela dei prodotti effettuate dall’Ufficio centrale del controllo dei metalli preziosi non fanno che aumentare i costi di trasporto.
Tutto ciò produce un innalzamento dei costi di produzione, rendendo i produttori di gioielli russi meno competitivi rispetto agli altri produttori stranieri.
Il secondo problema è quello dell’incremento, nel mercato russo, delle importazioni di prodotti di gioielleria provenienti soprattutto dai Paesi del Sud Est asiatico (Cina, Thailandia, India, Turchia). A detta degli esperti, circa il 35 per cento (pari a circa 50 tonnellate d’oro) dei prodotti di gioielleria in Russia sarebbe d’importazione, senza considerare un’area “grigia” del mercato che secondo alcune stime, andrebbe dal 50 all’80 per cento del mercato.
A causa dei bassi costi di produzione di quei Paesi, il prezzo al dettaglio dei gioielli aumenterebbe addirittura del 200 per cento, dopo l’espletamento di tutte le formalità doganali necessarie, di gran lunga inferiori a quelle russe. L’ingresso della Russia nel Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio) e la riduzione delle tariffe doganali sui prodotti importati potrebbero ulteriormente danneggiare la competitività della Russia nel mercato dell’oreficeria.
Per minimizzare le perdite provocate dalle importazioni nel settore della gioielleria, i produttori russi hanno stipulato contratti con le imprese del Sud Est asiatico per l'esportazione di materie prime russe, che poi rientrano come prodotti finiti in Russia.
 Per stabilizzare la situazione e creare le condizioni per una concorrenza più leale i produttori russi di gioielli hanno proposto di abolire le imposte doganali sulle importazioni di gioielli in pietre preziose, di attrezzature e macchinari d’alta tecnologia e di forniture di altri materiali, e di abolire, inoltre, l’Iva sulla produzione di lingotti in metalli preziosi.
Inoltre, al fine di contrastare l’importazione illegale di gioielli, l’Associazione dei gioiellieri russi ha proposto l’apposizione di uno speciale marchio di Stato sui prodotti di gioielleria importati senza il quale non sia possibile commerciarli liberamente.
A detta del presidente dell’Associazione dei gioiellieri russi, Vadim Yachmenikhin, tali misure d’intervento statale nel settore dell’oreficeria russa, potrebbero produrre un incremento nel consumo di oro per gioielleria pari a 150 tonnellate l'anno e nel volume di vendite del commercio al dettaglio pari a 500 miliardi di rubli.
Così, senza un intervento attivo da parte del governo per delineare e attuare una chiara strategia di sviluppo del settore dell’oreficeria, nell’immediato futuro il mercato russo della gioielleria corre il rischio di essere dominato dall’importazione, sebbene l’attività orafa costituisca uno dei settori principali dell’economia del Paese.

Federazione Russa. Una Russia, tre Paesi
27 febbraio 2012
Nadezhda Petrova, Kommersant-Dengi
Molti economisti russi, commentando le proteste di piazza, affermano che la Russia abbia raggiunto la maturazione necessaria per la decentralizzazione
Nessuno si aspettava né aveva previsto i manifestanti in piazza. Per lo meno, non a dicembre 2011. Tutti gli indicatori mostravano che il livello di capitale sociale – la fiducia reciproca tra le persone che determina la loro capacità a intraprendere azioni collettive per il bene comune – era troppo basso, come ha spiegato l’economista Aleksandr Auzan nelle recenti “Letture chodorkovskiane”. Come egli stesso ha affermato i social network rispecchiano il capitale sociale, allargando il cerchio della fiducia.
È una buona notizia. Il capitale sociale garantisce l’efficacia e la subordinazione del potere, la qualità dei servizi garantiti dal governo e la capacità giuridica delle istituzioni di cui la Russia è ancora gravemente sprovvista. È anche vero che uno dei meccanismi di tale supporto è fornito da quelle stesse “giuste elezioni” alla cui esistenza non crede nessuno dei “cittadini russi istruiti”.
È possibile ipotizzare che non siano stati gli esiti generali della votazione a mettere in moto i manifestanti. Oppure, come è convinto il presidente del Fondo “Peterburgskaya politika” (La politica di Pietroburgo, ndr) Mikhail Vinogradov “questi sono comizi non a favore di elezioni giuste, ma contro Putin”. O ancora che la colpa di tutto sia l’attuale stagnazione. Il risanamento troppo lento dell’economia dopo la crisi e la caduta dei redditi reali della popolazione nella maggior parte delle regioni (in media nel 2011 la crescita del Paese si è fermata a un simbolico 0,8 per cento) hanno generato la sensazione di una perdita di prospettive. A intensificare l’effetto è arrivata la decisione del premier di fare il bis alle presidenziali.
Circa il 38 per cento della popolazione della Russia vive in condizioni disperate, può contare soltanto sulle proprie forze e non prova neppure a ottenere qualcosa dal governo, secondo le analisi di Natalja Zubarevich, direttrice del programma regionale dell’Istituto Indipendente di politica sociale.
Le piccole città, con una popolazione inferiore ai 20.000 abitanti, i villaggi e le cittadine rappresentano, secondo la classificazione della Zubarevich, la Russia-3, un Paese di una povertà straordinaria in cui non esistono un capitale né sociale né di qualunque altro genere, “una zona di sopravvivenza nella quale non c’è alcun potenziale di protesta”. Russia-3 occupa un territorio vastissimo, ma nelle statistiche demografiche si sta restringendo: la popolazione emigra o muore.
Russia-2 è composta da città industriali medie e grandi. I redditi della popolazione qui crescono più lentamente rispetto al Paese nel suo insieme e le città perdono attrattiva per i loro abitanti. I giovani che sono andati via da questi centri abitati per ricevere un’educazione non vi fanno ritorno. In generale però in queste città, secondo la stima della Zubarevich, c’è una mobilità molto bassa. Si tratta del 25 per cento circa dei russi.
Infine, la Russia-1, la Russia delle grandi città: gli agglomerati di Mosca e San Pietroburgo, le città “miliardarie” (qui si concentrano le risorse economiche, politiche, culturali del Paese; al momento attuale sono dodici, ndr) e quelle con una popolazione superiore ai 500.000 abitanti. Sono diverse tra loro e una parte di esse mantiene ancora un indirizzo industriale, ma altre hanno già intrapreso il cammino della deindustrializzazione. Vi abitano molte persone istruite e in rapporto molte persone con redditi alti. Il processo di trasformazione post-industriale ha generato una classe media, i detentori principali del capitale sociale aperto.
Queste persone sono in buona parte il frutto dei “pasciuti anni zero” (vengono così definiti gli anni dal Duemila in poi, duranti i quali la Russia ha subito grandi trasformazioni e un’enorme crescita, ndr). Negli ultimi dieci anni la Russia è diventata “un Paese con un benessere sempre maggiore, mentre le istituzioni sono peggiorate sempre di più”, osserva Leonid Polishuk, responsabile del laboratorio di analisi applicata delle istituzioni e del capitale sociale dell’Alta Scuola di economia.
“Tuttavia lo sviluppo economico, la crescita del benessere, l’urbanizzazione, l’istruzione, la modernizzazione in generale rafforzano la classe media, e società di questo genere mostrano un interesse più attivo verso la crescita e le buone istituzioni. Esigono un governo responsabile. In tali contesti gli obiettivi delle persone non si limitano al raggiungimento del benessere personale, ma alla pretesa di un ambiente circostante favorevole”.
A livello di capitale sociale esercitano la loro influenza la struttura della popolazione, il livello di istruzione e forse anche la storia della città. Una delle componenti del capitale sociale è rappresentata dal sistema dei beni di valore, che è assolutamente trasmissibile.
Ciò significa che le istanze legate al capitale sociale riguardo alle istituzioni sono anche in grado di allargarsi oltre i confini di Mosca e San Pietroburgo da cui hanno avuto origine. “Qualunque modernizzazione mette in moto un processo diffusivo. Negli anni Duemila tale diffusione si è potuta osservare in alcuni aspetti del comportamento consumistico: i cellulari, internet, le catene di centri commerciali sono arrivati fino alle capitali delle regioni. La modernizzazione politica si muove esattamente nello stesso modo” ha spiegato Natalja Zubarevich alle “Letture chodorkovskiane”. La direttrice ritiene che questo processo possa subire un’accelerazione poiché “la decentralizzazione deve essere uno degli slogan dei manifestanti”.
Le richieste, apparentemente politiche, appaiono in realtà la risposta a un’istanza profondamente economica: il pericolo di uno scenario di stagnazione. Una crescita qualitativa non è possibile senza istituzioni efficienti, diritti inalienabili sui beni, un sistema giuridico funzionante e un potere democratico.
“La tendenza è tale per cui i Paesi con una democrazia sviluppata hanno iniziato a trasferire le funzioni di governo del potere centrale più in basso, a livello di gruppi professionali cittadini. È ciò che sta facendo per esempio David Cameron con il suo progetto di ridurre per il 2013 le dimensioni del settore statale del 40 per cento. Tali riforme sono portate avanti all’insegna del motto "Creiamo una Grande società invece di un grande governo". Nella situazione attuale l’apparato statale deve essere piccolo e lo strato burocratico sottile, in quanto nessun governo da solo non può già più fronteggiare il dinamismo crescente dell’ambiente circostante” – spiega Natalja Smorodinskaya, responsabile del settore dei poli di crescita e delle zone economiche speciali presso l’Istituto di Economia dell’Accademia russa delle scienze.
“A conti fatti il compito consisterebbe nell’accelerare la formazione di cluster regionali ognuno con la sua specializzazione in grado di definire le posizioni concorrenziali del territorio. Le reti di cluster si caratterizzano per una particolare flessibilità che permette all’economia di reagire più velocemente ai cambiamenti esterni. Non è però possibile costruire dei cluster efficaci dall’alto; essi si formano sul posto, sotto forma di iniziative collettive di progettazione. Per questo motivo il governo deve preparare un ambiente giuridico favorevole in modo che tali iniziative possano avere luogo ovunque. A tale scopo è necessaria anche una liberalizzazione amministrativa che incentivi le relazioni in orizzontale”.

Tunisia: la disoccupazione sfiora il 19%
Drammatici i dati sui giovani senza lavoro
27 febbraio, 11:05
(di Diego Minuti) (ANSAmed) - TUNISI, 27 FEB - La disoccupazione in Tunisia, il principale problema del Paese, sta raggiungendo endemici livelli drammatici, con dati che per i giovani sono ormai da crisi conclamata. I risultati dell'indagine sul lavoro, compiuta dall'Istituto nazionale di statistica tra il secondo e il quarto quadrimestre dello scorso anno, sono inequivocabili e confermano un andamento negativo che, ormai, procede a ritmi costanti da mesi, sottolineando, semmai ce ne fosse bisogno, che il lavoro e' ormai l'emergenza primaria del Paese, che sta attraversando un momento delicatissimo per quanto riguarda la dialettica tra datori di lavoro (pubblici e privati) e rappresentanze sindacali. Secondo l'indagine dell'Istituto nazionale di statistica, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 18,9 per cento, equivalenti a circa 738 mila disoccupati, dove, come gia' registrato nelle precedenti statistiche, il 72,1 per cento e' costituito da giovani, con una netta prevalenza delle donne tra i senza lavoro.
 La disoccupazione, peraltro, colpisce anche i settori piu' scolarizzati della societa' tunisina, con un tasso che supera il 30 per cento di senza lavoro che sono titolari di un diploma di scuola superiore o di una laurea.
 Analizzando il fenomeno nella sua localizzazione geografica non si puo' non notare che, tra le singole aree del Paese, esistono delle enormi differenze nella percentuale delle persone attive rispetto al totale della popolazione. La disoccupazione, difatti, colpisce di piu' il Sud del Paese (29,5 per cento) e meno il Centro-Est (11,9 per cento). In mezzo alla ''forbice'' stanno le altre aree: il Centro-Ovest, con il 26,9 per cento; il Nord-Ovest, con il 22,3 per cento; il Distretto di Tunisi, con il 17,2 per cento; il Nord-Est, con il 14,5 per cento. La popolazione che ha un lavoro viene stimata in tre milioni e 909 mila persone, di cui solo il 27,3 per cento sono donne, anche se si registrano indicatori in generale di crescita rispetto all'aumento dei soggetti che producono reddito. I settori dove si sono registrati aumenti dei posti di lavoro sono stati quelli dell'agricoltura e della pesca, cosi' come quello dei servizi. In crescita anche gli occupati nelle industrie (manifatturiere e no).(ANSAmed).

Tunisia: disordini nord, fiamme in edifici
Proteste probabilmente legate a ritardi soccorsi inondazioni
27 febbraio, 11:34
(ANSA) - TUNISI, 27 FEB - La citta' di Bou Salem (nel Governatorato di Jendouba) e' stata teatro, la scorsa notte, di violenti disordini, culminati con l'assalto, il saccheggio e l'incendio di alcuni edifici pubblici da parte di centinaia di persone che, secondo alcuni testimoni, sarebbero state animate da motivazioni politiche da parte di persone venute da fuori.
Per altre fonti, invece, la protesta sarebbe da mettere in relazione alla lentezza nell'opera di soccorso per le inondazioni che stanno interessando la zona.

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